Guardare la bestia negli occhi
È una mattina d’inverno a Torpignattara, il quartiere di Roma su via Casilina che appena un paio d’anni fa i media descrivevano come la “Molenbeek d’Italia”. La notte ha piovuto, il cielo è di piombo, e per terra è una poltiglia di asfalto screpolato, escrementi di cane, vetri rotti, rigagnoli tossici e immondizia marcescente. Una carcassa d’auto bruciata sta abbandonata da settimane all’angolo di via Visconte Maggiolo. I calcestruzzi e gli scarti edili si ammucchiano dinanzi a un cantiere rimasto a metà in quello strano vicolo cieco che è la fine di via Dulceri, là dove ancora insistono le baracche in lamiera ondulata ultimo retaggio delle vestigia neorealiste (“atmosfera pasoliniana”, puntualizzano gli annunci di Tecnocasa). Su via della Marranella i cassonetti traboccano di rifiuti in ossequio all’immagine da cartolina che più è servita a raccontare la Roma di quest’ultimo scorcio di anni Dieci. E finalmente, ecco che dall’alto piomba assassino un gabbiano. È bianchissimo – l’unica presenza a illuminare col suo candore un panorama tutto virato sul grigio-catrame e sul marrone-merda. Punta a colpo sicuro tra i rifiuti abbandonati, e ne riemerge con una strana chiazza nerastra a sporcarne il duro becco così arancione, così brillante, così irreale. Metto a fuoco meglio e capisco che è un ratto. Lo brandisce a mezz’aria squarciandone le carni, e sono quasi sicuro di veder schizzare il sangue. Se lo porta in alto e via, verso le grevi altezze di Roma Est. Addio, gabbiano immacolato! Innalza nei cieli le putrescenti carni della tua vittima sacrificale: er sorcio de Torpigna.
Io lo so che a questo punto state ridendo. O state inarcando il sopracciglio. O state scuotendo la testa. Perché è una scena troppo perfetta per essere vera. Di una violenza irrisoria che tracima nel comico, nel ridicolo, nel grottesco. Ma anche nell’epico, nel grandioso, in quel sottile senso di compiacimento che sta nell’osservare la catastrofe dispiegarsi dinanzi ai tuoi occhi. “Nella piazzetta triangolare in cui confluiscono via dell’Acqua Bullicante e via della Maranella gli emigrati bengalesi hanno eretto un altare alla dea Kali”, scriveva Walter Siti nel 2008 in una delle ultime pagine de Il contagio, il suo romanzo-icona sulle borgate romane. Dieci anni dopo, ad appena pochi metri da quello slargo, la divinità hindu della distruzione sembra aver finalmente dato sfoggio a tutta la possanza che quell’altare immaginario lasciava appena intravedere – ma l’ha fatto in maniera parossistica e sottilmente beffarda, quasi a parodiare il vetusto ma sempre avvincente cliché della “decadenza urbana”. Dagli altari alla dea Kali si è arrivati al Kali Yuga – altezza via Casilina. Da stazione Termini, basta salire su un convoglio delle ferrovie Laziali ed è una ventina di minuti appena. Venite a vedere anche voi!
Sono tempi di narrazioni, o perlomeno a questo siamo condannati. E la narrazione che Roma ha regalato alle cronache è quella dello sfacelo, della città allo sbando, della monnezza ovunque e dei gabbiani che volteggiano come avvoltoi. In una parola: IL DEGRADO. “Roma fa schifo”, titola l’ormai celeberrimo blog che più di tutti invoca la micragnosa retorica del decoro, del vietato calpestare le aiuole e del nascondi il barbone dove almeno non si vede. Il suo ideatore è finito pure sul New York Times a mo’ di voce e fustigatore ufficiale dell’attuale Rome in Ruins. Nella vita di tutti i giorni, è un appassionato d’arte contemporanea che suppongo andrebbe in visibilio per le immagini della Bowery invasa da prostitute e dropouts nell’ultracreativa New York di fine anni Settanta, ma che non riesce a tollerare la nefasta accoppiata sporcizia & povertà quando esibisce le sue brutture nel cortiletto dietro casa. “Giorgio scappa da Roma, si trasferisce a Milano e qui si sfoga”, titola un suo recente post. E figurarsi! Se mai c’è stato un momento in cui Roma è stata data definitivamente per persa, sconfitta, umiliata è quando lo scorso dicembre il Sole 24 Ore elesse a città più vivibile d’Italia l’eterna arcinemica già “capitale morale”. La stanca, trita, macchiettistica rivalità tra Roma e Milano si arricchiva di un nuovo capitolo nella sempiterna gara a chi ce l’ha più lungo, e stavolta non c’era davvero storia. Il paragone era peggio che impietoso: Roma annaspava tra i fumi tossici del TMB Salario, e Milano veleggiava dinamica verso il ristretto circolo delle grandi capitali globali. Da una parte una città ridotta a provincia introversa, rancorosa e lercia, dall’altra i grattacieli scintillanti, le eccellenze nel campo della cultura e i ritrovi dall’“aria europea” – che poi è sempre nord europea. Da una parte il risentimento populista che tutto demolisce e tutto azzera, dall’altra l’ottimismo progressista della ragione smart.
Eppure Roma ci aveva provato, a diventare quel modello di città lì. Negli anni Novanta fu anzi la prima città italiana a tentare, con inconsueto tempismo, l’aggancio all’allora nascente retorica della metropoli globale teatro di una urban experience fantasmagorica e vibrante. Gli esempi che arrivavano da Barcellona, da Berlino, addirittura da Bilbao (con Londra e Parigi che distanti osservavano forti di un primato secolare destinato a un incombente upgrade) suggerivano un campionario chiaro, persino una tassonomia vera e propria: architetture griffate che con la loro sola presenza rilanciavano la stessa identità dei luoghi; una vivacità alla moda e liberal, inclusiva e aperta al mondo; quartieri di periferia “riqualificati” e trasformati in cosmopoliti rifugi a uso e consumo della nascente “classe creativa”. Festival, rassegne, musei, fondazioni, eventi, la “cultura” che diventava “asset”, un’autorappresentazione compiaciuta della propria “modernità”. Immagino vi ricordi qualcosa.
In ogni caso: con quanta diligenza Roma si applicò a replicare quel modello! La città, che per tutta la seconda metà degli anni Ottanta era rimasta come addormentata e messa in ombra dalle mille luci della Milano da bere (sempre lei!), si riscoprì di colpo giovane, fresca e up-to-date. Arrivarono i progetti di Renzo Piano, di Zaha Hadid, di Richard Meier, di Odile Decq, di Massimilano Fuskas, di Santiago Calatrava – un concentrato di archistar mai visto prima, almeno in Italia. I vecchi capannoni industriali venivano riconvertiti in “incubatori per le aziende” presi d’assalto da quelle che in seguito avremmo imparato a chiamare start-up. La capitale dei piccoli artigiani e del ceto impiegatizio più sonnolento della nazione si ritrovò invasa da designer e non meglio precisati “creativi” impiegati in altrettanto vaghe “media company” – o almeno questo era quello che volevano farti credere i nuovi club “dall’aria berlinese” impegnati ad alimentare il mito della nightlife locale. Quartieri semiperiferici e dal comprovato pedigree proletario venivano “riqualificati” e trasformati in divertimentifici dove 24/7 echeggiavano i sinuosi ritmi di qualche eterno afterhour: San Lorenzo, Testaccio, Ostiense, Portonaccio, il Quadraro, e finalmente lui, il Pigneto. Curiosa, accogliente e open minded (uh?), Roma diventava la città del Gay Pride che sereno poteva convivere col Giubileo, dei nuovi musei d’arte contemporanea, delle piccole case editrici che svecchiavano l’ingessato panorama culturale dominato dalle odiose major del Nord, dei festival di musica elettronica dai cartelloni “di livello internazionale”, dell’“altra economia” che però guardava con simpatia alla Silicon Valley, del Gazometro che nell’iconografia locale soppiantava il Colosseo, delle “factory”, dei “village”, degli “acceleratori d’impresa” e dio solo sa cos’altro pescato da qualche catalogo scritto da un copywriter ubriaco fresco di inter-rail.
Come avrete capito, era tutto tra virgolette. Ma intanto i numeri del PIL si gonfiavano, la radio di Confindustria parlava di “tigre laziale” (!!!), e l’ottimismo regnava sovrano. Era la Roma delle giunte Rutelli e Veltroni e della dolce vita rediviva. Persino Gianni Alemanno, destinato nel 2008 (contro tutti i pronostici e contro la sua stessa volontà) a strappare alla sinistra la guida della città, esordì dichiarando che “Roma sta correndo talmente tanto che ha bisogno di un motore nuovo” – o qualcosa del genere, vai a ricordare: era un Otto e Mezzo di più di dieci anni fa.
Cosa è rimasto di quel tempo glorioso in cui la galleria Colonna veniva intitolata ad Alberto Sordi, in cui venivano annunciate tre nuove linee di metropolitana e in cui a Rem Koolhaas veniva chiesto di progettare una cosa chiamata (sul serio) “città dei giovani”? Suppongo che i nostalgici risponderebbero senza girarci troppo attorno: niente. Zero. Tabula rasa. Sono arrivati i barbari e hanno distrutto tutto. E però sarebbe una risposta falsa.
Meno inesatto sarebbe suggerire che la disastrata Roma di oggi è figlia proprio della città che fu – vale a dire di un miraggio che nella realtà Roma non poteva permettersi, vuoi per carenze infrastrutturali, vuoi per la sua economia intrinsecamente parassitaria (a cominciare da quella privata), vuoi per il carattere di puro e semplice maquillage delle politiche rutellian-veltroniane. Quella Roma lì era un’allucinazione, e adesso è venuto il tempo del ritorno alla realtà.
Ma anche qui, c’è qualcosa che non torna. Perché la verità è che quelle politiche funzionarono benissimo. Basta dare un’occhiata ai valori immobiliari e alla mostruosa impennata delle rendite che hanno trasformato Roma in una delle città più costose della nazione. È una delle prime lezioni che impara chi, ancora oggi, decide di trasferirsi in qualche cosiddetta città alpha dell’Occidente tardoliberale, si tratti di Londra, di Parigi, o della stessa Milano: queste metropoli dinamiche e dallo sguardo risolutamente proiettato al futuro, costano. Dopotutto, la metropoli globale produce valore semplicemente essendo città; le sue attrazioni, il suo stile di vita, i suoi stimoli culturali, i suoi flussi di denari e persone, bastano a trasformare il vivere nella metropoli in un privilegio – e i privilegi si pagano. È un principio che continua a valere persino per la macilenta Roma: “Se hai le possibilità economiche di vivere a Roma, sei benvenuto a Roma”, ribadisce il direttore di Roma Fa Schifo, per il quale “a Roma NON esiste alcuna emergenza abitativa” e “il mercato degli affitti è del tutto gestibile per chi lavora”. E se siete tra coloro che a quarant’anni buttano via mezzo stipendio per una stanza in ultraperiferia così da non perdere l’ennesimo lavoretto da 1000 euro al mese (se va bene), non preoccupatevi, Roma Fa Schifo ha un consiglio per voi: prendete e andate a vivere dove gli affitti costano meno, tipo “a Gaeta, a Pomezia, a Carsoli, a Cerveteri, a Viterbo”. Lo dice sul serio, eh?
La città è un lusso, mica ve l’ha ordinato il dottore di stare qui. Viverci è un gesto performante, e ogni performance richiede agonismo, sacrificio, mission e target debitamente quantificabili, misurabili, monetizzabili. Non siete all’altezza? E allora sciò, via, andate in mezzo ai buzzurri, in quella arcaica discarica che è la provincia popolata da tizi che “non hanno il coraggio di competere nella metropoli”, per dirla con le parole di un noto sfogo rimasto negli annali come grottesco manifesto dell’ormai esausto “orgoglio élite”.
La logica è chiara, addirittura cristallina: dentro chi se lo può permettere; fuori tutti gli altri – gli scarti, i rifiuti, gli avanzi improduttivi, insomma la monnezza. Quantomeno, bisogna riconoscere che è una logica che regge su un’ammissione implicita: perché il suo programma di messa a profitto dell’esistenza possa dispiegarsi, la scintillante metropoli dei flussi non può non produrre macerie. L’importante è che queste macerie vengano tenute a distanza e in definitiva negate, invisibilizzate, rimosse dall’unico proscenio che conta – che è appunto quello di una metropoli ormai deprivata di qualsiasi dimensione collettiva per ridursi a pura ideologia. E però cosa succede quando la monnezza entra in città? Quando le macerie rifiutano di distogliere la loro presenza dallo sguardo? Quando i rifiuti prodotti dalla metropoli rivendicano un protagonismo che la metropoli stessa avrebbe voluto relegare nella sfera dell’indicibile?
Vivo a Roma da quando ho sei anni, e anche a me piacerebbe poter passeggiare senza tapparmi le narici per ripararmi dai miasmi provenienti dai cassonetti, godermi il sole stendendomi su un prato non ridotto a sterpaglia rinsecchita, attraversare gli incroci senza rischiare slogature provocate da buche assassine, ricavare dai segni che mi circondano l’impressione forse ingenua che la città possa essere un posto, se non felice, che almeno la felicità la contempla. Le buche, la sporcizia, gli asfalti screpolati, gli autobus che prendono fuoco, le stazioni della metropolitana che chiudono, forse non sarebbero un problema se almeno l’aria che respiro tutti i giorni non fosse pervasa da un livore che tutto permea e che ovunque dilaga, che tracima con abbacinante naturalezza nella fascisteria, nella sete di sangue, nella voglia di pogrom, nella vendetta senza altro scopo che la vendetta stessa, tristemente deprivata dalla gaia festosità che almeno la jacquerie si porta sempre dietro. Le proteste di Casal Bruciato contro la famiglia rom assegnataria di un alloggio popolare sono solo l’ultimo episodio di una trama che comincia a farsi talmente fitta da diventare prevedibile. Solo poche settimane fa, è stata la volta di Torre Maura e della rivolta contro il previsto centro di accoglienza per circa settanta rom – sempre loro. A preparare il “Ti stupro!” pronunciato dal militante di CasaPound lo scorso 7 maggio, ci sono stati i panini calpestati e il “Dovete morire di fame!” incitato – guarda tu – dai militanti di CasaPound a inizi aprile. Stessi protagonisti, stesso intreccio: da una parte l’etnia nei cui confronti da sempre vige un razzismo istituzionalizzato e verrebbe da dire rivendicato anche dall’autoproclamata “parte sana” della società, dall’altra i neofascisti amici del clan Spada che vanno a cena con Salvini (e che di Salvini pubblicano i libri), e in mezzo una popolazione sbraitante che sembra non avere dubbi su da che parte stare.
In entrambi i casi ho osservato quelle scene dal monitor di un computer, naufragando in uno stato di cupa depressione che nemmeno i moti di rabbia sono riusciti a stemperare. Di mezzo c’era anche una questione personale: entrambi i quartieri sorgono alla periferia est della città, nello stesso quadrante della Torpignattara in cui cui da anni vivo. Torre Maura poi è il posto in cui sono cresciuto una volta arrivato a Roma: quelle strade, quegli scorci, quei panorami, sono parte indelebile della mia biografia e della mia esperienza di borgataro. Non è mai stato un quartiere “bello”, Torre Maura; né è mai stato un quartiere pulito, lindo e pacificato. Ma almeno era un quartiere in cui, per via del suo tessuto sociale, mai e poi mai la povertà sarebbe potuta diventare uno stigma, mai e poi mai si sarebbe preso del cibo al solo scopo di gettarlo sull’asfalto e calpestarlo, ridotto anche quello a monnezza.
Il collegamento rischia di suonare superficiale e suppongo fuorviante, ma viene fin troppo facile avanzare il parallelo tra la decadenza dei luoghi e quella degli sguardi, e rintracciare nel fantomatico “degrado” non tanto l’esito di malagestione e politiche inefficaci quanto la rappresentazione plastica di un umore condiviso e votato a una cupezza che sa di fine dei tempi, di apocalisse, di catastrofe. “La Roma in macerie di oggi è prefigurazione di un futuro dove a essere morto, e putrefatto, è appunto il futuro; un mondo dominato dall’entropia che, alla fine del ciclo, tutto ricondurrà al caos particellare dei primordi”, nota Andrea Cortellessa nel suo commento a Lo stradone, il nuovo romanzo-saggio di Francesco Pecoraro. Per quel che può valere, è quello che penso anch’io. Solo che la “morte del futuro” non è un’ansia che riguarda unicamente Roma. È la condizione stessa di un tempo presente che si tinge di millenarismi virulenti e incattiviti, e in cui a riaffiorare sono quegli stessi fantasmi che il crepuscolo dell’Occidente liberale ha testardamente tentato di tenere nascosti, di negare, di dimenticare – o tuttalpiù di cacciare lì dove lo sguardo decide di non arrivare.
E allora eccola la lezione, il vero e proprio memento che la Roma di oggi ci consegna: la città italiana che per prima tentò di adeguarsi all’ideologia liscia e senza strappi della tardomodernità, è la stessa in cui il non detto di quell’ideologia con più violenza si manifesta. Gli abitanti di Torre Maura che calpestano i panini destinati ai rom, quelli di Casal Bruciato che erigono barricate contro “gli zingheri”, non sono solo il prodotto di una guerra tra poveri: questa semmai è una lettura consolatoria che non tiene conto di quanto la logica del tutti contro tutti sia penetrata negli strati più profondi del tessuto sociale. Di nuovo: al pari degli affitti impossibili, al pari di una politica tutta consegnata all’interesse dei privati, è la prova paradossale di un successo – o se vogliamo è una sorta di grado zero, di negativo svelato, la cruda manifestazione di cosa quel successo davvero sta a significare. Perché nel momento in cui il tutti contro tutti viene spogliato di narrazioni ecumeniche e contraffazioni edulcoranti, a restare non è altro che il bisogno di un nemico, del rivale su cui riversare tutta l’impotenza del proprio fallimento laddove l’imperativo era e resta vincere – che cosa non si sa, ma intanto mettiti in gioco, mettiti al lavoro, conquistati la possibilità di… be’, di esistere. Era una gara truccata, o meglio era una gara e basta, e in ogni gara c’è chi vince e c’è chi perde: constatato che sarai sempre condannato a popolare le fila dei secondi (è facile, no? A vincere è sempre uno, a perdere sono tutti gli altri), tanto vale replicare il meccanismo all’unica scala su cui almeno puoi vantare un diritto di primogenitura. La vita è uno schifo, questo posto è uno schifo e sempre lo sarà, lo abbiamo capito – ma che almeno questo schifo sia mio e di nessun altro.
Qui non si tratta di cimentarsi in qualche rocambolesca tirata sulle “ragioni dei subalterni”; sono cresciuto in borgata, e nel lessico borgataro c’è sempre stato un unico termine per chi calpesta cibo e incita allo stupro: infame. È un lessico che, mi rendo conto, non piace agli alfieri del bon ton che arrivano a prendersela con l’unico ragazzino che a Torre Maura sfidò apertamente i militanti di CasaPound perché parla da borgataro e non in italiano corretto. Per certi versi è ammirevole la loro pervicacia, la vera e propria ostinazione con cui restano fedeli a quell’ideale allucinatorio di città compìta, civile ed “europea” (nord-europea, si intende) tanto cara allo stesso Roma Fa Schifo. Ma mentre loro scuotono il capo sorseggiando spritz nell’ennesimo bar in ferro battuto di qualche quartiere gentrificato, lo schifo quello vero riemerge indefesso a mo’ di tetro promemoria sul destino che incombe. Se l’immaginaria città pacificata dove tutto fluisce a dovere non può esistere se non nascondendo le macerie sotto il tappeto, ecco che a Roma quelle macerie affiorano in superficie, in bella vista, allo stesso modo in cui la monnezza, anziché essere raccolta, compostata e relegata all’oblio (o meglio ancora messa a prodotto) trabocca dai cassonetti che più non riescono a contenerla.
Osservare Roma oggi significa obbligare lo sguardo a una verità che tracima di gran lunga i destini di una città da sempre associata al concetto di rovina, e che ostile minaccia finanche le più ireniche, efficienti e cosmopolite tra le attuali metropoli smart: e cioè che è proprio sullo scarto, sul rifiuto, sul negativo che regge la stessa nozione di città – e quindi, viene facile aggiungere, di vivere condiviso. Possiamo imbellettare le nostre strade a furia di architetture griffate e grattacieli scintillanti, ma sotto di loro cova un intero sistema occulto di reti fognarie, discariche, canali di scolo in cui scorrono fiumi di merda, su cui quelle strade reggono e da cui quelle strade dipendono.
Adesso che dopo anni di occultamento il rifiuto grida vendetta, ecco che si manifesta nella sua forma più bruta, repellente, disperata – nel senso letterale di senza speranza. Ma di costa sto parlando qui? Dell’Occidente attraversato dal sanguinario risentimento fasciopopulista, o della Roma che annaspa tra gli scarti che essa stessa ha prodotto? C’è differenza? Il futuro è morto, l’avvenire è putrefatto, il sentimento apocalittico dilaga: e allora quale osservatorio migliore di una città che l’apocalisse la mette quotidianamente in scena? Vogliamo ancora giocare alla penosa dicotomia Roma-Milano? E allora va bene, chiediamoci: a chi appartiene il tempo presente, alle linde smart cities del Nord Europa, o ai disastrati panorami di Lagos e Calcutta? Oppure, in maniera più inquietante: dov’è che questo tempo presente è stato coniato, nella creativa e vibrante Berlino post-muro, oppure nella Sarajevo che affoga nel sangue della guerra civile?
Relegare il disastro Roma a una banale vicenda di politica locale, commiserare i destini di una città eternamente segnata dallo stigma dell’immobilismo e del provincialismo, intestardirsi nei paragoni con un modello nordeuropeo talmente moribondo che a crederci ancora sono solo quelli col poster degli Oasis in camera, significa distogliere lo sguardo nel tentativo di non ammettere che non è il futuro a essere morto: semmai, è quel futuro lì. E d’accordo, è un futuro che probabilmente – per la gioia di gentrificatori e start-uppers – continuerà stancamente a sopravvivere in quella sorta di mega gated communities che stanno diventando le sempre più costose, sempre più esigenti, sempre più demenziali metropoli smart. Però fuori c’è il mondo, e il mondo è un posto sporco, brutto, innervato dai canali di scolo, traboccante di macerie, popolato di detriti, attraversato da violenza, risentimento e sete di vendetta. Contemplo stancamente l’ennesimo cumulo di monnezza su via Casilina, annuso l’aria che sa di copertone bruciato, butto un occhio alle scritte contro i negri sulla pensilina dell’autobus, mi deprimo e mi dispero, e penso che è qui che vive lo spirito dei tempi, è qui che non puoi non ammettere la catastrofe, è qui a ogni scorcio vieni costretto a guardare la bestia negli occhi.