I nomadi digitali vogliono gentrificare il mondo
Quando il mondo è stato investito dalla pandemia, ormai tre anni fa, molti dei riferimenti classici dell’equilibrio vita-lavoro sono saltati. Forse era qualcosa che bolliva in pentola da tempo, una necessità inespressa di uscire da quelli che sembrano i binari stretti della routine post-capitalista. Le persone, quei colletti bianchi incastrati in lavori intrisi di monotonia, hanno scoperto il tempo per sé, l’autogestione dei ritmi lavorativi, l’assenza delle ore vuote e non retribuite del pendolarismo. Collettivamente abbiamo iniziato a discutere della necessità di ridefinire il tempo e lo spazio del lavoro e il rapporto degli individui con l’attività produttiva.
Il fenomeno del cosiddetto nomadismo digitale non è nato con la pandemia. Si tratta di una tipologia di lavoratori che compare nel discorso mediatico già da alcuni anni. Si tratta di persone che svolgono la loro attività da remoto, freelance o impiegati presso un’azienda, senza radicarsi stabilmente in nessun luogo. Si spostano da una nazione all’altra, legati solamente a una connessione internet per svolgere lavori solitamente inquadrati come “altamente qualificati” – marketer, creativi, imprenditori, influencer, content creators. Il concetto stesso di lavoro qualificato, tuttavia, si è svuotato di senso durante il lockdown, quando ci siamo accorti di quanto poco apportassero gli esperti di comunicazione digitale alla società rispetto, ad esempio, agli scaffalisti di un supermercato. Ma il concetto di qualifica, a sua volta stretto a doppio filo con la retorica del merito, è legato al reddito, al prestigio, al titolo di studio, nonché ad altri fattori socio-economici ed è rimasto chiave di volta nelle politiche del lavoro.
Le storie dei nomadi digitali si somigliano tutte molto: una persona (solitamente occidentale) decide di lasciare la propria routine soffocante 9-to-5 e partire per un paese lontano. I nomadi digitali scelgono paesi con un costo della vita basso: Messico, Thailandia, Indonesia, India, Nepal.
Gli assi portanti della definizione di “nomade digitale” sono due: la prima è, ovviamente, la tecnologia. Un nomade digitale non è una persona che migra per fare il cameriere, la babysitter, il muratore, l’idraulico o il bidello. L’altro pezzo della definizione ha a che fare con il movimento, con il viaggio: viene romanticizzata la figura di una persona che si sposta in un mondo senza barriere. Questa assenza di limiti è reale, definita e celebrata solo in relazione a lavori con un livello di prestigio e considerazione sociale elevato. Uno dei cortocircuiti concettuali della definizione è proprio lo scollamento tra prestigio intellettuale e condizioni materiali. Un qualsiasi lavoratore della cultura italiano può anche godere di una certa considerazione sociale, ma le condizioni materiali non sempre vanno di pari passo; i lavori intellettuali o creativi che più si prestano alla scelta del nomadismo digitale sono soggetti a un impoverimento costante, sono precari e sottopagati.
Eppure, nelle politiche dei paesi rispetto al nomadismo digitale, la questione del reddito è centrale. Alla fine del 2022, il Portogallo ha introdotto una procedura di visto specifica per chi desidera lavorare da remoto risiedendo nel paese: i requisiti prevedono che il reddito mensile sia almeno di 2800 euro. Anche la tassazione è inferiore: 15% rispetto alla tassa sui redditi portoghese, equivalente al 25%. In Italia è stata introdotta la fattispecie del visto per nomadi digitali nella primavera del 2022, ma i decreti attuativi non sono mai arrivati. La legge impone però che i richiedenti siano “lavoratori altamente qualificati”: sono ancora da vedere le modalità con cui questa norma verrà applicata.
Conflitti nello spazio
La narrazione del nomadismo digitale si incentra principalmente sulla qualità della vita del singolo, da un lato, e sulla necessità di attirare dei cosiddetti “talenti” dall’altro. La definizione specifica di questa categoria di lavoratori è piuttosto sfuggente: comprende alcuni elementi socio-economici, come il tipo di professione, e alcuni elementi di lifestyle, come il desiderio di libertà o quello di viaggiare mentre si lavora.
Le storie dei nomadi digitali si somigliano tutte molto: una persona (solitamente occidentale) decide di lasciare la propria routine soffocante 9-to-5 e partire per un paese lontano. “Sono subito rimasta affascinata da questo stile di vita, volevo anche io lavorare seduta in un bar in spiaggia con un guacamole accanto”, racconta una professionista al blog di Lonely Planet. I nomadi digitali scelgono paesi con un costo della vita basso: tra le nazioni più gettonate ci sono il Messico, la Thailandia, l’Indonesia, l’India, il Nepal.
Il flusso di lavoratori da remoto incontra però la resistenza delle comunità locali. I nomad occidentali hanno stipendi tendenzialmente più alti, e sfruttano il gap di costo della vita dei loro paesi d’origine con quello di destinazione. A Città del Messico, una popolare meta per i nomadi digitali statunitensi, i prezzi si stanno alzando, e l’arrivo degli emigranti dalla pelle bianca sta modificando radicalmente quartieri e comunità. “Nuovo in città? Lavori da remoto?”, si leggeva in alcuni manifesti comparsi in città, come riportato l’estate scorsa dal Los Angeles Times. “Sei una cazzo di piaga e la gente del posto ti odia. Vattene”. Alcune persone del posto hanno raccontato anche di cambiamenti della geografia linguistica – in molti quartieri l’inglese ha preso il posto dello spagnolo – e di modificazioni nella composizione razziale delle comunità. Un professore universitario locale ha raccontato al Los Angeles Times di essersi reso conto di essere l’unica persona non bianca seduta a prendere un caffè, a eccezione dei camerieri.
Il nomadismo digitale può diventare una pratica estrattiva: significa recarsi in un luogo per godere delle sue bellezze, immergersi in una cultura che si considera esotica, senza restituire nulla alla comunità locale.
In Europa, il Portogallo vive una situazione simile. Alla fine dello scorso anno, secondo il sito web Nomad List, più di quindicimila persone risiedevano a Lisbona. Secondo gli abitanti del posto, oltre all’aumento dei prezzi e alla difficoltà nel trovare alloggio, l’arrivo dei nomadi digitali ha messo in crisi le infrastrutture del Portogallo e ha costretto molti residenti a spostarsi fuori dai centri urbani, ormai diventati inaccessibili rispetto agli stipendi locali. “Un nomade digitale = molti nomadi forzati” è lo slogan che si leggeva su un volantino del Collettivo Habita, un gruppo portoghese che si occupa di diritto alla casa.
Il nomadismo digitale può diventare una pratica estrattiva: significa recarsi in un luogo per godere delle sue bellezze, immergersi in una cultura che si considera esotica (ad esempio lavorando di fronte all’oceano mangiando guacamole), senza restituire nulla alla comunità locale, anzi restando legati principalmente alle comunità di expat, solitamente molto chiusa e autoriferita, protetta dai privilegi legati a passaporto e cittadinanza. Il rapporto di potere tra viaggiatori e persone del posto, però, non si esaurisce in un mancato di scambio di risorse, o in una diseguaglianza economica: ha radici più profonde.
Precariato e imperialismo
Il nomadismo digitale e il conflitto che porta con sé riguardano diverse dimensioni del mondo del lavoro contemporaneo. Una di queste è la matrice neocoloniale degli spostamenti che riguardano soprattutto la popolazione occidentale: quelli per lavoro e quelli per turismo. È impossibile (e in parte è ipocrita) ignorare che non tutti i viaggiatori, i migranti o gli espatriati sono sullo stesso piano: quando si viaggia si porta con sé non solo il proprio corpo, ma anche il proprio denaro, le aspettative legate al colore della propria pelle, il proprio privilegio. Il lavoro digitale, così celebrato nella narrazione dei nuovi nomadismi, non è in grado di dematerializzare completamente il lavoratore, che non è solo una mente in fuga, un avatar su un computer, la fotocamera di uno smartphone che posta fotografie su Instagram. È un corpo che entra in frizione con altri corpi e con altri spazi.
La posizione di expat, turisti e nomadi digitali resta quella del centro, mentre i paesi ospitanti rimangono in una perenne posizione di alterità, di oggetto esotizzato e non di soggetto.
Il turista, così come il viaggiatore (per coloro che amano fare questa distinzione) bianco e occidentale costruiscono secondo il loro punto di vista la realtà in cui decidono di immergersi. La raccontano con i loro occhi, togliendo automaticamente agentività allo sguardo delle persone locali, togliendo loro la possibilità di raccontare la propria prospettiva. La posizione di expat, turisti e nomadi digitali resta quella del centro, mentre i paesi ospitanti rimangono in una perenne posizione di alterità, di oggetto esotizzato e non di soggetto.
Edward Said, intellettuale palestinese e figura di riferimento per gli studi post-coloniali, ha definito l’orientalismo (una parola che dà il titolo di uno dei suoi più celebri saggi) come “un’area di interesse definita da viaggiatori, imprese commerciali, governi […] per i quali l’Oriente è un tipo specifico di conoscenza su luoghi, popoli e civiltà”. Il viaggiatore bianco crea l’Oriente, e gli altri possono essere nominati ed esistere esclusivamente attraverso il viaggiatore stesso, in sua funzione. I simboli, le immagini, le narrazioni sono parte del potere coloniale di cui il viaggiatore bianco è dispositivo. “Il turismo si concentra sui sentimenti di chi viaggia piuttosto che sugli «oggetti» visitati – il colonialismo è da considerarsi un simbolo incarnato da immagini, aspettative e potere”, scrivono i ricercatori Denis Linehan, Phillip Xi e Ian Clark nel saggio Colonialism, Tourism and Place.
I conflitti che emergono con il nomadismo digitale sono anche una cartina di tornasole sulla schizofrenia del mondo del lavoro. Il precariato è diffuso anche nelle professioni che portano con sé il prestigio della “qualifica”: un lavoro impoverito e privo di garanzie che spinge a uno stile di vita altrettanto precario, anche se raccontato con la patina di romanticismo della libertà e della ricerca della felicità, spesso condotto sotto l’etichetta della libera professione. Il lavoratore della conoscenza, il lavoratore immateriale, è un prodotto del tardo capitalismo e la sua condizione si fonda sull’autosfruttamento e sulla precarietà. “Precarietà, ipersfruttamento, mobilità e gerarchia sono le caratteristiche più evidenti del lavoro immateriale metropolitano”, ha scritto a questo proposito il sociologo Maurizio Lazzarato. “Dietro l’etichetta del lavoratore indipendente «autonomo» si nasconde in realtà un proletario intellettuale, ma riconosciuto come tale solo dai datori di lavoro che lo sfruttano”.
Contorni sfocati
Il precariato di stampo occidentale si riflette, attraverso le traiettorie dei nomadi digitali, sulle città e sulle comunità dei paesi non occidentali in un processo di gentrificazione globale, nell’esternalizzazione dei costi umani di un mondo del lavoro sempre più povero, immateriale, sfilacciato. “Questo processo può avvenire anche tra paesi diversi ed è l’effetto di politiche che corteggiano una élite transnazionale invece di alzare i salari, migliorare la qualità della vita, dei servizi e delle economie locali” ha scritto Sarah Gainsforth su L’Essenziale. Questo non equivale ovviamente ad affermare che tutti i nomadi digitali siano precari, ma significa che la dematerializzazione dei processi produttivi in occidente si riflette, attraverso il fenomeno del digital nomadism, anche sulle società del Sud Globale – o, nell’ambito ristretto del mondo occidentale, sui paesi a reddito più basso dell’Europa meridionale come Italia e Portogallo.
Dai centri dell’impero i lavoratori “nomadi” si spostano verso il margine, e sul margine ricade il costo del loro spostamento, nella forma di inflazione, prezzi fuori controllo, città che diventano inabitabili.
Nella narrazione del dove si vuole, quando si vuole, si perde di vista la geografia dei privilegi e delle scale di potere: si sfocano i contorni del centro e della periferia. Dai centri dell’impero i lavoratori “nomadi” si spostano verso il margine, e sul margine ricade il costo del loro spostamento, nella forma di inflazione, prezzi fuori controllo, città che diventano inabitabili. Anche il “talento” e la “qualifica” diventano quindi categorie di potere: potere di spostarsi, di cambiare paese, di migrare senza difficoltà. Mentre il centro, quello geografico, resta saldamente una fortezza, chiuso su se stesso, inaccessibile, un dispositivo di esclusione senza appello.