Guida a Remoria
Nota dell’autore: parte dei contenuti qui pubblicati è originariamente apparsa nel 2017 sulle pagine della defunta rivista online The Towner. Nel frattempo, Remoria è diventata prima un libro (pubblicato da minimum fax nel 2019) e poi una mostra (visitabile al MACRO di Roma fino al 22 maggio): a questi rimando per chi volesse approfondire temi e storie.
La qui presente guida è invece pensata per il visitatore che intendesse esplorare, a suo rischio e pericolo, le porte di accesso a un mondo i cui strani eoni, come tutto ciò che non è morto, attendono in eterno.
Località
Roma Casilina, destinazioni varie
Numero tappe
4
Durata del tour
∞
Si ringrazia
Akoi 1 per le immagini, Internazionale Caoista, ATAC
Prima tappa
Il Sacro GRA
I romani l’hanno sempre intuito, il resto del mondo l’avrà capito quando nel 2013 a vincere il Leone d’Oro a Venezia fu Sacro GRA: il Grande Raccordo Anulare – o per l’appunto GRA – non è soltanto la più importante opera di ingegneria stradale della Capitale – è prima di tutto un oggetto sacro. E da autentico oggetto sacro, esiste in un mondo che sta a mezza strada tra realtà e mito, o nel suo caso a metà tra un bollettino Ondaverde e un cospicuo apparato di leggende urbane.
Se cercate in giro, di leggende sul GRA ne trovate parecchie, quasi tutte tendenti al macabro: storie di motociclisti senza testa che scorrazzano tra le uscite Aurelia e Boccea, di cadaveri seppelliti nei piloni dello svincolo Tuscolana, di coccodrilli che attraversano impunemente la strada… E però, questa è solo la superficie. Perché il GRA non è solo un totem metropolitano che per sua natura funziona come attrattore di aneddoti strani: è un mistero esso stesso. Un oggetto che sta lì mentre non avrebbe dovuto esserci. Una cosa che esiste a dispetto della logica, del buon senso, della Storia.
Il GRA, nel caso non lo sappiate, è l’autostrada che circonda ad anello la città di Roma – o per meglio dire la taglia a metà, visto che, fuori dal GRA, l’abitato continua per una decina buona di chilometri ancora. Questo ouroboros d’asfalto a tre corsie per senso di marcia è lungo 68km e orbita a circa 11km di distanza dal centro. È anche una delle arterie più trafficate d’Italia, percorsa giornalmente da qualcosa come 170.000 veicoli (stime del 2016).
Solo che quando il GRA fu progettato erano i lontani anni Quaranta del Novecento: a Roma le automobili erano poche, o per meglio dire pochissime. La stessa città, tolta qualche sparuta borgata di periferia, era relativamente piccola e non si estendeva granché oltre il suo perimetro storico. Il limes inconscio restavano le antiche mura aureliane, per una circonferenza di 18km appena. Insomma, a che diavolo serviva, in quell’arcaica era pre-automobilistica, un’opera faraonica e – si può dire – inutile come questa?
È la stessa domanda che si pone Renato Nicolini in Tanti futuri possibili, il documentario che Gianfranco Rosi girò come studio preparatorio allo stesso Sacro GRA: “Perché l’hanno costruito, qual è la ragione?”. L’unica cosa certa, secondo il compianto architetto, è “l’assolutezza del cerchio”: una cosa cioè “di grande forza simbolica”, ma anche un implicito rimando esoterico. Dopotutto, il GRA fu progettato da un ingegnere che si chiamava… Eugenio Gra! L’acronimo del grande anello autostradale coincide insomma col nome del suo creatore: non è forse la più classica di quelle che gli esoteristi chiamano “firme magiche”?
Nicolini lasciava intendere il potenziale occulto del GRA chiamando in causa Lewis Carroll: “Chissà cosa sarebbe successo ad Alice se avesse inseguito il Bianconiglio lungo il Grande Raccordo Anulare”. E dunque: sarà mica che il GRA è una porta che affaccia in realtà su un Mondo Altro, un piano inclinato capace di proiettare chi lo percorre di là dallo specchio? E cosa troveremmo dietro lo specchio del GRA? Stregatti e versi nonsense, oppure creature provenienti non dal subconscio di un raffinato scrittore inglese dell’800, ma da quello millenario della Città cosiddetta Eterna? E se così è, come attraversare lo specchio? Non sarà che il GRA, per assolvere alla sua misteriosa funzione, vada letto e interpretato in altri modi? Magari al contrario di come comunemente siamo abituati a immaginarlo, a interpretarlo, a utilizzarlo?
Tra le tante leggende urbane sul GRA, ce n’è una che in effetti non solo si riallaccia alle realtà alternative sibillinamente evocate da Renato Nicolini, ma che arriva indietro nel tempo fino a coinvolgere lo stesso mito fondativo di Roma. Questa leggenda implica un vero e proprio rito magico che spiega sia perché il GRA è stato costruito, sia a cosa serve davvero, rispondendo quindi ai due quesiti sollevati da Nicolini e ribadendo l’interpretazione esoterica del grande anello autostradale.
Vi dico subito che, secondo tale leggenda, venire a capo dell’enigma-GRA non è semplice né sicuro: a dirla tutta, ne va anzi dell’incolumità dell’aspirante iniziato. Ma si sa, riti del genere sono spesso pericolosi.
Si tratta di percorrere il cerchio a ritroso, di risalire dalla coda alla bocca dell’ouroboros così da ribaltare, rovesciare e invertire la realtà apparente delle cose.
Le istruzioni del rito sono semplici: una volta saliti sulla propria auto (è un rito moderno), bisogna per prima cosa dirigersi verso lo svincolo Casilina dello stesso Raccordo – in linguaggio ANAS, “Uscita 18”. L’importanza di tale svincolo risiede nel fatto che l’allaccio al Raccordo si rivela a sua volta un bizzarro esempio di micro-GRA: contro ogni regola (e contro ogni buon senso), le rampe di accesso e di uscita compongono un inestricabile anello dagli effetti disorientanti, al punto che entrarvi o uscirvi diventa una mera questione di probabilità. In ogni caso: una volta arrivati allo svincolo Casilina, non resta che armarsi di coraggio e… imboccarlo in direzione contraria al senso di marcia; dopodiché, il rito riporta un’unica istruzione soltanto: percorrere l’intero GRA contromano.
Sembrerebbe un’impresa suicida, ma il significato esoterico è chiaro: si tratta di percorrere il cerchio a ritroso, di risalire dalla coda alla bocca dell’ouroboros così da ribaltare, rovesciare e invertire la realtà apparente delle cose – vale a dire il mondo che conosciamo. E quindi: se l’intrepido automobilista riesce a sopravvivere a 68km di macchine che gli arrivano incontro a 130km/h, a forze dell’ordine che lo inseguono a sirene spiegate e a lavori in corso mal segnalati, ecco che dopo una quarantina di minuti si ritroverà al punto di partenza. Avrà percorso l’intero GRA nel senso opposto a quello previsto dal codice stradale e, tornato all’Uscita 18, anziché sbucare nuovamente su via Casilina, si ritroverà come per incanto a… Remoria. E cioè: la Roma che non fu e che avrebbe potuto essere, il Mito fondativo nella sua variante mortifera, il negativo occulto della Città Eterna.
La leggenda di Remoria risale giustappunto alle origini di Roma, la quale – come vi avranno raccontato alle elementari – prende il nome dal suo fondatore, il mitico Romolo. Questi divenne il primo re della città a spese del suo fratello gemello, lo sfortunato Remo, che per primo aveva visto in cielo gli avvoltoi (gli avvoltoi!) mandati dagli Dei per decidere a quale dei due fratelli spettasse fondare la futura metropoli. Romolo, dal canto suo, di avvoltoi non ne aveva visto nemmeno uno (almeno secondo la versione di Plutarco), ma lo stesso uccise il fratello e di fatto fondò Roma con l’inganno. La città, riportano le fonti, era di forma quadrata.
Ma cosa sarebbe successo se nella lotta tra i due a spuntarla fosse stato proprio Remo? Facile: al posto di Roma avremmo avuto… Remoria. Che, si suppone, avrebbe a quel punto avuto una forma circolare.
E in qualche modo Remoria esistette sul serio, se non come città come ricordo necrofilo: nell’Antica Roma, le Lemuria (da Remuria) erano appunto le cerimonie che si svolgevano per esorcizzare lo spirito dei morti e placare lo spirito di Remo. Simili cerimonie si eclissarono ovviamente col tramonto della Roma pagana, ma ecco che 2.700 anni dopo, degli oscuri stregoni camuffati da ingegneri dell’ANAS capeggiati dal magus Eugenio Gra si inventano il GRA: un mastodontico cerchio magico che opportunamente percorso conduce diritti a quel mondo dei morti che tuttora cova sotto i sampietrini della Città Eterna.
Secondo Tito Livio, quando Romolo uccise Remo scagliò una maledizione che più chiara non si può: “Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura”. Ebbene, il GRA altro non sarebbe che il tentativo di scavalcare quelle simboliche mura, e risvegliare la necropoli occulta che giace sotto (sopra? di lato?) la Roma che conosciamo. Bisogna anche dire che, pur senza ricorrere a riti magici e interpretazioni esoteriche, è piuttosto probabile che, se decidete di infilare il GRA contromano, nel mondo dei morti ci finirete ben prima di averne percorso l’intero tracciato. Si tratta anche dell’unico rito magico – perlomeno tra quelli di mia conoscenza – che, tra i rischi del caso, contempla anche il ritiro della patente.
Ma se Remoria da qualche parte esiste davvero, in che modo la sua tormentata anima ha influenzato e deformato la Roma “di sopra”? Esistono altri varchi, altri piani inclinati che mettono in contatto la città dei vivi con quella dei morti? La risposta chiaramente è sì, e le prove le troviamo non a caso proprio lungo la via Casilina, o più in generale nel quadrante orientale della città, la famigerata Roma Est: è qui che covano alcuni dei più innominabili arcani della millenaria Urbe, è qui che la Roma moderna – la sua periferia caotica, la sua topografia nonsense, i suoi buchi neri urbani – si rivela non come tarda appendice dell’antica città di Romolo, ma come membrana capace di schiantarti tra le braccia di Remo e del suo fantasma maledetto.
Seconda tappa
L’enigma 23
Come seconda tappa di questa guida, non posso quindi che partire da un numero il cui significato esoterico è noto a chiunque traffichi con antichi grimori e manuali di magia pratica: il 23. Stavolta non si tratta di un’uscita del GRA, ma di un quartiere intero – o, più che un quartiere, di un’astronave calata da qualche misteriosa dimensione parallela su quel macello urbanistico che che sorge tra le borgate di Centocelle e Torpignattara, ancora una volta nel quadrante orientale stretto tra la suddetta via Casilina e la sua gemella oscura, la via Prenestina.
Il Casilino 23 appartiene alla stessa generazione dei vari Corviale, Laurentino 38, Tor Bella Monaca: quartieri progettati tra anni Sessanta e Settanta come diretto risultato dei Piani per l’Edilizia Economica e Popolare, i celeberrimi PEEP che puntellarono le periferie romane di interventi giganteschi e dalla stranita aria aliena, a mezza strada tra distopia sci-fi e una forma conturbante di metafisica brutalista.
A differenza dei suoi cugini, il Casilino 23 compare poco sulle pagine di cronaca (perlopiù nera) locale. Ma come gli altri PEEP coevi, ha il potere di deformare la geografia che gli sta attorno: le sue dimensioni, la sua scala extra-umana, le sue forme non direttamente leggibili se non da una del tutto ipotetica prospettiva dall’alto, lo rendono il più classico degli attrattori strani. Anzi, di tutti i piani di zona progettati in quegli anni, il Casilino 23 è quello dalla fisionomia in assoluto più misteriosa. Date intanto un’occhiata a questo plastico:
Ora, magari non è chiaro, ma riprendendo una definizione di Piero Ostilio Rossi (dal suo Roma – Guida all’architettura moderna, Laterza) viene fuori che “tutto il quartiere è inscritto in un ideale solido generato dalla rotazione di un trapezio”: i lunghi edifici, anche noti come stecche, sono disposti a ventaglio secondo uno schema radiale che pare convergere verso un unico, invisibile centro. Non bastasse, più ci si allontana dal centro, più gli edifici si alzano: se alla base del ventaglio i fabbricati non superano i due-tre piani, alle sue estremità i piani diventano 13, 14, 15. Questo disegno così apparentemente limpido (che a occhio nudo è impossibile da cogliere) produce effetti imprevisti, specie se si decide di attraversare il quartiere a piedi: se di ventaglio si tratta, è un “ventaglio di possibilità” che costringe il visitatore a geometrie non euclidee o comunque (di nuovo) non umane.
Più che un quartiere, il Casilino 23 è un generatore di paradossi. La prima anomalia contraddice il postulato secondo il quale due rette parallele non si incontrano mai. È abbastanza difficile da spiegare, ma ci provo lo stesso: al cosiddetto livello-strada (quello insomma di un ipotetico attraversatore umano del quartiere), gli edifici del Casilino 23 si presentano come delle anonime stecche orizzontali in cemento, disposte le une accanto alle altre secondo un ordinato andamento seriale. Sono insomma rette parallele, o perlomeno l’occhio le percepisce come tali. Noi però sappiamo che, osservando il disegno del quartiere dall’alto, queste rette convergono in realtà verso la base del ventaglio. Tendono cioè a incontrarsi, senza che questo incontro si verifichi mai nell’esperienza concreta del visitatore.
L’effetto, per chi attraversa il Casilino 23 a piedi, è sconcertante: nonostante sia un quartiere progettato secondo gerarchie di una purezza cristallina, una volta che ci entri si trasforma in un labirinto in cui è impossibile non perdersi. E questo ci porta alla seconda anomalia, che mi piace chiamare “il paradosso della linea retta curva”.
L’intero Casilino 23 è tagliato da percorsi pedonali che lo attraversano longitudinalmente, in modo da collegare le diverse stecche secondo uno schema classico, quello cioè che ti consente di arrivare da un punto A a un punto Z nel modo più diretto e veloce possibile. Si tratta quindi di corridoi in apparenza lineari, ma anche qui piegati dalla silenziosa curvatura che, come avrete intuito, è il respiro stesso del quartiere. In sostanza: se prendo uno di questi corridoi dal punto A, la mia impressione sarà quella di procedere diritto secondo la consueta linea retta; e in effetti, arrivato al punto Z, la sensazione sarà quella: mi troverò esattamente nella stessa posizione di partenza (il più delle volte, a metà della stecca di turno), solo spostato di qualche centinaio di metri più in là. E però la realtà è che, inavvertitamente e come guidato da qualche entità che ha segretamente deciso per me, anziché andare dritto ho piegato verso destra, o sinistra, seguendo la circonferenza di un ipotetico cerchio che, qualora percorso per intero, mi avrebbe riportato al punto di partenza. Ed eccolo, il cerchio: la forma che, come abbiamo visto parlando del GRA, ci fornisce l’indizio che non di Roma stiamo parlando ma di Remoria.
L’odore di Remoria (che poi altro non è che puzza di zolfo) viene in fondo amplificato dallo stesso nome del quartiere: perché, come qualunque fan dei KLF sa bene, il 23 è il numero sacro di Eris, la dea greca del Caos – almeno stando alla venerabile dottrina del discordianesimo. Qualcuno obietterà che quel 23 altro non è che il numero del Piano di Edilizia Economica e Popolare che per pura coincidenza è toccato al Casilino, così come al Laurentino è toccato il 38, a Spinaceto il 46, eccetera. Ma di che coincidenza si può parlare, quando 23 è anche il numero dei raggi che in totale compongono il ventaglio che dà forma al quartiere?
Da dove partono questi raggi? Verso quale “centro” convergono le stecche di un tale capolavoro di urbanistica weird, che in puro spirito lovecraftiano distorce le prospettive, altera i punti cardinali, ribalta le geometrie, le proporzioni, le distanze?
C’è infine un’ultima anomalia che infesta il Casilino 23, e che è intuibile tornando all’altezza degli edifici a cui si accennava sopra. Come abbiamo detto, questi si alzano man mano che ci si allontana dalla base del ventaglio: è una progressione (quasi) senza strappi, amplificata dal fatto che la linea di coronamento dei fabbricati è continua. Per capirci: niente gradoni o bruschi salti da un piano all’altro; le stecche del Casilino 23 sono profili inclinati che si innalzano come spinti da una potenza primigenia, dei raggi la cui origine andrebbe a questo punto ricercata nel punto verso cui tali raggi convergono. Che sia lì che alberga quell’entità occulta che trasforma il quartiere in attrattore strano, in paradosso non-euclideo, in ventaglio di possibilità? Da dove partono questi raggi? Verso quale “centro” convergono le stecche di un tale capolavoro di urbanistica weird, che in puro spirito lovecraftiano distorce le prospettive, altera i punti cardinali, ribalta le geometrie, le proporzioni, le distanze?
Se tanto mi da tanto, tutto dovrebbe puntare a un altro varco, un piano inclinato, una porta che conduce direttamente a Remoria. È un’ipotesi confermata dal fatto che, nel progetto originario, lo spazio in cui si incrociano le 23 direttrici del ventaglio viene lasciato vuoto, come a voler ribadire la sacralità inviolabile della soglia. Ora, che i grandi interventi “modernisti” contemplino al loro interno riferimenti dal sapore smaccatamente mitologico, non è un mistero; lo spiega bene Julian House della Ghost Box in un’intervista che ebbi modo di fargli qualche tempo fa: “Molti di questi insediamenti in effetti sono costruiti attorno a monumenti antichi, o a resti di epoche passate. Oppure rimandano in pianta a qualcosa di preesistente che però non è più possibile scorgere per via dello scorrere dei secoli”. Qui però si tratta di qualcosa d’altro. E cioè di un ipotetico passaggio al di là, verso quello che avrebbe potuto essere e invece non è, ma forse da qualche parte è ancora e basta sapere come arrivarci.
Ebbene: per decenni l’origine occulta del Casilino 23 è rimasta inviolata, sospesa sul piano stradale che separa il quartiere dalla limitrofa Centocelle. Per decenni quell’area è stata il più classico dei buchi neri urbani, un terrain vague, un’area inaccessibile e vuota, inscritta in un perimetro invalicabile e muto. Fino a che, a inizi anni 2000, su quel vuoto verso cui tutto converge, si posò lo sguardo della cosiddetta “riqualificazione”. Ovvero: la costruzione di un centro commerciale.
E così, lì dove probabilmente si cela uno dei rari passaggi che mettono in contatto Roma con Remoria, adesso sorgono negozi di elettrodomestici, due o tre bar, un supermercato, un’OVS, un negozio di articoli sportivi e un ottico. Ogni tanto vado lì e mi domando “maledizione, dove diavolo sarà questo fantomatico varco?” e indugio tra il parcheggio sotterraneo e la scalinata che conduce ai piani alti di questo ennesimo, inutile shopping mall di borgata. Ma niente. Di solito va a finire che mi ritrovo al Mediaworld del secondo piano per spulciare nel reparto CD sperando di beccare una raccolta degli Abba a prezzo scontato. Anche quella, non la trovo mai.
Terza tappa
Negli abissi del Lago Finto
La terza tappa della nostra guida non può che condurci sulle sponde del più incredibile specchio d’acqua comparso letteralmente a caso nella periferia Est di Roma: sto ovviamente parlando dell’ormai celeberrimo lago Ex Snia. Le sue origini risalgono alla prima metà degli anni Novanta, quando in un’ex area industriale a ridosso della via Prenestina (a un paio di chilometri dal Casilino 23), cominciarono i lavori per il solito, inutile centro commerciale. Successe però che gli scavi per il parcheggio sotterraneo intaccarono la falda acquifera, che eruppe in superficie allagando l’area e partorendo dal nulla un autentico lago di 10.000 metri quadri. Ed ecco a sorpresa il miracolo, il sortilegio, la stregoneria inspiegabile: un lago naturale che appare così, da un giorno all’altro, in mezzo a fasci ferroviari e fabbriche in disuso.
Figurarsi: quando ai tempi la notizia si diffuse in zona, noi ragazzi che in quel quadrante ci vivevamo eleggemmo immediatamente er laghetto a meta clandestina per altrettanto clandestini passatempi. Arrivarci non era facile: agli inizi, per raggiungerne le sponde bisognava aggrapparsi a una corda che qualche anonimo aveva saggiamente provveduto a installare. Ma una volta sul posto, potevi beatamente distenderti sulla riva in cemento armato e goderti il surreale panorama di una vegetazione incolta che a malapena celava il profilo dei vicini casermoni popolari, e lì smorfinare in santa pace. Evidentemente non per caso, vale la pena ricordare come proprio lì accanto si svolsero alcuni dei più indimenticabili rave parties del periodo.
Quello strano, straordinario specchio d’acqua su cui ancora incombevano i cantieri abbandonati dell’ormai abortito parcheggio, venne ribattezzato Lago Finto nonostante fosse a tutti gli effetti un lago vero, e a quanto era dato di capire persino più pulito della media: aveva proprio un che di puro, o meglio di primordiale; ma il suo arrivo non annunciato, la sua inappellabile alterità al “mondo di sopra”, la sua prepotente emersione dalle viscere del sottosuolo, lo rendevano un oggetto irriducibilmente alieno. Era vero, sì: ma non poteva essere reale.
Il che ci porta alle imprese di un minuscolo gruppo di psicogeografi e aspiranti occultisti urbani, operanti a inizi anni 2000 sotto il nome di Internazionale Caoista – in realtà, una banda di borgatari rovinati dai troppi acidi ma anche avidi appassionati di situazionismo, urbanistica esoterica e satanismo 666. Di loro mi occupai ormai parecchi anni fa, sull’ultimo numero della rivista Torazine (che poi era anche il primo numero della sua erede Catastrophe) all’interno di un saggio sulle “nuove subavanguardie romane”. Quello che qui ci interessa, è che ai caoisti si deve una delle più rocambolesche elaborazioni del mito-Remoria, rimasta tuttora ineguagliata per audacia interpretativa e contorto rigore intellettuale.
Se siete arrivati fin qui, capirete bene che, per la mitologia remoriana, il Lago Finto rappresenta un precipitato di indizi poco meno che inauditi: ecco che, nel monotono svolgimento della vita di tutti i giorni, irrompe un oggetto palesemente piovuto da una dimensione parallela, che per la sua stessa natura rimanda al concetto di varco, di pozzo oscuro, di sottile membrana che separa ciò che sta sopra da ciò che sta sotto. I miti lacustri di ogni provenienza e tradizione riportano che, nelle profondità dei laghi, dimorano i resti dei signori dell’Ade come dei figli del Sole, senza ovviamente dire di dame, ninfe e mostri. Per i caoisti, il Lago Finto diventa invece l’epicentro di New Sodoma, la “città del caos” (se non l’aveste capito, il termine “caoista” viene da lì) che silenziosamente cova sotto la Roma che tutti conosciamo. In una parola, come quei laghi vulcanici i cui abissi distorcono l’arco spaziotemporale proiettando nell’oggi le ombre di ere geologiche antidiluviane, il Lago Finto è la soglia sotto le cui acque pulsa il cuore della Roma che mai fu ma che avrebbe potuto essere.
Il nome New Sodoma è un chiaro richiamo a New Babylon, la “città nomade” concepita dall’unico vero architetto-urbanista situazionista, l’olandese Constant Nieuwenhuys. In questo senso, la sedicente Internazionale Caoista tradiva una conoscenza non scontata del vecchio bagaglio avanguardista-controculturale: l’altro importante riferimento caoista erano d’altronde i Provos, il movimento – sempre olandese – che negli anni Sessanta elesse Amsterdam a “città magica” sulla scorta di un’immaginifica lettura della pianta della città. I caoisti fecero lo stesso con Roma, al punto che il loro slogan fu un altisonante “Magica Roma” indistinguibile da quello dei gruppi ultrà, ma non divaghiamo. È comunque curioso notare come le loro attenzioni si concentrarono dapprima proprio sul Grande Raccordo Anulare, che come abbiamo visto resta il più importante anello di congiunzione tra la città di Romolo e quella di Remo. Infine, la stessa idea di caoismo rimanda a quella magia del caos che alle elaborate cerimonie pagan-babilonesi dell’esoterismo “ufficiale” sostituì invocazioni a Cthulhu e strambi riti lovecraftiani, e sappiamo che il numero sacro di Eris, la dea greca del Caos, è lo stesso 23 del vicino Casilino 23: tutto si tiene.
I caoisti insomma si misero a studiare la pianta di Roma e scoprirono che, man mano che si la città si estendeva al di fuori del centro per lambire e poi superare il Grande Raccordo Anulare, questa seguiva traiettorie sempre più disordinate. Non una grande scoperta per chiunque abbia provato ad attraversare Roma da un punto A a un punto B a caso, d’accordo: ma quel che conta è che la disposizione caotica dell’abitato restituiva su scala urbana quel tipico movimento frattale che tanto eccita i fisici matematici alle prese con – toh – le teorie del caos. Il GRA sarebbe insomma il classico attrattore strano verso cui converge l’intero organismo urbano; ma è anche un cerchio magico, il che significa che l’unica via per comprendere il disordine cittadino è quella occulta. Altro che speculazione edilizia! È qui che la dottrina caoista si fa particolarmente spericolata, ed è sempre qui che il Lago Finto interviene con le sue qualità sovrannaturali.
Da bravi appassionati di Chaos Magick e bizzarrie esoteriche off off, i caoisti non potevano non avere dimestichezza col vocabolario pseudosatanista inaugurato da figuri come Aleister Crowley e soprattutto Austin Osman Spare, i due “fratelli neri” che nel Novecento allargarono i confini della magia sexualis trasformandola in un ricettacolo di esperienze sempre meno convenzionali. Specie per Spare, il sesso – meglio se estremo, selvaggio, qualcuno direbbe degenerato – era, assieme al dolore e alla paura, il principale veicolo attraverso il quale l’individuo è in grado di ricongiungersi con un Sè Cosmico da lui ribattezzato Zos, e che in sostanza coincide con una sorta di subconscio totale. Sia Spare che Crowley si rifacevano dopotutto a una lunga tradizione che andava indietro nel tempo fino agli antichi sumeri e ai Culti di Set, il “dio egizio della distruzione” la cui stella è Sirio, vale a dire il fuoco o potere fallico. Set è una variante di Shaitan, un’antica divinità degli Yezidi chiaramente imparentata col nostro Satana: ma in termini magici altro non è che il subconscio, ovvero quell’area oscura, nascosta, negativa, ove dimora il succitato Sé Cosmico messo a riposo dal nostro comune stato di veglia.
Ora, però: se il sesso – per Crowley, Spare, come per i loro antenati precristiani – è il veicolo privilegiato per penetrare il subconscio, questo non può che essere “negativo” esso stesso, e quindi avvenire per via “invertita”. In altre parole: sodomia. Anche perché “ciò che sta in basso è ciò che sta in alto” eccetera.
Il Lago Finto è un evento invertito e sbagliato: è naturale ma la sua genesi è artificiale, le sue acque penetrano il suolo ma non lo fecondano, provoca ulteriore disordine in un contesto ad altissima densità di caos, e funziona come canale tra ciò che sta in basso e ciò che sta in alto.
La New Sodoma immaginata dai caoisti è quindi l’applicazione in chiave urbanistica dell’unico principio vagamente comprensibile del loro testo più completo, intitolato non a caso Penetralia (chiara citazione dei Coil, anche loro dichiarati seguaci degli insegnamenti di Spare): la fantomatica SODOMIA FRATTALE. Recita Penetralia: “La sodomia è inversione, ribaltamento continuo dell’esistente (…). Dall’ano entrano gli effluvi del subconscio, il subconscio è la vera essenza del Sé, questa vera essenza è caotica, il caos segue un movimento frattale: quindi la sodomia è una pratica frattale dell’affermazione del Sé”. A scanso di equivoci, sottotitolo di Penetralia è: “Trattato caoista per inculare il mondo”. Subavanguardisti sì, ma pur sempre de’ borgata.
Letta in questa chiave, l’inattesa emersione del Lago Finto diventa per i caoisti un attrattore dal preciso sapore sodomitico-frattale: sia perché una massa liquida che sprizza dalle viscere della terra eiaculando in superficie è in sé un’immagine molto sessuale, sia perché, se il subconscio è ciò che “sta sommerso”, l’equivalenza col lago viene praticamente automatica. In più, nell’interpretazione caoista, il Lago Finto è un evento invertito e sbagliato: è naturale ma la sua genesi è artificiale, le sue acque penetrano il suolo ma non lo fecondano, provoca ulteriore disordine in un contesto ad altissima densità di caos, e funziona come canale tra ciò che sta in basso e ciò che sta in alto. C’è anche da considerare l’atmosfera squisitamente lovecraftiana del posto: abbiamo detto che Lovecraft è stato una grossa fonte di ispirazione per maghi del caos e relativi emuli, e sappiamo che HPL aveva una certa predilezione per paludi e atmosfere lacustri. Non è escluso che un giorno, dalle acque del Lago Finto, emerga Cthulhu in persona; come non è escluso che il Lago Finto altro non sia che un annuncio di Area X, o quel tipico oggetto che, per dirla alla Timothy Morton, “pur non essendo quello che sembra, è esattamente quello che è”.
Un lago vero ma non reale. Il buco di culo penetrato il quale si precipita in quell’oscena R’lyeh che è Remoria.
Quarta tappa
Il binario fantasma
L’ultima tappa di questo tour ci porta, se non a lambire il centro di Roma (antitesi massima di quell’entità squisitamente periferica che è Remoria), ad atterrare nella twilight zone che separa due mondi tra loro inconciliabili. E per una volta, anziché proiettarci tra le quinte di un ambiente se non altro geolocalizzabile sulle mappe, ci obbliga a salire a bordo di un oggetto progettato per il movimento, e quindi per sua natura illocalizzabile.
I romani lo conoscono col nome di “trenino di via Casilina” o anche “trenino giallo” (dal colore dei convogli – che però una volta erano blu): nella realtà, altro non è che un vecchio, scalcagnato tram le cui carrozze trasmettono lo stesso senso di stabilità di una vecchia Fiat 127 ripescata da uno sfasciacarrozze in disuso.
Detto questo, il trenino è anche uno dei pochi mezzi di Roma sul quale il viandante può fare affidamento nel generalizzato dramma del trasporto pubblico locale, caratterizzato come sappiamo da autobus che non passano mai (o che, se passano, prendono fuoco), tram a singhiozzo, treni che sbucano nel nulla e rete metropolitana talmente ridicola che l’espressione “sottodimensionata” vale al limite come eufemismo. Il trenino, invece, è sempre lì: affidabile, regolare, non esattamente comodo ma almeno sai che prima o poi arriva.
Originariamente inaugurato nel lontano 1916, il trenino nacque in effetti come autentica ferrovia suburbana a scartamento ridotto; nel suo periodo d’oro collegava la stazione Termini alla remotissima Frosinone, per una tratta complessiva di circa 137 km da percorrere alla supersonica velocità di 40 km all’ora. Ma vista la natura non esattamente performante del progetto, di decennio in decennio la ferrovia verrà progressivamente ridimensionata e il suo percorso drasticamente ridotto, fino alla definitiva trasformazione in semplice tram urbano avvenuta negli anni Ottanta del Novecento, quando il capolinea esterno viene dapprima attestato in zona Grotte Celoni (all’altezza del quartiere Tor Bella Monaca e quindi a circa 17 km dal centro), poi, a seguito di ulteriori tagli, nel quartiere Giardinetti (giusto a ridosso dello svincolo Casilina del GRA; distanza dal centro: 13 km) e infine nella tutto sommato vicina Centocelle: allo stato attuale, la tratta rotabile non arriva a coprire i 6 km di lunghezza, tutti (o quasi) percorsi nella lurida sede separata posta al centro di via Casilina – la strada remoriana par excellence.
Sia per i frequentatori che per i visitatori occasionali, il trenino di via Casilina appare da subito come un enigma: ad alimentare il senso di mistero è innanzitutto la sua natura precaria, il suo aspetto malfermo e instabile, al punto che più volte i fanatici del decoro ne hanno invocato la soppressione perché non è ammissibile che un tale accrocco continui a sferragliare in quella che dopotutto sarebbe una Grande Capitale Europea. Al tempo stesso, quantomeno per i non romani, il fascino del trenino giallo sta nella natura al contempo lineare e accidentata del suo percorso, che attraversa una fetta importante dei tipici quartieri “neorealisti” tanto cari a gentrificatori e registi in trasferta: una volta saliti sui suoi vagoni nell’angolo più infame di stazione Termini, tra puzza di piscio e spacci di vario tipo, è possibile dapprima costeggiare il favoleggiato quartiere multiculturale dell’Esquilino, per poi placidamente inoltrarsi in direzione Pigneto, Mandrione, Torpignattara, Marranella, e infine Centocelle (nonché Casilino 23): in sostanza, se state progettando l’ennesimo Pasolini Tour, questo è il mezzo ideale per voi.
Ma qualcosa di strano succede lungo il tragitto. Venendo dal centro, una volta superate le lerce arcate della monumentalissima Porta Maggiore, il trenino punta verso quel luogo liminale che da sempre è Ponte Casilino, linea di confine tra lo sterminato suq di Roma Est e i più “europei” quartieri del limitrofo Appio-Tuscolano – nonché, in quanto ponte, varco per definizione.
Per arrivarvi, però, il trenino è costretto a entrare in una sorta di cupo canyon in cemento, una gola ipogea e oscura, stretta tra i sovrastanti fasci ferroviari della linea Roma-Napoli e le incombenti sagome di casermoni popolari anni Trenta. In un vertiginoso delirio multilivello degno di un’acquaforte di Piranesi, sopra di noi intuiamo le saettanti curve sopraelevate della Tangenziale Est, mentre in lontananza si scorge il profilo di quella specie di cattedrale gotica che è il deposito tramviario del Pigneto. Nel frattempo, il trenino attraversa lento il fondo del canyon sbalzando di colpo da destra a sinistra e poi da sinistra a destra, come a voler evitare un ostacolo, un intralcio, o forse un ingresso sbagliato. Che sta succedendo? (cit.)
Sta succedendo che il trenino di via Casilina è arrivato nei pressi dell’ennesimo varco per Remoria: il binario fantasma.
La faccenda è molto semplice: come la maggior parte delle ferrovie, anche il trenino di via Casilina corre su una doppia coppia di rotaie tra loro parallele – un binario per andare in una direzione, l’altro binario per andare nella direzione opposta. E invece, all’altezza di Ponte Casilino, le rotaie si incrociano, si intrecciano e si confondono, fino a che i binari, da due, diventano… uno soltanto (se due convogli provenienti da direzioni opposte si incontrano, un apposito semaforo ne regola la precedenza).
La domanda a questo punto è: che fine ha fatto l’altro binario? E soprattutto: dove porterebbero le sue rotaie, nella malaugurata ipotesi che un giorno un convoglio non riuscisse a scartare in tempo, ritrovandosi così a percorrere un tracciato che nessuna mappa ufficiale contempla?
La risposta potete intuirla da voi: dopotutto, per decenni l’occulto canyon attraversato ogni giorno da migliaia di pendolari è stato una sorta di tunnel che introduceva a quell’altra dimensione parallela rappresentata dal vecchio Deposito della Nettezza Urbana di Ponte Casilino, regno del rifiuto e dello scarto, dominio del mostruoso e del deforme, manifestazione massima della Remoria che sottoterra preme, e che di tanto in tanto riappare aberrante in superficie.
Da decenni il trenino di via Casilna ha smesso di essere un treno, e la sua esistenza viene ciclicamente minacciata da nuovi progetti e ipotesi di riconversione. Parte del suo tracciato più periferico – quello che un tempo proseguiva oltre Centocelle – è stato in effetti sostituito dall’attuale linea C della metropolitana, che coi suoi luccicanti convogli automatizzati trasmette se non altro un timido surrogato di modernità. Ma non fatevi ingannare: il trenino non è l’antenato della Linea C perché i suoi binari sono stati riconvertiti in un mezzo di trasporto più rapido ed efficiente. Semmai, è il cuore nero a cui la stessa Linea C, che sottoterra percorre l’intero quadrante Est di Roma, non può che pagare pegno: perché la C sta per Casilina, e quindi per Caos.