I primi giorni dopo la fine
The glitter on the snow, the place to always go
È il 2009 e su Mandy.com appare un annuncio per un posto di lavoro. È indirizzato alla classe creativa londinese, a tutti coloro la cui apparizione in quartiere fa aumentare gli affitti. L’annuncio recita: «Idle hands wanted for mysterious job». Non ci sono altre specificazioni sulle mansioni che dovranno essere svolte durante le ore di lavoro, si parla vagamente di un posto di lavoro in un magazine nascente, False Prophet, ma le informazioni sono vaghe. In calce all’annuncio si trova una mail a cui inviare le candidature: [email protected].
Leggenda vuole che la mail venne tempestata di curriculum vitae. Era appena passata la bufera del 2008 e si era lasciata alle sue spalle un cognitariato in rovina pronto a farsi assumere da chiunque, a qualsiasi costo. Ogni annuncio di lavoro andava ad azzannare il ventre molle di una fascia demografica giovane e disperata, l’emorragia di candidature era inevitabile, prevedibile. Per di più, questo annuncio aveva una preda ben precisa. Londra era divenuta un polo brulicante di post-adolescenti pronti a salivare a comando per una briciola di coolness. Se la depressione economica era generalizzata e globale, le metropoli raccoglievano e amplificavano la miseria, Londra in particolare. Lo sprawl ultra-urbano concentrava l’avanguardia dei giovani creativi, creando, de facto, punti di saturazione decentrati, locali, temporanei di ormoni, sogni infranti e ketamina. Sparare nel mucchio era facile, non richiedeva alcuna mira. Mandy.com creava la patina di credibilità hipster e l’annuncio aveva quel je ne sais quoi nu-rave nu-esoterico nu-kitsch. Sembrava un video dei Klaxons, nessuno avrebbe fatto domande.Al suono della campanella si sarebbero messi a sgomitare. Fin dove si sarebbero spinti?
Fra tutte le candidature, solo alcune ricevettero una risposta. Ai più fortunati, si chiedeva di prendere contatto con altri candidati. Gli si forniva il numero di telefono e l’indirizzo. A volte qualcuno dall’altro capo della corrispondenza organizzava un incontro vero e proprio. La richiesta era sempre la stessa: spezzare psicologicamente il proprio avversario. Romperlo, con ogni mezzo. I più sfortunati si ritrovarono convocati in stanze buie, umide. Urla venivano sparate da altoparlanti nascosti. Venivano sottoposti a ore di torture psicologiche, o così si dice. Alcuni parlano ancora oggi di waterboarding.
Come i più svegli fra voi avranno già intuito, non c’era alcuna offerta di lavoro e, con tutta probabilità, la storia di [email protected] è quasi completamente inventata. Sarebbe bello avere l’innocenza per credere a cose del genere, ma suppongo che tutti noi ce la siamo lasciata alle spalle molto tempo fa. Questa storia è l’inizio della saga del Cult of Saturn, il più grande rabbit-hole della storia di internet, un vero e proprio labirinto di false piste e vicoli ciechi (da qualche parte si può addirittura trovare un file .zip contenente più di 5GB di testi, poesie e indizi, scaricatelo a vostro rischio e pericolo). Dico che questa cosa è «quasi completamente inventata», perché qualcosa di vero in tutto questo, però, c’è. C’è Frank.
Frank (il suo cognome cambia ad ogni iterazione della storia, sarebbe inutile tentare di individuarlo) era un appassionato di lepufologia, dottrina esoterica inventata da Robert Anton Wilson nella trilogia Illuminatus! e nella sua allucinata psicologia quantistica, e fu lui, con tutta probabilità, a diffondere i germi del mito della mail, dell’annuncio e delle torture. Questo mito non fu, però, diffuso senza scopo. Frank aveva fondato un culto, una cospirazione votata a Saturno, divinità cannibale, infanticida e ctonia, simbolo degli aspetti più biliosi e tremendi della vita umana. Nel 2009, poco prima della sua diffusione virale, il culto contava una trentina di persone, o così si dice. La storia della mail e dell’annuncio doveva essere il primo passo di una complicatissima iniziazione alla dottrina del culto di Saturno, iniziazione che comprendeva una quantità incredibile di indovinelli e una simbologia spesso perfettamente delirante.
La tesi essenziale di questo culto, tesi, oggi, diffusa capillarmente in tutta la cospirosfera, era che il mondo fosse il regno naturale di Saturno, un luogo di morte perenne, e che tutte le élite fossero da sempre composte da devoti di questo doppio oscuro del buon Dio monoteistico. Frank voleva salire sul carro dei vincitori e unirsi al culto nero dei poteri forti, democratizzandolo in un certo senso. Per diffondere il culto, Frank aveva deciso di trasformarlo in un ARG, un gioco basato sulla costruzione e sullo sviluppo nel mondo reale di realtà parallele, attraverso cui avrebbe disseminato i fondamenti del suo culto in giro per il web. Sperava che questa strategia avrebbe condotto a lui le persone adatte, le più «pronte».
Questa tattica era, però, solo apparentemente avveniristica. Frank, infatti, emulava l’operato di una schiera nutrita di altri wannabe cultisti e prankster assortiti che stavano cercando di diffondere, nello stesso periodo, i loro credo dementi attraverso gli spazi proteiformi della rete. In un mondo che prometteva di finire all’alba del 2012, figure come Nexialist avevano iniziato, da ormai qualche anno e con metodi spesso molto poco ortodossi, a utilizzare la rete come il proprio parco giochi in cui creare vere e proprie stanze delle delizie, in cui secedere dal resto della realtà consensualmente accettata, fondare i propri pseudo-culti e sopravvivere alle apocalissi all’orizzonte. Internet si stava riempiendo di spazi decentralizzati e di uno strano esotismo, per usare un termine vagamente lurido, staccato dal mondo «di sopra», ma, per forza di cose, transglobale, in cui valevano solo le istruzioni pagane di un arcipelago di micromovimenti e stranezze varie, uno sciame di piccoli gruppi impazziti e barbari. Stava nascendo un nuovo continente dello Spirito, un luogo in cui lasciarsi la noia e le leggi del mondo alle spalle una volta per tutte e farla finita con il giudizio della realtà. Strappando uno stralcio da Digital Folklore, un pezzo ormai cult della cultura post-post-internet, queste stanze senza centro erano «luminose, ricche, personali, lente e in perenne costruzione. Era una rete di connessioni immediate e link estremamente personali. Ogni pagina era costruita sulla soglia del domani».
Chiaramente, queste stanze e questi culti sono ormai cosa retro. Fanno parte di una cultura estinta, schiacciata sotto il peso della monocultura digitale del Web 2.0; un American Apparel Horror Story, morta con gli anni Duemila. Il loro spettro, però, sopravvive all’obsolescenza: potremmo usare in modo più perverso le infrastrutture che sorreggono la nostra vita, abbiamo tutti gli strumenti per frantumare il mondo e vivere su nuove isole felici. Si può rubare la fiamma della rete e di tutti gli altri strumenti del mondo moderno e costruire piccoli gruppi. Possiamo creare minuscole schegge folli, per poi inabissarci e riemergere, un giorno, legione…
Al di là del complesso di Napster
Nella mia mente, Artetetra è uno spazio familiare, un posto in cui sono già stato mille volte. È un’entità fortemente legata ad un’estetica che parla ad una parte del mio cervello profondamente danneggiata, ma a cui tengo molto. La stessa parte del cervello a cui si appiccicano certe storie.
Artetetra è un’etichetta discografica caratterizzata da un esotismo alieno e nata dal folklore digitale da cui emergevano fenomeni assurdi come Frank e gli altri cultisti. Ascoltando i dischi che hanno pubblicato in questi anni, come l’operazione a microfono aperto di Marimba, il gabberismo ur-cronico/futurista di Dj Balli & Giacomo Balli, l’operetta rumorista sull’estinzione di massa delle api di Kuthi Jin o la più recente installazione di Exotique Ésotérique, un patchwork di riddim in ultra-CGI, è facile notare, come trait d’union, quella paranoidelia da persone totalmente bruciate dall’allucinazione sintetica della rete, dalla pratica di scivolare da hyperlink a hyperlink assimilando e mettendo insieme informazioni totalmente irrelate. Se si ascolta bene, si può sentire il profumo di plastica verde sciolta sotto il sole e di server in fiamme. Come scrisse Simon Reynolds, Artetetra è caratterizzata da «cosmopolitismo a cuor leggero», una celebrazione dell’esotico digitale nella sua forma più schizofrenica, fuori controllo e pure un po’ oscena. Artetetra è un casino tropicale post-geografico.
Proprio in virtù di questo, la loro ultima pubblicazione ha, per quanto mi riguarda, qualcosa di strano. Per quanto Artetetra possa essere schizofrenica e imprevedibile, c’è qualcosa di dissonante, di fuori posto nella pubblicazione di Alkisah, ultimo disco del duo indonesiano art-doom Senyawa.
Nel 2018, i Senyawa avevano fatto un’irruzione violenta sulla scena indie mondiale con un disco tremendo, Sujud. Unione terribile di ultra-contemporaneo e arcaico, di drone, sludge e folklore dell’arcipelago indonesiano, sorretta dagli strumenti artigianali da Wukir Suryadi e sventrata dalla caverna esofagea di Rully Shabara, Sujud, che significa prostrazione,era una visione di un futuro primitivo zerzaniano in cui la modernità e il mondo intero erano ormai implosi su se stessi. Dalle vibrazioni nella gola di Shabara si poteva vaticinare la fine di questo mondo. L’epica che sorreggeva il disco era mossa dal desiderio mostruoso di ritornare alla terra e alla cenere, dal bisogno profondo di purificazione del mondo dalle megastrutture accidentali che lo avevano orribilmente storpiato. Ci si trovava circondati da apocalisse in ogni istante. Ogni traccia era pervasa da un profondo senso di sacrificio, sembrava di assistere a un rito di sangue o a un salasso per prepararci ad una salute superiore, più totale e più disumana. Sujud lasciava in bocca il sapore di lamiere, vetri infranti e fango, i resti di un mondo arso.
Ovviamente, la psichedelia tutta palme di plastica e allucinazioni transglobali di Artetetra ha poco o niente a che vedere con questa mania distruttiva, con questo eco-apocalitticismo assoluto. Anche quando i dischi di Artetetra si erano avventurati in sentieri escatologici, come nel caso del già citato Kuthi Jin, erano sempre apocalissi microplastiche al silicio, eventi assolutamente innaturali e celebrati proprio in virtù della loro artificialità. Per quanto ci possa essere un comune interesse nelle potenzialità stranianti del folklore, l’uscita di Alkisah, che il duo descrive su NME come il seguito spirituale di Sujud, fugando la possibilità di metanoie, sembrava la collisione di due mondi totalmente diversi.
Il senso di dissonanza aumentò quando iniziai a vedere il disco apparire su altre etichette. Prima di tutto, su Communion, collettivo archeo-psichedelico milanese, a cui va un pezzo del mio cuore e pure qualche mio neurone. Fin qui, la dissonanza poteva trovare delle ragioni per farsi contenere. Communion, con le sue strane cyber-etnografie sonore, è una realtà molto vicina ad Artetetra, metà di una sizigia. In un certo senso, Communion ricostruisce il passato profondo e alieno dell’universo da cui proviene Artetetra, produce strani animali che vomitano geroglifici. La pubblicazione del Alkisah poteva essere facilmente derubricata come un banalissimo gemellaggio nato da evidenti affinità. Per di più, Communion aveva già collaborato con una metà dei Senyawa, Rully Shabara, in una recente pubblicazione, una stranissima collaborazione fra De Santis Shabara e l’artista audio-visivo Lorem, qualcosa di molto simile ad un dialogo fra lingue morte e intelligenze aliene, intitolato A Thousand Steps.
Poi, però, apparve su Phantom Limb. Le connessioni si facevano troppo scarse per contenere il dissidio cognitivo. Poi anche su les album claus. E poi ancora, sulla minuscola gallettarecords. Il disco appariva ovunque, a ogni apparizione con una nuova copertina, una nuova descrizione, in diversi formati, ricombinando la sua identità ad ogni iterazione. Alkisah sembrava star infettando varie realtà in tutto il mondo, modificando la natura dell’organismo che lo ospitava, alternandolo in maniere inaspettate. Spesso, appariva con lo slogan DECENTRALIZATION SHOULD BE THE FUTURE.
Come ci racconta il New York Times, la band, colpita dalle conseguenze del lockdown pandemico, aveva deciso di decentralizzare completamente la diffusione del proprio album. Più di 40 etichette risposero all’appello, proponendo una versione diversa dell’album. Alkisah si diffuse come una spora velenosa in tutto il mondo (qui trovate una mappa delle etichette coinvolte).
A ogni etichetta venne, inoltre, chiesto di riarrangiare il materiale originale, di creare qualcosa di totalmente nuovo con i suoni di Alkisah, coinvolgendo gli artisti a loro più vicini e radicando le varie apparizioni del disco in piccole comunità locali che avevano il compito di infondere il proprio folklore al disco. Oggi, fra l’altro, si celebra l’uscita della versione di Artetra e Communion, un disco di remix in cui il lavoro dei Senyawa vibra, totalmente trasfigurato, dai vialoni della Milano-Moloch, con il synth-punk hi-fi dei Wisecrack e il junglismo astratto di Katatonic Silentio, fino alle spiagge nere del New Southern Gothic italiano, con il death-industrial mediterraneo di Mai Mai Mai e i rituali elettronici per cripta di Loris Cericola, passando per i field recording desolati di Naturalismo.
La dissonanza che io percepii davanti a questo evento, quella ricerca di coerenza a tutti i costi fra Artetetra e Senyawa era chiaramente una forma di complesso di Napster, preso, come l’ultimo fra i batteristi dei Metallica, dall’eterno dissidio interiore fra il Padre Discografico, immobile, unico e chiaramente caratterizzato, e il ribellismo sterile del download anonimo. L’idea che un disco rifiutasse di essere una cosa sola, totalmente brandizzata e fagocitata da un’etichetta, per quanto indie possa essere, e, allo stesso tempo, cercasse di stabilire connessioni, allacciare nuovi rapporti, scatenare frizioni e creare una comunità temporanea e volatile, in cui pubblicato e pubblicante venissero trasfigurati da una rete di mille altre relazioni aperte non mi era nemmeno passata per l’anticamera del cervello. La possibilità che qualcuno potesse, oggi, piegare le piattaforme e creare nuove forme di esistenza ed espressione mi coglieva impreparato. La sola prospettiva di una decentralizzazione riuscita, di una molteplicità realmente realizzata e di una liquefazione delle identità coinvolte nella catena di montaggio dell’industria culturale mi sembrava di una radicalità incredibile, per quanto fosse, forse, il modo più logico e più naturale di sopravvivere in un mondo come il nostro.
Per quanto l’Autore sia dato per morto da ormai molti anni, vedere una rete così fragile e così feconda, totalmente decentralizzata e frammentata, dietro a un’opera d’arte è, oggi, cosa rara. Dopo la sbornia conceptronica, dopo mille sample e «pratiche artistiche» inframezzate da pippe pretesche sulle virtualità delle rizomatiche molteplicità, vedere un progetto in cui l’etica libertaria del contagio reciproco e della frammentazione viene messa davvero in pratica, tentando di attaccare senza mediazione e con l’aiuto di comunità instabili le abitudini inscritte nelle infrastrutture di distribuzione e brandizzazione dei prodotti mediatici, è uno shock positivo, la chiara dimostrazione di quanto ancora potremmo fare, direttamente e senza attendere l’approvazione di alcuna autorità superiore, con gli strumenti che già teniamo fra le mani. È sicuramente una doccia fredda scoprire quanto abbiamo teorizzato, e quanto poco siamo stati disposti ad agire e inventare.
E, ascoltando il disco, viene spontaneo chiedersi: come avrebbe potuto essere altrimenti?
Cosa significa «potere» quando la fine è vicina?
Una banda di nomadi si affretta verso l’estuario coperti di armature fatte dei resti del mondo che era. Il paesaggio intorno a loro è uno spazio che lentamente perde ogni segno della presenza umana. Palazzi abbandonati, ricoperti di muschio e attraversati da animali selvatici. Ogni artefatto umano marcisce rapidamente, divenendo tutt’uno con il resto della natura. È la carcassa del regno dell’uomo su questa Terra. Ciò che rimane di una potenza terribile ormai tramontata. I sopravvissuti si muovono euforici, invasati e sopraffatti dai suoni di un pianeta che non ci appartiene più. Fuggendo dalla propria desolazione e inoltrandosi nel cuore del mondo cercano di mettere in piedi qualcosa che possa sopravvivere fra le ceneri, fra i liquidi scuri delle sconfitte, del rimorso e del collasso.
Questa, all’incirca, è la storia su cui ruota Alkisah. Dopo la prostazione di Sujud, dopo la monolitica distruzione di ogni umanità, Alkisah sembra il racconto del silenzio che viene dopo la fine, o meglio dei rumori che ancora cadono e echeggiano in un mondo totalmente desertificato. Questo disco pullula di non-morti che cercano di tenere viva la fiamma di una qualsiasi speranza in un pianeta ormai devastato e nel mezzo di una fauna perseguitata dallo spettro di un’estinzione totale senza ritorno. I suoni, a volte straordinari, altre volte agghiaccianti, prodotti dagli strumenti «fatti in casa» del duo sembrano mimare le lamiere trascinate, i tendini strappati durante la caccia e la terra percossa nei disperati tentativi di rabdomanzia su un suolo arido e duro come il ferro. I blopblopblop che sorreggono Menuju Muara sembrano i rimbalzi degli ultimi pneumatici delle ultime macchine rimaste sul ciglio della strada, e i rumori stridenti che si inseguono in Fasih non possono non evocare la foresta e l’inumano che avanza, sradicandoci a uno a uno.
La cosa forse più spaventosa, però, è la voce di Rully Shabara. Pur essendo sempre stata una delle attrazioni principali della musica dei Senyawa, con la sua profondità atroce e le sue melodie strazianti, in quest’ultimo disco raggiunge un livello di disumanità sconcertante. In alcuni momenti, specialmente e paradossalmente quando c’è soltanto la sua voce a sovrastare la musica, sembra quasi uno strano coro che esce da una sola gola, i gorgoglii di una legione. Canzoni come «Alkisah I» sono letteralmente compresse sotto il peso della sua voce, schiacciate dalla gravità della sua sola presenza. C’è qualcosa di estremamente magnetico nel modo in cui Shabara canta il mondo esausto, i giorni dopo l’apocalisse. È come se, finito il dominio dell’uomo sulla Terra, anche le corde vocali della specie che canta la sua sopravvivenza fossero state strappate dalle grinfie delle sue stesse mani, riscoprendo tutto lo spettro delle sue possibilità, le zone d’ombra vibrazionali che le si nascondevano dentro. La voce di Shabara abita la notte eterna dopo di noi, quello spazio che Blanchot definiva «Lo spazio senza limite di un sole che non testimonierebbe a favore del giorno, ma della notte liberata dalle stelle, molteplice notte»
Leggendo i testi, poi, è difficile non immaginarsi una sorta di scenario fantasy, un racconto molto simile a quel grimdark criptico e antiumano reso celebere dall’iper-sadismo narrativo di Dark Souls e divenuto ormai un genere a sé stante nella letteratura pulp contemporanea, specialmente sotto il peso della cultura pop post-Game of Thrones. Non si trovano mai descrizione dettagliate, ma solo accenni vaghi ed evocazioni delle atrocità. I testi di Alkisah non sono descrizioni di un mondo preciso, ma giocano con i registri dell’epica e della visione mistica, cercando di accecare l’ascoltatore e distruggerlo. Se sono descrizioni di qualcosa, sono le descrizioni di colui che è stato reso cieco dall’enormità di ciò che ha visto. In Alkisah, si parla sempre e solo di regni generici e senza nome, che stanno per ogni nazione che abbia mai osato alzare il capo sul palcoscenico della Storia, e di distruzioni e fiamme strappate dalla gabbia del tempo lineare e rese monito eterno per ogni vivente. I protagonisti dei racconti sono sempre condannati a morte, creature fragili e più che mortali che lottano contro il proprio destino. Anche quando si parla di fenomeni estremamente vicini a noi, come le torri d’avorio della ragione umana costruite su pile di corpi e oceani di sangue, raccontate in «Istana» o l’impotenza della sinistra globale, derisa in «Fasih», lo si fa sempre come parlando al cospetto dell’eternità, come se li si stesse gettando in pasto ad un’oscurità più profonda e più tremenda di quanto la nostra mente sia disposta ad accettare. Lo si fa, insomma, parlando sempre dal punto di vista della fine.
Eppure, non bisogna lasciarsi accecare. La potenza di Alkisah, dopotutto, sta nel saper usare questa eternità, nel saperla piegare a bisogni reali e assolutamente contemporanei. La fine del regno dell’uomo e i viaggi dei sopravvissuti non sono, infatti, metafore – non vogliono rappresentare eventi possibili in un futuro remoto. Non sono allegorie o altre forme codarde di duplicazione della realtà. Le anime che popolano Alkisah sono le ombre pesanti del collasso reale che ci circonda, evocate per porci le uniche domande che valga la pena chiedersi davanti alle minacce che ci si parano davanti ogni giorno.
Il disco si apre chiedendo all’ascoltatore: «che cosa significa potere quando la fine è vicina?». Cosa significa avere il controllo e fin dove siamo disposti a usare il nostro potere per sopravvivere? Canzone dopo canzone, i Senyawa non lasciano andare l’ascoltatore, nemmeno per un secondo, e continuano ad assillarlo con questioni sempre più pressanti: come ci stiamo preparando al futuro prossimo? Siamo pronti? Quanta realtà siamo disposti a mandar giù prima di uscire di senno? A ogni passo, gli abitanti di Alkisah ci ricordano che le nostre idee e le nostre speranze non ci salveranno dal peso del mondo e del futuro, saranno le nostre azioni e le comunità che decideremo di creare e tenere in vita a giudicare il nostro destino.
La decentralizzazione praticata nella distribuzione del disco è, dunque, uno dei possibili metodi di sopravvivenza su cui i Senyawa sembrano interrogarsi e interrogarci, il più superficiale, il più ovvio e il più immediato. Letto alla luce dei suoi suoni e dei testi, l’arcipelago di etichette e comunità locali sembra parte di un piano più complesso, la costruzione di una rete di mutuo soccorso per i giorni neri che verranno – rete che, ad esempio, si estende, già oggi, sotto il nome di Senyawa Mandiri, in piccole reti di produzione di beni di prima necessità autonome. Il disco è, in tutto e per tutto, l’inizio di un lungo percorso di autonomia e autodisciplina, un modo per diffondere un’etica comunitaria, antiautoritaria e post-globale, all’altezza del futuro che ci viene incontro. Un modo, fra i tanti, per pervertire e sabotare le infrastrutture in cui siamo immersi e costruire comunità temporanee capaci di una convivialità che sappia resistere alla fine del nostro mondo e lo sconvolgimento dei nostri modi di vita. «La fine è vicina». Saremo all’altezza delle mutilazioni, del dolore, delle amicizie disperate, delle ferite, del destino e della fine?