La macchina dell’hype
Nell’Iconologia di Cesare Ripa ci sono due personificazioni della «reputazione»: sotto la voce «fama» troviamo una giovane vestita in modo succinto, ritratta mentre si muove precipitosamente; dotata di ali e col corpo costellato di occhi, bocche ed orecchie, nella mano destra impugna una tromba dorata. Alla voce «gloria» invece, la ragazza ha il capo cinto da una corona d’oro, anch’essa con una tromba in mano, «indizio del premio che merita ciascun uomo famoso». La simbologia della reputazione sintetizzata da Ripa seleziona elementi iconografici presi da Virgilio e Ovidio, e indica la fiducia in una sopravvivenza futura della reputazione di imperatori e nobili (e anche degli stessi poeti, che glorificano nella loro poesia le gesta mitiche e storiche di Roma). Si capisce quindi che la gloria è una promessa e una speranza: si afferma oggi quello che vorremmo fosse ricordato di noi nel futuro.
Una versione molto meno pomposa e decisamente più venale della gloria è l’hype, un termine gergale americano che negli anni Venti e Trenta del Novecento indicava una truffa, o un’impennata nei prezzi, oppure una storia dai tratti esagerati, sino a significare negli anni Cinquanta una pubblicità troppo calcata. Riprendo queste definizioni dalla seconda parte dell’esposizione virtuale del collettivo Clusterduck, ovvero Hype and Fame, che raccoglie alcune opere che riflettono intorno al rapporto fra l’Internet culture, l’economia reputazionale e l’attractivness del capitalismo digitale. Nell’introduzione all’esposizione si afferma che l’hype non costituisce più un prodotto secondario del capitalismo, ma è diventato la sua differenza specifica, governando tanto il sistema dell’arte quanto i mercati finanziari e le piattaforme digitali. Il meccanismo dell’hype sarebbe talmente radicato da rendere difficile la decriptazione delle differenze fra ideologie e sottoculture o fra inclusione ed esclusione. Quanto segue sarà quindi un approfondimento teorico-politico di questa tesi, sviluppata da Clusterduck in ambito artistico; personalmente si tratta anche della continuazione di un’analisi della funzione contemporanea delle «iperstizioni» che avevo cominciato tempo fa su Prismo.
Cominciando dall’ultima definizione di hype, quella di «eccessiva pubblicità», non si può non fare riferimento al concetto di aura, di cui parla Leon Daudet in Melancholia (1928), indicando con questo termine una manifestazione atmosferica dello stato psichico. Il termine aura è utilizzato anche da Jean-Martin Charcot, lo psicologo che è stato mentore di Freud alla Salpêtriére di Parigi. In questo caso l’aura era l’alterazione atmosferica che precedeva un attacco isterico. Infine, com’è noto, l’aura indica per Walter Benjamin quel carattere di unicità e inavvicinabilità che era proprio dell’opera d’arte prima dell’invenzione delle tecniche di serializzazione. Certo, asserisce Benjamin, gli strumenti della riproduzione (litografia, fotografia, fonografo, cinema) avrebbero reso possibile la chance rivoluzionaria di creare un’opera collettiva veramente proletaria, un’opera che non fosse di ordine religioso, iniziatico, borghese, fascista. Eppure, fenomeni come il divismo attestano l’impermeabilità del cinema americano allo spirito bolscevico: la cristallizzazione dell’aura attorno ad un’unica persona, è, di fatto, un sintomo reazionario. L’altro aspetto che Benjamin constata con interesse è che la partecipazione dello spettatore all’immagine aptica del cinema annienta il libero vagare dei pensieri in catene associative e, per così dire, permette che «le immagini mobili [vengano] sistemate al posto del pensiero». L’«aura posticcia» del divo e il «rimbambimento» dello spettatore catturato da scariche di shock identificati da Benjamin a metà degli anni Trenta assumono oggi un significato profetico.
Nei primi anni Duemila, con ritmo accelerato negli ultimi dieci anni, il capitalismo delle piattaforme si è modulato in una stack composta da vari piani, tutti legati da un comune riferimento all’hype. PornHub, YouTube, Netflix, Amazon, JustEat, Steam, Instagram, PageRank e la Newsfeed di Facebook sono dispositivi di cattura e governo dell’economia dell’attenzione e delle emozioni. Il filosofo coreano Byung-Chul Han ha parlato in Psicopolitica di distruzione della libertà e della soggettività: «La psicopolitica neoliberale è la tecnica di dominio che, per mezzo della programmazione e del controllo psicologico, stabilizza e perpetua il sistema dominante». Se sostituiamo ai nomi delle piattaforme quelli delle disposizioni cui si riferiscono, avremo: libido, socialità, immaginazione, nutrizione, sonno, orgoglio personale, curiosità. L’hype si duplica quindi in economia reputazionale e attenzionale.
Dal lato della reputazione, la sociologa Gloria Origgi diagnostica l’emergenza di un homo comparativus, un sostituto secolarizzato dell’homo hierarchicus delle società premoderne. Il fatto che le relazioni lavorative e comunicative fra persone siano mediate da network di cui non sono proprietarie, ha delle conseguenze economico-politiche non indifferenti. In un’economia della reputazione, persone e merci sono imbrigliate in meccanismi di comparazione e competizione. Il fenomeno non è inedito agli antropologi che hanno studiato l’efficacia delle pratiche di gossiping, ma il dato fondamentale che riguarda le società tardo-capitalistiche è che la fama diventa oggetto di un complesso sistema di gestione non tanto delle informazioni oggettive, ma di catene di opinioni, voci di corridoio, indici statistici, graduatorie variabili, fluttuazioni di mercato: «Il valore non è nelle cose o nelle persone stesse […] il valore si crea nella relazione tra le cose o tra le persone, è il prodotto autonomo dello scambio comparativo e non ha altre finalità».
La sociologia della reputazione ci permette di valutare il tipo di fama che si può ottenere. Il filosofo francese Michel Surya in Capitalisme et Djihadisme ha parlato di un rapporto dialettico fra ascetismo e narcisismo nell’attuale terrorismo di matrice islamica. L’aspetto più interessante di questo ragionamento è il fatto che l’hype in questo caso si triplica: è legato alla visibilità, all’apocalisse e all’economia della promessa. Afferma Bifo in Heroes: «Il crimine è un amplificatore ed un consolidatore di fama. Solo se fai qualcosa di veramente truculento il tuo narcisismo sarà infine appagato». Tuttavia, come ricordavamo, hype significa anche profezia, promessa di realizzazione di un futuro meraviglioso. Nello stesso testo Bifo allude alla matrice apocalittica della propaganda dello Stato Islamico. Certo, non bisogna pensare che tutti i terroristi credano nel ritorno dell’Imam Nascosto, o che siano convinti di vivere in tempo escatologico – la sociologia della radicalizzazione insegna infatti che sono piuttosto cause sociali e psicologiche a guidare la conversione.
Come in un’allegoria seicentesca fama e morte sono accostate in un’economia del visibile retta dalla ricerca della gloria a prescindere da ogni limitazione moralistica. Lo youtuber americano Logan Paul ha postato il 31 Dicembre 2017 un video in cui viene mostrato il corpo di un suicida. Il rigetto globale del suo gesto lo ha portato prima a cancellare il video, poi a chiedere scusa pubblicamente, e infine a diffondere una videointervista con un’associazione di prevenzione suicidi. È questo un caso di complicazione della fama: i «creatori» di YouTube guadagnano in proporzione al numero di visualizzazioni e per fidelizzare la loro audience sono indotti a creare contenuti in grado di agganciare e stupire ininterrottamente. I video di questo giovane prankster americano possiedono due caratteristiche inquietanti: innanzitutto, sono ripetitivamente interrotti da brevi spot pubblicitari di accessori e abbigliamento autoprodotto; in secondo luogo, si rivolgono a un pubblico molto giovane.
Si tratta più o meno delle stesse caratteristiche delle Instagram stories della Dark Polo Gang: audience infantile, concatenazione di divismo e feticismo della merce, invenzione di un lessico comune, fidelizzazione delle «comunità immaginarie» di seguaci. In un certo senso la presenza di figure umane all’interno di questi video è puramente accessoria. Lo dimostra il fatto che è possibile pensare a un’automatizzazione inumana e iper-additiva di contenuti virali orientata a un pubblico giovanissimo, come ha dimostrato James Bridle nel suo articolo Something is wrong with the internet. Si tratta di contenuti diffusi in una catena di canali YouTube, creati con motori grafici rudimentali, che utilizzano algoritmi che sommano aleatoriamente le parole più cercate ad un programma che monta automaticamente innumerevoli versioni di pattern narrativi con personaggi prelevati dai cartoni animati più seguiti. Oppure si può pensare ai video ASMR, che mediante la rappresentazione visiva e sonora della manipolazione di sostanze semifluide dovrebbero indurre un senso di rilassamento e benessere. Anche in questo caso abbiamo a che fare con contenuti addictive che generano un effetto di infantilizzazione e dipendenza negli spettatori e nelle spettatrici.
Ma torniamo all’economia reputazionale: evidentemente le oscure meccaniche dell’hype non coinvolgono solamente i terroristi e gli influencers, ma innervano la totalità del mercato del lavoro. Quando Silvio Lorusso discute su Not del crowdfunding legato al finanziamento delle cure mediche, ci sta parlando di una transizione da un’economia welfare-oriented a un’economia hype-oriented. Per cominciare un’attività imprenditoriale, finanziare gli studi e ricevere assistenza sanitaria è richiesta la creazione di micro-bolle inflazionistiche: una sorta di auto-speculazione, volta a brandizzare qualsiasi elemento della vita (lavorativa e ricreativa).
Allo stesso tempo, le ricerche post-operaiste sul mercato del lavoro contemporaneo identificano nell’economia della promessa una delle strategie più efficaci di governare l’abisso economico-sociale innescato dalla crisi economica. Affermano Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli in una recensione a Salari Rubati di Francesca Coin: «Questa […] forma di autofinanziamento comporta già una partecipazione ai guadagni attesi di natura finanziaria da parte di prestatori d’opera che non si percepiscono come lavoratori gratuiti, ma come soci in affari: è qui che le retoriche del capitale umano e dell’imprenditore di se stesso cominciano a far presa. A ciò va ad aggiungersi una forma di remunerazione non monetaria che sembra comunque in grado di soddisfare una parte della domanda necessaria ad assorbire quanto il sistema capitalistico produce. È ciò che in Logiche dello sfruttamento abbiamo rappresentato come un valore simbolico non monetizzabile nell’immediato, ma immaginabile come un’opportunità di guadagno futuro. Ci pare che l’espressione “economia della promessa”, utilizzata da Marco Bascetta in Salari rubati, vada in questa direzione»
La macchina dell’hype funziona come un condensatore temporale e come una gestalt: appiattisce le imprevedibili potenzialità iscritte nel presente ed impedisce il loro sviluppo futuro. Proprio per questo l’hype è una forma secolarizzata di divinazione, una cronocrazia, o, per meglio dire, un tentativo di governare occultamente l’aleatorietà degli eventi e di racchiudere l’emergenza del futuro. Già da tempo Nick Land aveva definito i mercati finanziari in termini iperstizionali, evidenziando le dinamiche di feedback positivo in atto nella speculazione sul futuro. È interessante osservare che un testo sull’economia reputazione come quello di Origgi menzioni la famosa bolla dei tulipani del Seicento: cosa ha prodotto l’isteria collettiva che nel giro di qualche anno ha aumentato il prezzo dei bulbi di tulipano sino a farlo corrispondere al reddito annuo di una famiglia benestante, moltiplicato per dieci volte?
La sociologa Elena Esposito parla di osservazioni di secondo grado: ovvero non stime empiriche di una merce, ma calcoli sulle valutazioni immaginate dagli altri operatori nel mercato. L’ipestizionalità dei mercati finanziari è fondata su un circolo vizioso che fa collassare i modelli di previsione sui fenomeni osservati: al fine di scongiurare il rischio d’imprevisti futuri si tenta di pilotare gli immaginari che annunciano il loro svolgersi. «Questa circolarità è il punto cieco della finanza e della sua logica, come dimostra la crisi innescata dalla finanza strutturata: i modelli finanziari possono prevedere tutti i possibili percorsi futuri dei mercati, ad eccezione del futuro della finanza guidata dai modelli, che è l’unico futuro che si realizzerà in seguito»
C’è qualcosa di inquietante nell’ubiquità dell’economia dell’hype: una vasta mutazione antropologia della specie homo verso un cyber-organismo collettivo dalle caratteristiche decisamente inumane. I processi di automatizzazione della diffusione di contenuti virali di qui sopra potrebbero essere definiti, usando un lessico benjaminiano, «riproducibilità algoritmica dell’hype». Tristan Harris, ex impiegato di Google, è da alcuni anni impegnato in una campagna di sensibilizzazione sugli effetti deleteri che un utilizzo analfabeta delle tecnologie digitali e dei social network comporta. Scelte di design come l’infinte scroll delle pagine o l’autoplay dei video, trasformano i nostri dispositivi in slot machine miniaturizzate, che sfruttano un sofisticato calcolo algoritmico di ricompense intermittenti e ininterrotte il cui fine è unicamente aumentare il tempo di utilizzo di una piattaforma. Attraverso i Big Data è possibile generare una tassonomia sempre più raffinata dei desideri individuali (ad esempio, la griglia delle tag di PornHub). Simili al ludopatico concentrato sul rullo luminoso della sua slot, milioni di utenti vengono agganciati a un cilindro infinito, che contiene esattamente quei contenuti che sono stati confezionati per catturare la loro attenzione.
Evidentemente questo comportamento ha degli effetti deleteri, misurabili secondo test psicologici che valutano la ritenzione mnemonica, la distrazione o, semplicemente, la tonalità emotiva. Lo stesso discorso si potrebbe fare per la prescrizione indiscriminata di farmaci antidepressivi, la ludificazione e la tinderizzazione delle relazioni. Strato su strato, lo stack dell’hype-capitalism viene assemblato come un insieme di radici convogliate verso un unico tronco. Se intendiamo quindi l’hype nel senso della congiunzione di economia reputazionale e addictivness generalizzata, possiamo anche constatare che a partire da un unico macro-sistema socioeconomico si dipanano micro-connessioni compensatorie. Il disagio psicologico prodotto dall’economia della promessa, nata come dispositivo di compensazione della crisi economica generata della speculazione finanziaria, viene ad essere alleggerito o mascherato dall’escapismo esemplificato dalla ludificazione e dal narco-capitalismo dell’industrie farmaceutiche che producono antidepressivi.
L’interpretazione occulta di queste mutazioni tecnosociali proviene (c’era da aspettarselo) dalla galassia neoreazionaria, nella forma del cosiddetto Roko’s basilisk, una storiella apocalittica che chi ha familiarità con le boutade di Nick Land non avrà difficoltà a riconoscere. Diffusa sulla piattaforma di discussione LessWrong, la storiella racconta che un’ipotetica superintelligenza artificiale futura, avendo accesso a tutte le informazioni del nostro presente, sarebbe in grado di punire e ricompensare coloro che hanno contribuito o ostacolato la sua realizzazione. Una «nicklandata», insomma. E ovviamente c’è chi non l’ha presa proprio benissimo, terrorizzato dall’idea che la sola esistenza delle discussioni sulla natura morale della futura I.A. avrebbe compromesso la sua futura beatitudine cibernetica, poiché dal futuro la Singolarità avrebbe potuto leggere quei post. Trovare queste affermazioni bizzarre in un blog dedicato all’approfondimento del discorso scientifico e razionale ricopre questa vicenda di paranoia e complottismo. E questo ci riporta alla componente teologico-politica dell’hype nella sua forma più pura, ovvero quella del discorso apocalittico. Secondo lo storico dei concetti Reinhardt Koselleck (uno degli autori chiave per Hartmut Rosa), l’escatologia dei primi secoli dell’era cristiana sarebbe sopravvissuta in modo secolarizzato nell’idea della contrazione dei tempi causata dalla percezione del progresso tecnologico fra XVIII e XIX secolo: «L’accorciamento del tempo, che prima poneva dall’esterno una fine precoce alla storia, diviene adesso un’accelerazione che è registrata nella storia stessa e di cui dispongono gli uomini. La novità consiste nel fatto che non è la fine ad arrivare più rapidamente, bensì i progressi attuali che, commisurati ai lenti progressi dei secoli precedenti, si verificano a ritmo sempre più intenso».
Per concludere: la macchina dell’hype genera tre circoli viziosi che mettono in relazione in ogni loro spira le due polarità dello stesso problema. Il primo è il rapporto fra inclusione ed esclusione nell’economia dell’hype: una volta compresa la sua ubiquità, ha senso opporvisi? Il secondo riguarda la dialettica dell’iperstizione: se nel presente congiuro per il mio successo futuro, come posso essere sicuro che l’avvenire del mio desiderio e quello imprevisto coincidano? Il terzo, infine, è un approfondimento antropologico del primo: avendo attestato che esistono fenomeni psicologici, economici e tecnologici retti dall’hype, come faccio ad essere sicuro che anche questa ipotesi non sia un’altra iperstizione?