Hyperobjects Hyperballad
A venti metri da me orchidee giganti sbocciano al ralenti sui megaschermi, al ritmo di una scala che ascende a frattale, circondando un piccolo bosco che ruota sul suo asse, e in mezzo al bosco c’è un essere umano vestito da petali rosa di lattice e nascosto dietro una maschera bianca dalle curve genitali; tutto intorno delle ninfe suonano una melodia di flauto traverso, sorridono, oscillano. Prendo appunti mentali durante un concerto.
Allora, su MEDUSA parliamo sempre di Natura e Cultura, o meglio, di come vogliamo abbattere questa dicotomia approssimativa. Più che approssimativa: asfissiante, coercitiva. Ci sono due accademiche, si chiamano Charity Marsh e Melissa West, che nel 2003 hanno scritto una cosa in apparenza banale: «in Occidente, natura e tecnologia sono costruite socialmente come femminile [la prima] e maschile [la seconda]». Scrivono poi che da qui si alimentano altre convenzioni, la Natura femmina opposta alla Cultura maschio – il culturo oggettivo che misura il mondo –, e a cascata impressioni violente come quelle di una cultura che invade, abusa del tepore ventrale della natura.
Poi passano a citare Cyborgs and Women di Donna Haraway: «il cyborg compare nel mito precisamente dove il confine tra uomo e animale viene trasgredito», e aggiungono (semplificando) che se c’è un’artista condannata alla definizione harawayana di cyborg, questa è Björk.
Nonostante la sua opera, nata dalla collaborazione con decine di cervelli e mani e ragioni e impulsi diversi, sempre tesa tra la realtà condivisa e il perturbante, possa candidarsi a quella che Andrew Robbie definisce cyborg authorship, sopra ho scritto «condannata» perché per decenni Björk ha rifiutato disperatamente qualsiasi compartimento, si è rifiutata di spargere spiegazioni univoche, letture bidimensionali, didascalie. Fino a quando si è fatta una certa, diciamo, e invitata a metabolizzare il suo percorso dal MoMA per una retrospettiva, Björk ha scritto a una vecchia conoscenza di MEDUSA, lo zio strambo:
Dal carteggio tra l’islandese e Timothy Morton scopriamo che quest’ultimo è un fan di Björk, di quelli veri; le fa notare da subito che Hyperobjects potrebbe essere il titolo di una sua canzone (perché no, in mezzo a Vulnicura, Homogenics, Biophilia e soprattutto Hyperballad). Potrebbero avere scritto i versi di decine di canzoni a quattro mani… Every boy is a snake is a lily, every pearl is a lynx is a girl.
Insomma, ci sono diversi punti di contatto tra i due. Dagli anni Novanta l’artista islandese pratica l’ecologia senza natura professata da Morton, svuotando di significato l’Estetica impostasi come «naturale»: credere nel Paesaggio, confondere l’agricoltura con la natura pre-mesopotamica, sono ostacoli verso il raggiungimento di qualcosa simile a una consapevolezza ecologica.
Entrambi vogliono mostrare l’invisibile che costruisce il mondo per come lo conosciamo. Torna in mente un passaggio di Iperoggetti: «le cose sono eoliche, acusmatiche: il loro timbro (legname, sostanza, materia) ci parla di estranei segreti». Secondo l’OOO (Ontologia Orientata all’Oggetto, la corrente filosofica di riferimento di Morton) gli esseri senzienti non sono soggetti: sono solo altri oggetti. Siamo quindi consapevoli di qualcosa quando ci sbattiamo addosso, o per dirla meglio, quando sussiste un continuum tra noi e gli altri oggetti – siano questi delle nebbie padane, tempeste di sabbia, alghe infestanti.
Per chi non è sempre convinto di capire dove Morton voglia arrivare nei suoi libri, la scoperta della corrispondenza tra il filosofo inglese e Björk sarà lieta e integrativa, visto il contesto che lo porta a semplificarsi, aprendosi a dichiarazioni come «Tendo a vedere le cose in maniera animistica». Che la visione di Morton possa definirsi pseudo-animista, per esempio, mi sembra un’epigrafe crudele e azzeccata insieme.
Altra dichiarazione: «Credo che l’arte arrivi dal futuro», stesso refrain del suo saggio dedicato a Olafur Eliasson; e che l’arte possa venire dal futuro invece è meno patetico di quanto sembri: l’arte per Morton precede sempre il pensiero, assioma che si liquefa a forma di croce e benedizione dei suoi libri, incasinandoli e – in una certa misura – elevandoli. Tutto sta nell’accordarsi, nel senso di vibrare alla stessa frequenza, mettersi in posizione di ascolto, risuonare. Morton e Björk parlano di «cura», una metafora di sicuro più felice di «management» in ottica di interazione con le altre forme di vita di questo pianeta. Forse proprio da questi tentativi di accordatura è nato il testo di The Gate, il singolo con cui la cantante ha presentato l’ultimo disco, Utopia.
Il video di The Gate può ricordare questo e tanti altri passaggi del libro: «gli iperoggetti ci si appiccicano addosso, come specchi liquefatti. Si attaccano ovunque, ondulano avanti e indietro, colando spaziotempo tutto intorno. Vanno in sincrono e fuori sincrono con la nostra esistenza quotidiana. Si interfacciano con noi in una dimensione estetica vagamente diabolica».
Altro punto in comune tra i due: «amare se stessi è il primo passo verso una consapevolezza ecologica». Mi piace come per Morton cura per gli altri ed ecologia siano puri sinonimi, e mi piace come per Björk tutto questo suoni spontaneo, ordinario.
Smantellare qualsiasi interesse ultrapersonale o utilitaristico. Il plutonio dopotutto ha un’emivita più longeva di tuo figlio, 24.000 anni circa: gli iperoggetti – per esempio: la storia geologica, i cambiamenti climatici, l’evaporazione dei mari – ci mettono di fronte a enigmi la cui struttura socio-economica che ci tiene in vita non sa rispondere.
Con questa MEDUSA passiamo dall’Aperto di Agamben alla openness di Morton che, per quanto filosofo cervellotico e penna pazza, riesce anche a scrivere frasi come «l’apertura radicale del futuro proietta la sua ombra colorata sulla frase che sto scrivendo», la stessa apertura su cui si arrampicano i dischi di Björk, con il loro incedere misterioso, a tentoni, scavando sentieri nella testa di chi ascolta, all’inizio a sorpresa, poi sempre più riconoscibili per tornare a essere quello che sono, musica pop.
Vivere nell’iperoggetto, mi sembra di capire, è vivere nell’apertura, nel gioco, in entrambi i lembi del significato di panico.
Aprirsi; fare-che; come si può essere imprevedibili e leggibili allo stesso tempo?
A volte leggendo Morton viene da chiedersi… ok, allora? Come si converte il pensiero in azione? Forse la risposta è nascosta anche in Utopia. Da tempi non sospetti Björk incarna le idee di Morton nella prassi, parlando una lingua transdimensionale, seducendo il non-umano, cantando di cyborg e oceani.
Nel carteggio i due insistono sull’idea di risonanza, magnetica e non, tentano di connettere tutto perché tutto è connesso e, secondo Morton, causalità = telepatia. Se telepatia, etimologicamente, è la passione che supera le distanze, c’è telepatia tra Björk e Morton, c’è telepatia tra chi scrive e chi legge, tra chi è in piedi sulla costa e chi è perduto nel mare. Non da Aquarius a quanto pare, ma da sempre:
Le relazioni a distanza si sa, sono le più difficili, fino a quando si inizia a ignorare il concetto di distanza. Se inventassi una religione i luoghi di culto sarebbero le ragnatele.
Iperoggetti di Timothy Morton è stato appena pubblicato nella collana Not di NERO. Per iscriverti a MEDUSA, la nostra newsletter dalla fine del mondo, vai qui.