Hardcore Will Never Die
All’ingresso del Number One campeggiava una grande scritta: «Il locale dell’impossibile», uno slogan diventato un’ossessione per intere generazioni di frequentatori. «Quando avevo quindici anni e andavo a ballare al Number, la scritta era già lì», racconta Claudio Lancini in arte Lancinhouse, il dj che ha fatto la fortuna del Number One a livello internazionale, facendolo diventare uno dei locali simbolo della techno hardcore in Italia. La discoteca aprì nel 1979 e, con i suoi oltre 28.000 metri quadrati, è una delle più grandi d’Europa. Si trova tuttora a Rovato, nella parte meridionale della Franciacorta, a ovest di Brescia.
La fama di tempio della gabber e dell’hardcore contrasta fortemente con i suoi interni lussuosi e marcatamente kitsch. All’interno finte statue greche, colonnati, balaustre ed ampie scalinate, trompe-l’oeil, tendaggi, pavimenti con fantasie geometriche in bianco e nero; all’esterno prati all’inglese, fontane e un anfiteatro greco, con tanto di piante rampicanti dipinte sui muri. Il contrasto fra l’ambiente e la musica infernale che vi rimbombava all’interno, produceva un effetto straniante in chi lo visitava.
Il proprietario del Number One è Mario Basalari, che molti raver ricordano come il signore con baffi scuri, cravatta e giacca beige che girava per il locale e, a fine serata, prendeva il microfono per raccomandare ai ragazzi di «non farsi male», mentre in pista si scatenava il consueto delirio. Mario possiede una personalità intraprendente ed estrosa, che l’ha portato a rinnovare ed ampliare costantemente il locale. Questi lavori di ristrutturazione, spesso ingenti, partivano la domenica sera alla chiusura e terminavano il giovedì, prima della riapertura del fine settimana. La Sala 2, l’ultima in ordine di realizzazione delle tre che lo costituiscono, fu terminata nel 1989 e diventò negli anni la sala dedicata alla musica hardcore.
Quando viene inaugurata, la Sala 2 è un piccolo gioiello tecnologico: misura oltre 1700 metri quadrati e può vantare un impianto da 30.000 Watt. La parte centrale del soffitto è dotata di un sistema di illuminazione a tre facce, ciascuna delle quali provvista di un diverso set di effetti luminosi. Un solo lato del soffitto è armato di 800 fari, quantità abnorme che potrebbe illuminare 40 discoteche di medie dimensioni; il secondo lato è dotato di strobo e laser e il terzo, munito di neon, serviva ad illuminare la discoteca durante il famoso «rito» dell’ultimo disco.
Claudio Lancini diviene il dj resident della Sala 2 già nel lontano 1982: «All’inizio guadagnavo 50.000 lire a serata. Per me era un hobby, avevo un’impresa edile; solo dopo è diventato un lavoro». Nel 1989 avviene il passaggio dalla dance ai primi dischi techno: fanno la loro comparsa la cassa in quattro quarti e i suoni lamentosi del sintetizzatore Roland Alpha Juno, quel suono che in Inghilterra veniva chiamato «hoover» e che in Italia era noto come «zanzara». «Fu in radio che si cominciarono a sentire le “zanzare”: è cominciato tutto lì», racconta Claudio; «io ho cercato di seguire quel filone. Nel ’92 sono andato in Olanda con degli amici e mi hanno portato a un party hardcore. Ci suonava Paul Elstak, che all’epoca si faceva chiamare Holy Noise. Io non conoscevo nemmeno l’esistenza di questo genere musicale. Mi piacevano le sonorità, e ho pensato che potevano funzionare anche da noi. Il giorno dopo sono andato in Mid-Town [storico negozio di dischi di Rotterdam, N.d.A.] a comprare i dischi e ho iniziato a passarli ogni tanto, soprattutto verso fine serata, dove davo spazio alle sonorità techno; è stata la fortuna sia mia che della Sala 2».
All’epoca, come spesso succedeva, c’era solo un dj resident a mettere dischi dalle nove di sera alle quattro di mattina, dal venerdì al sabato; doveva dunque programmare l’andamento musicale della serata, costruendo un’ascesa graduale in intensità. «Quella era la vera discoteca, e quello era il vero dj. Il venerdì suonavo musica dance, e mettevo dischi techno solo verso fine serata. Il sabato invece partivo con sonorità trance, musica che all’epoca era già piuttosto dura; non era così facile passare certi dischi. Gradualmente ho tolto la dance dalla serata».
Il Number One, una comune discoteca di provincia, cominciò così, grazie alla radicalità della proposta musicale, ad attrarre un pubblico nuovo dalle provincie limitrofe, che man mano sostituì i clienti locali. Una volta mi capitò di parlare con un vecchio frequentatore del Number, che mi raccontò un episodio di questo periodo di transizione: «Quando andavo io al Number era una normale discoteca; ci andavi ben vestito, ti sedevi al tavolo, ordinavi una bottiglia e guardavi le ragazze. A un certo punto vidi spuntare questo tizio vestito tutto argentato, come un robot o un uomo spaziale, con i capelli argentati dritti sulla testa!».
A proposito del vestiario Claudio spiega: «Il Number era sempre una carnevalata: c’era chi veniva vestito da infermiere, chi con tute da lavoro, chi da motociclista, con tanto di casco! Uno mi regalò addirittura un cappello fatto di cannucce intrecciate! [Era uso comune masticare le cannucce per alleviare la sintomatica contrazione delle mascelle causata dall’ecstasy, N.d.A.] Molti usavano le cannucce infilate nei capelli, magari fissate con elastici per non farle cadere… C’era gente che in settimana lavorava in banca in giacca e cravatta e che veniva al Number travestito così… Era un modo di evadere dallo stress! Nelle discoteche fighette dovevi andare vestito con camicia e pantaloni, non potevi mettere le scarpe da tennis, ci voleva un certo abbigliamento… lì no!».
Hotrebor, dj hardcore che all’epoca era un frequentatore abituale della discoteca, racconta: Iinnanzitutto ricordo che entrando c’era questo fortissimo odore di popper [versione commerciale del nitrito di amile, N.d.A.]: era quella la vera droga del Number, più economica dell’ecstasy. Dentro al Number ho visto succedere di tutto! Si ballava tutti quanti a petto nudo; perché faceva un caldo incredibile, certo, ma non esisteva un’altra discoteca così, era l’anarchia totale! Una via di mezzo tra un club e un centro sociale. Era il posto più eclettico che abbia mai visto: dal tipo vestito in giacca e cravatta fino al punkabbestia più sgangherato. E in mezzo skinheads, metallari, mods, discotecari, dark… La gente più fuori l’ho vista lì, magliette bianche strappate con scritte a pennarello, capelli tinti, uno addirittura aveva divelto una segnaletica stradale e se l’era legata alla schiena! Nel 1994 avevo degli amici metallari che odiavano la techno. Mi offrii di pagargli l’ingresso al Number One: dopo due ore dall’ingresso mi dissero: “ma questa non è una discoteca, questa non è gente normale e soprattutto questa non è musica da discoteca!”».
L’atmosfera di libertà e di festa che si respirava all’interno portava chi lo visitava una volta a tornarci, e la sua fama di luogo borderline contribuì ad ammantarlo di un’aura leggendaria. Man mano il vecchio pubblico scomparve, le due file di divanetti a bordo pista furono rimosse e affluì una nuova generazione di raver. Racconta Claudio: «il passaggio dalla dance all’hardcore è stato molto bello; suonavo tutto, a 360 gradi. È stato bello proporre alla gente questo cambio di stile, che era l’opposto di quello che si suonava prima. E riuscire a metterlo in testa alle persone per me è stata una sfida. Ci sono stati pro e contro: il pro è che è arrivata in massa gente nuova, da tutta Italia e addirittura dall’estero: c’erano autobus tutti i sabati dalla Svizzera e dalla Germania. Il contro è che la gente del posto non è più venuta. Anche per le serate dance faticavano a venirci perché era ormai visto come il locale di tendenza nella techno e nell’hardcore. Ma comunque il Number era sempre in crescita; se andavano via cinquanta persone ne arrivavano cinquecento nuove».
Le compagnie provenienti dalle province limitrofe, Bergamo, Milano, ma anche Torino, Bologna fino al sud Italia, erano spesso di ultras. Per evitare di incontrarsi con gruppi rivali occupavano zone diverse della pista, secondo una rigida territorializzazione: passare per la zona sbagliata poteva scatenare risse, che del resto al Number One non sono mai mancate. Per molti la vita da ultras si intrecciava con la vita da discoteca: a fine nottata, la domenica mattina, si andava al «Numberino» (un distaccamento del Number One gestito dal fratello di Mario Basalari, che proponeva una sorta di «after party» hardcore), per poi andare allo stadio e ritornare in discoteca la domenica pomeriggio, in un estenuante tour de force sostenuto da generose quantità di droga.
Nella primavera del 1994 Dj Rob, resident del leggendario club Parkzicht di Rotterdam e fondatore dell’etichetta Coolman Records, suonò al Number One. Fu l’inizio degli eventi chiamati «Hardcore Warriors», nei quali Claudio Lancini venne affiancato da ospiti stranieri; fra i primi gli Euromasters, Maurice Steenbergen (Rotterdam Termination Source) e Paul Elstak. Proprio Elstak incluse Claudio nei ringraziamenti di un disco della Rotterdam Records riferendosi alla «Lancinhouse», intendendo cioè «casa Lancini»; da lì deriva il nome d’arte Claudio Lancinhouse, che sostituì il precedente «dj Claudio».
Ciò che contribuì più di tutto alla fama del Number One è stato il «rito dell’ultimo disco»; solitamente si trattava di tracce molto pesanti e molto veloci, con un’introduzione ed uno svolgimento particolari, in grado di far letteralmente impazzire la folla. I primi brani adatti a questo scopo venivano dalla formazione simbolo della Rotterdam Records, gli Euromasters (e dai loro vari progetti collaterali). Brani come «Groen van Koen» di Hooihouse, una folle cavalcata di drum machine saturata fino al limite, accompagnata da sintetizzatori gracchianti e ululanti, interrotta improvvisamente dal suono di schiuma che viene rumorosamente succhiata da una lattina di birra; oppure come «Dominee Dimitri» di De Klootzakken, magmatico calderone di urla sataniche; ma soprattutto «Hand in Hand, Gabbers» di De Kuipkanjers, riadattamento dell’inno da stadio degli ultrà del Feyenoord «Hand in Hand Kameraden», dove la melodia, distorta come attraverso un citofono mal funzionante, viene accompagnata dalla grancassa della TR-909 su un tempo altalenante e malfermo.
«La gente ha cominciato a prenderlo come una cosa diversa, no? Siccome “Hand in Hand Gabbers” aveva un ritmo che aumentava, la gente si gasava e hanno cominciato a spingersi a vicenda… È nato così, dal niente! Tra amici, uno tirava dentro quell’altro, poi quell’altro, poi quell’altro, nell’arco di qualche mese è diventato un rito: quello delle spinte! Ma era solo per l’ultimo disco. È andato avanti anni ad esser solo per l’ultimo disco, perché la gente non pogava durante la serata. La sala era talmente piena che la gente non riusciva a spingersi, perciò si abbracciavano l’un l’altro e da sopra vedevi la massa di gente che si spostava di qua e di là, a mo’ di giocatori di rugby… Il problema è che nel rugby sono in dieci, lì erano in mille! Era una cosa bella da vedere. Poi si capisce che le spinte non bastavano più, e hanno cominciato a saltarsi addosso!». Negli anni molti altri sono diventati dischi simbolo del Number One, come «Ping Machine» dei Micropoint, «At War (Rmx)» dei Leathernecks, «Cunt Face» dei Nasenbluten, «Pulsinger’s Nacht» degli Ilsa Gold.
Nel 1996 Lancinhouse e Jappo (un giovane dj che aveva affiancato Claudio come dj resident) cominciarono a produrre tracce ideate appositamente a questo scopo. Nel primo brano della serie, «Oh Claudio, Play This Song», (alla cui realizzazione partecipò Lenny Dee) sembra che un intero stadio ripeta in coro «Claudio, play this song»; in realtà si tratta di un campionamento preso da un disco live degli U2, ma l’illusione è perfetta; al coro si somma una grottesca e saltellante melodia, prima di una cavalcata finale a 250 bpm. Seguono poi «Fukem Outro», «Industrial Strength “the Outro”», «Trash Fucker», e altre tracce che non hanno mai visto la luce su vinile. L’idea costruttiva è simile in tutti i brani, ed è modellata appositamente sugli spostamenti della massa di gente nel momento del finale, in un feedback ravvicinato tra produttore, dj e dancefloor, in grado di influenzarsi reciprocamente per dar vita ad un rituale collettivo in evoluzione. «Tutti questi brani sono stati concepiti come finale; duravano poco, c’era una parte lenta e poi la parte che “menava” e nella quale la gente si ammassava, che durava poco, per fare in modo che la gente non si pressasse troppo. Poi di nuovo una parte lenta, dove la gente si riapriva. Era studiata, la cosa», spiega Claudio.
DJ Jappo & DJ Lancinhouse, «Fukem Outro»
Dall’essere un momento di euforia collettiva il finale diventò, nel corso degli anni, una sorta di guerriglia. All’accensione delle luci la pista si svuotava, per poi richiudersi da ogni parte alla partenza della musica; tutti i partecipanti alla mischia (fino a un migliaio di persone) correvano verso il centro scontrandosi, come nel mosh pit dei concerti metal, in un tripudio di esaltazione e violenza. Toraci schiacciati, fratture e contusioni di ogni tipo erano l’effetto collaterale di questa pratica estrema. A riguardo, circolano ogni genere di storie raccapriccianti: ho sentito di ragazzi caduti di faccia sul pavimento che, col volto ricoperto di sangue, hanno continuato a ballare sorridenti come se nulla fosse, e addirittura di dita mozzate nel la violenza degli urti; vere o meno, queste storie fanno parte della leggenda del Number One. Questo scenario da girone infernale è assolutamente unico per una discoteca: in Olanda, ad esempio, il pogo non è permesso; i gabber olandesi, per i quali essere urtati per sbaglio a una festa è già sufficientemente irritante, vedono negativamente questa interpretazione tutta italiana dell’hardcore.
Verso la fine degli anni Novanta i mucchi selvaggi del Number One sono andati consolidandosi in una consuetudine più riconoscibile e strutturata: quella della piramide umana, il cui scopo è quello di toccare il soffitto della Sala 2. Appena si accendono le luci a fine serata, gruppi di persone si abbracciano per le spalle in modo da formare una base centrale ad anello per la piramide; da ogni parte provengono coppie, uno portato a cavalcioni sulle spalle dell’altro, che vanno verso il centro; se tutto va bene si forma un secondo anello più alto di persone. A quel punto altri ancora cominciano ad assaltare questa torre da tutti i lati, scalando le schiene di quelli sotto cercando di arrivare in cima.
Non sempre la cosa va a buon fine, e la torre collassa lasciando a terra un mucchio di corpi intrecciati. Altre volte la piramide non è così organizzata, e semplicemente ha origine da concentrazioni compatte di centinaia di persone che saltano disordinatamente l’una sull’altra. Se la torre non è abbastanza alta, chi si trova in quel momento in cima a volte spicca un salto nel tentativo di raggiungere il soffitto, per poi ricadere sulla folla che si accalca tutto attorno. Molte volte la piramide viene interrotta da improvvisi movimenti nella calca: allora un’ondata di gente spinge via la base della piramide che collassa su sé stessa. Se lo scopo viene raggiunto, a volte chi tocca il soffitto rimane aggrappato all’impianto luci, come un giocatore di basket al canestro, con il rischio di dover lasciarsi andare ad un «volo» di cinque metri.
Nel 1998 la rivista olandese Update Magazine dichiarò la morte dell’hardcore, almeno come fenomeno di massa. Mentre lì la scena stava tornando nell’underground, dopo l’incredibile successo commerciale degli anni precedenti, nel Nord Italia stava subendo il processo inverso: l’hardcore stava uscendo dalle discoteche per divenire fenomeno di costume (cominciando anche ad apparire sui giornali, con il conseguente allarme mediatico). L’ondata gabber del Duemila venne associata ai giovani teppisti con bomber, teste rasate e tendenze destrorse (quella che, all’estero, era nota come «Lonsdale Youth»). L’afflusso di questa nuova generazione cambiò la composizione del pubblico ai party. La massa eterogenea e informale del Number One, fino a quel momento non così rigidamente connotata, andò cristallizzandosi in due principali sottogruppi: i gabber e gli hardcore warriors.
Gli «hardcore warriors» prendono il proprio nome dagli omonimi eventi mensili di cui abbiamo già parlato; questo termine era quindi già in uso per indicare il frequentatore del Number One, anche se solo attorno al 2000 si forma uno stile riconoscibile e consolidato. Il look dell’hardcore warrior di inizio millennio sta a metà fra l’emo-punk e il personaggio di Street Fighter, opportunamente integrato da abbigliamento antinfortunistico, a rimarcare la propria estrazione working class: pantaloncini o magliette da ciclista, gilet catarifrangenti da cantiere, jeans mutilati, guanti da motociclista, lenti a contatto colorate; le scarpe sono solitamente le Buffalo, zeppe dall’altezza notevole che fanno apparire i ragazzi che le indossano degli energumeni. Le ragazze possono indossare pantaloncini aderentissimi corti fino a metà gluteo su calze a rete, con scaldamuscoli in pelo sintetico dai colori shocking. Ma la cosa più vistosa è la capigliatura, vero e proprio campo di sperimentazione: l’obiettivo pare quello di raggiungere la maggiore altezza possibile e, per fare questo, i capelli vengono intrisi di colla di pesce, creando creste o punte che possono superare i cinquanta centimetri e che vengono tinte dei colori più improbabili. Dopo un’intera serata di urti e spintoni alcune di queste punte cedono, e sembrano spezzarsi alla base per poi rimanere penzolanti ai lati del capo; alcuni si limitano a portare lunghe code di cavallo su nuca e tempie rasate a zero. Spesso portano un make-up alla Brandon Lee nel film Il Corvo, o finti sorrisi dipinti sulla bocca che ricordano il personaggio di Joker in Batman.
Lo Space Trip, un negozio specializzato in abbigliamento per raver con una sede a Milano, cominciò a intercettare l’immaginario warrior con capi pensati appositamente: felpe e magliette con il logo «Sala 2», teschi, sfumature tricolori, o semplicemente il logo «hardcore warriors»; l’aspetto sgargiante e fluorescente di questi gadget sostituì gradualmente il fai-da-te al quale molti ravers ricorrevano.
Il modo di ballare del warrior, brutale e regressivo, ricorda delle mosse di kick boxing o di capoeira; le gambe sono larghe e il baricentro è basso per resistere agli urti violenti che provengono dai loro vicini. Alcuni in effetti non fanno altro che correre sul posto, movimento che li fa apparire come personaggi intrappolati in un videogioco; ma soprattutto tutti si identificano nel rito della piramide umana e nel pogo. Per questa ragione gli hardcore warriors sono perennemente in lotta con i buttafuori. Questi ultimi, famosi per la loro mole e per i metodi sbrigativi, cercano di tenere a bada chi poga prima del tempo usando le maniere forti: quando individuano un gruppo di persone che sta pogando, rapidamente si mettono in mezzo, assestando forti spintoni qua e là per calmare gli animi.
Piccolo aneddoto personale: dopo una nottata al Number One, appena uscito dall’ingresso principale, un tizio sui trentacinque anni mi avvicina e mi chiede una sigaretta, così cominciamo a parlare; all’inizio faccio fatica a capire il suo bresciano stretto. Come tutti quanti al Number One, la prima cosa che mi chiede è da dove vengo; e, come sempre succede quando rispondo «Milano», segue uno sbuffo sornione. Si lamenta del Number di oggi: da frequentatore di vecchia data ribadisce, come del resto quasi tutti, che una volta era molto meglio. «Una volta se c’era da menarsi, ci si menava; se c’era da sparare, si sparava. Ma non c’è paragone, era un’altra cosa». Mi racconta di quando nel 1998 ha toccato il soffitto, e che conserva ancora la foto di quel momento. «Noi toccavamo il soffitto anche due o tre volte a sera, oggi questi bimbiminchia vogliono solo a riprendersi a vicenda col cellulare, e nessuno è più disposto a stare sotto; ma il merito va a chi sta sotto e tiene su gli altri, che rischia di farsi male e non si dà tante arie».
L’atmosfera cominciò a diventare pesante con l’arrivo di compagnie violente dalla periferia di Milano, in particolare da Pioltello, Cinisello Balsamo e Cologno Monzese. Soprattutto il Numberino divenne un luogo malfamato ed ebbero luogo diversi incidenti. Il momento del finale si trasformò, più che altro, in una scusa per malmenarsi.
«Il Number ha cominciato a peggiorare, nel vero senso della parola, nel ’99», racconta Claudio. «Però c’è una cosa da dire: c’erano quindicimila persone ogni fine settimana. C’erano quelli che venivano per far casino, per scavallare, per rompere le scatole. Fin quando tu hai dieci persone fai presto a togliere il marcio, ma quando ne hai centocinquanta sparse per il locale diventa difficile».
L’evento che segnò la crisi del Number One fu la morte tristemente famosa di Yannick Blesio, un operaio diciannovenne di Collebeato, in provincia di Brescia. Stando alle cronache il 31 ottobre del 1999 al Ravestorm, un grande evento hardcore che impegnava tutte e tre le sale della discoteca, il ragazzo fu trovato agonizzante in un’aiuola del parcheggio; si vocifera (cosa che però non è stata riportata dai giornali) che fu buttato fuori e forse malmenato per essere stato trovato con delle pastiglie; nel freddo autunnale fu preda di un collasso. Portato all’ospedale e classificato come codice bianco fu soccorso in ritardo, e morì dopo quattro ore di agonia. La vicenda portò a un lungo processo, vinto molti anni dopo dal Number One; ma il locale fu attaccato dai giornali che montarono un caso mediatico attorno alla musica hardcore e al consumo di ecstasy. Claudio Lancini racconta: «Io l’ho saputo a mezzogiorno del giorno dopo da Mauro Picotto, che abitava a Belfast. Mi ha chiamato a mezzogiorno per chiedermi cosa era successo al Number, ma io non ne sapevo ancora niente». Nello stesso periodo morirono diversi ragazzi in discoteca: uno al Cocoricò, accoltellato nel parcheggio, un altro al Dylan, all’Ecu e al Florida, ma non ebbero lo stesso impatto mediatico: la morte di un ragazzo al Number One divenne un caso nazionale. Per un certo periodo la discoteca alternò periodi di chiusura a riaperture controllate; oggi ospita eventi hardcore solo occasionalmente.