Tutti gli hippie di Sottsass e Mendini
Sulla soglia di un casolare alcuni uomini si mettono in posa per una foto. Impugnano vanghe, forconi e altri attrezzi, ma non sembrano contadini al rientro da una giornata di lavoro. Si tratta in realtà di alcuni membri del collettivo di designer e architetti Global Tools, qui nel pieno di un seminario nella campagna fiorentina. Risalente al 1975 e pubblicata nel secondo numero del bollettino che da Global Tools prendeva il nome, l’immagine è accompagnata dai racconti dell’incontro di Firenze e da altre fotografie che li ritraggono mentre segano ciocchi di legno, scavano fosse, spostano pietre, o dibattono attorno al tavolo del salone principale: tutte attività di certo lontane dalla classica idea di designer come tecnico della produzione. L’originalità «rurale» con cui si presentò il collettivo risalta ancor di più se comparata al sofisticato vocabolario di quella «Linea italiana» che, parlando di design, tanto successo aveva avuto negli anni Sessanta. Ma forse è una distinzione solo apparente, vista la partecipazione a Global Tools, tra gli altri, di Ettore Sottsass jr, che del design italiano era un protagonista fin dagli anni Cinquanta.
Più che un semplice collettivo, Global Tools era una vera e propria «non scuola». Fu fondata agli inizi del 1973 negli uffici redazionali del mensile Casabella – all’epoca diretto da Alessandro Mendini – che nel maggio di quell’anno lanciò l’evento con tanto di ritratto di gruppo in copertina e primo documento programmatico del progetto. Questo includeva singoli professionisti – come Remo Buti, Riccardo Dalisi, Adalberto Dal Lago, Ugo La Pietra, Gaetano Pesce, Gianni Pettena e il citato Sottsass – assieme a gruppi come Superstudio, Archizoom, Gruppo 9999, UFO e Zziggurat, oltre che la redazione stessa di Casabella. Attorno all’iniziativa si erano insomma riuniti i principali rappresentanti di quelle tendenze che l’anno precedente Germano Celant aveva accumunato sotto il nome di «architettura radicale» e che avevano incominciato a lavorare ed esporre attorno alla metà degli anni Sessanta tra Firenze, Torino e Milano.
Nonostante produzioni, attitudini e formazioni completamente differenti, la definizione «architettura radicale» aveva il merito di rilevare un comune approccio «critico» che nella seconda metà dei Sessanta si era già incarnato in strategie sperimentali che portavano nomi come «superarchitettura», «architettura inconscia», «architettura disequilibrante», «architettura concettuale», «architettura eventuale» e «progettazione di comportamento». Facendo spesso uso di un’ironia provocatoria, il principale obiettivo dei radicals era smantellare i princìpi del «buon» design e delle aree di applicazione di architettura e urbanistica: come sintetizzò Andrea Branzi di Archizoom, piuttosto che «riproporre al mondo un ordine architettonico e valori di una cultura formale al di là delle semplici funzioni abitative» (utopistici poiché di fatto irrealizzabili), l’architettura radicale capovolgeva il processo, esponendo e analizzando in utopie estreme tutte le contraddizioni della disciplina progettuale e della società che avrebbe voluto ordinare.
Le ricerche degli architetti radicali sono state ricondotte a una più ampia rete di simili esperienze coeve, da quelle dell’austriaco Hans Hollein alle proposte techno-pop degli inglesi Archigram, fino alle iniziative immerse nella controcultura californiana di Ant Farm e Anne e Lawrence Halprin. A sua volta, anche Global Tools è stata inclusa nel grande insieme del «modernismo hippie» ispirando mostre e seminari. Ma cosa caratterizza questa vicenda italiana, segnata dalla predilezione per il lavoro manuale e dalla decisione di fondare nientemeno che una «non scuola»?
Dopo l’architettura radicale
Architetti di formazione, i futuri membri di Global Tools avevano sperimentato con media e strategie artistiche già negli anni Sessanta, partecipando a mostre e improvvisando azioni estemporanee. Gli UFO si erano uniti alle proteste del Sessantotto a Firenze con grandi gonfiabili (i cosiddetti urboeffimeri) e avevano messo in scena un provocativo «rituale» durante il IV Premio di pittura Masaccio a San Giovanni Valdarno, di cui Gianni Pettena aveva curato gli allestimenti. In quegli anni, l’amicizia e l’intensa collaborazione con artisti e musicisti si erano spesso materializzate in spazi alternativi come il club Space Electronic a Firenze (progettato dal Gruppo 9999) e il Piper di Torino, disegnato da Giorgio Ceretti, Pietro Derossi e Riccardo Rosso.
Sebbene fossero numerosi gli scambi con i rappresentati dell’architettura e del design d’avanguardia d’Europa e Stati Uniti, fu soltanto nel 1972, al MoMA di New York, che le sperimentazioni italiane acquisirono fama internazionale. La mostra Italy: The New Domestic Landscape aprì nel maggio di quell’anno e fu concepita dall’argentino Emilio Ambasz come una grandiosa panoramica del design italiano grazie a testi, modellini, riviste, e soprattutto film d’ambientazione prodotti per l’occasione. L’intenzione era introdurre al pubblico americano un’Italia che concepiva il design non solo come produzione d’oggetti, ma come occasione di critica domestica – informata da preoccupazioni politiche, sociali ed ecologiche – alla società. Ambasz individuò diversi atteggiamenti progettuali, suddividendo gli oggetti esposti in «conformisti», «riformisti» e «contestatari», e gli ambienti in «di commento», «pro-design» e «contro-design». Quest’ultima sottosezione presentava counter-environments di Ugo La Pietra, Archizoom e Superstudio (il film Supersuperficie), i fotoromanzi del torinese Gruppo Strum e il progetto d’orto domestico dei 9999.
Nel catalogo della mostra, i lavori dei radicals vennero accostati da Celant e Filiberto Menna alle coeve pratiche d’«esteticità diffusa» o all’arte concettuale. Tuttavia simili interpretazioni sembravano collidere con una mostra dall’allestimento quasi fieristico, finanziata da grandi enti e imprese italiane. Gli stessi ambienti e film erano realizzati grazie ai contributi delle maggiori industrie e, nella sezione Oggetti, erano esposti articoli disegnati dai «radicali» per note firme come Poltronova o Gufram. Quest’atteggiamento poteva apparire ambiguo, se non opportunistico, ma non presentava invece nessuna contraddizione per i protagonisti italiani. Come chiarirono Adolfo Natalini di Superstudio e Branzi, architettura «concettuale», impegno sociopolitico e design orientato al mercato non erano posizioni antitetiche in Italia: negli anni Sessanta, non trovando impiego dopo gli studi universitari, molti giovani architetti sperimentavano con il design di prodotto, intessendo rapporti informali con le manifatture italiane che, non ancora indirizzate a una vera e propria produzione di massa, permettevano ai giovani collaboratori di entrare nel mercato degli oggetti di lusso senza rinunciare alle loro posizioni polemiche.
Italy: The New Domestic Landscape aveva portato visibilità internazionale e una nuova etichetta unitaria; ma questo riconoscimento era forse arrivato troppo tardi, quando le ricerche dei radicali si stavano ormai sviluppando su piani sempre più incompatibili. Nell’autunno del 1972 Branzi propose di reagire adottando una nuova «strategia dei tempi lunghi», pubblicando su Casabella «Non un richiamo all’ordine, ma la preparazione dell’attacco finale». Qualche mese più tardi, l’attacco (rivolto in particolare al coevo movimento della Tendenza) fu infine dichiarato sotto il nome di Global Tools, una sigla che servì anche da attraente brand autopromozionale, soprattutto in quel mondo dell’arte che li aveva scoperti al MoMA.
Nel frattempo, con Alessandro Mendini come direttore, Casabella aveva già cominciato ad agire come principale organo di presentazione dei radicali; nel 1973 Mendini stesso iniziò a prendere parte alle attività di Global Tools, e alla causa si aggiunse la rivista Progettare INPIÙ di Ugo La Pietra. All’inizio Global Tools si costituì come associazione, con un comitato tecnico formato dai membri fondatori e dal responsabile del «programma didattico». Gli ambiti di ricerca erano cinque – «Il corpo», «Costruzione», «Comunicazione», «Sopravvivenza» e «Teoria» – e rispecchiavano gli interessi dei diversi esponenti, che erano poi chiamati a organizzare dei laboratori aperti anche ad altri collaboratori (tra cui erano all’inizio era previsti Celant stesso, nonché gli artisti Giuseppe Chiari, Luciano Fabro e Franco Vaccari).
I laboratori avrebbero poi dovuto moltiplicarsi fino a creare a una vera e propria rete di «scuole»; tuttavia quest’ambizioso progetto non ebbe mai luogo. Soltanto due gruppi produssero effettivamente qualcosa che andasse oltre lo scritto teorico: Mendini, Davide Mosconi e Franco Raggi realizzarono un laboratorio su «Il corpo e i vincoli» nel 1975 a Milano, mentre Vaccari contribuì con Guido Arra, La Pietra e Pettena alle ricerche del gruppo sulla «Comunicazione», che si materializzarono nella documentazione fotografica della loro crociera sul fiume Reno. L’unico seminario collettivo a riunire i membri di Global Tools fu appunto quello realizzato nella campagna fiorentina nel 1974. Ma già nello stesso anno Superstudio e 9999 avevano incominciato a staccarsi dal progetto, e Global Tools si dissolse nel 1975, anno in cui Mendini lasciava la direzione di Casabella.
Folk design?
Quando Global Tools iniziò le sue attività, l’industria e la politica italiane stavano attraversando un periodo cruciale: all’ultimo grande sciopero degli operai FIAT nel 1973 era seguita la crisi energetica con le conseguenti misure di austerità, e questa battuta di arresto mise fine a un periodo di crescita e di elevati tassi d’occupazione, svelando i cambiamenti dell’industria italiana, ormai trasformata dalle nuove tecnologie e dallo sviluppo del terziario. Nel frattempo, anche i maggiori gruppi extraparlamentari nati nelle lotte del 1968 e 1969, che basavano le loro ambizioni rivoluzionarie sulla figura dell’operaio di fabbrica, stavano attraversando una crisi. Proseguiva inoltre la serie di attentati iniziati con la strage di Piazza Fontana, mentre il golpe cileno portò le maggiori forze politiche ad allinearsi sotto la comune bandiera dell’antifascismo e della difesa della democrazia. È in questo contesto che si colloca la «rifondazione ideologica del lavoro manuale» di Global Tools, in un periodo in cui il termine «ideologico» e le sue varianti pervadevano non solo il discorso politico, ma anche quello artistico, educativo, culturale e privato.
L’uso del termine «ideologico» da parte di Global Tools rifletteva in realtà interessi antropologici e per le scienze sociali: non tutti i suoi membri erano marxisti; semmai, Global Tools combinava propensioni militanti-rivoluzionarie a un approccio hippie e olistico all’ambiente. La fotografia di un martello sulla copertina del loro primo bollettino ne è un esempio: se falce e martello erano un simbolo impregnato di retorica politica, il dettaglio dell’utensile dichiarava piuttosto un desiderato ritorno all’autenticità del lavoro artigianale.
I partecipanti a Global Tools erano affascinati dalle tecniche e dagli strumenti dell’artigianato, dalla cultura materiale contadina, indigena o tribale, dal riuso di materiali di recupero, oltre che dallo stile di vita autarchico di alcuni abitanti delle campagne: si veda il caso di Zeno Fiaschi, contadino della Maremma toscana le cui autoproduzioni furono oggetto di uno studio quasi etnografico, portato avanti da Superstudio con la collaborazione di Alessandro Poli e poi presentato nel 1978 alla Biennale di Venezia con il titolo La coscienza di Zeno. Gli studi etnografici e di folklore godevano di una buona popolarità in Italia, soprattutto dopo la pubblicazione dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, dove si discutevano le possibilità rivoluzionarie delle «culture subalterne». Dalla metà degli anni Sessanta, specialmente nei circoli della sinistra libertaria e giovanile, in molti si erano rivolti all’Istituto Ernesto de Martino e al suo archivio di ricerche sul mondo proletario e popolare, i suoi nastri magnetici con testimonianze orali, canti, danze e rituali soprattutto dal Sud Italia.
È insomma in quest’atmosfera di fascinazione per le tradizioni e le arti minacciate dall’industrializzazione che va collocata l’attenzione di Global Tools per gli «strumenti» («Tools», appunto) del lavoro manuale. I suoi membri negavano il ritorno al mito del buon selvaggio, all’Arcadia e al luddismo; tuttavia, non erano immuni a un certo primitivismo e a un’idealizzazione delle forme d’espressione che potevano generarsi dall’ignoranza, dal dilettantismo, o dall’utilizzo dei prodotti degradati della «cultura ufficiale».
L’interesse di Global Tools per l’autosufficienza, la risposta creativa alle avversità e l’isolamento dalla società, trovava un altro parallelo nello spostamento delle attività di alcune organizzazioni rivoluzionarie verso il Sud Italia (in particolare a Napoli) e il loro concentrarsi sulla figura del sottoproletario. Altro punto di riferimento era poi il Maoismo: già dopo il Sessantotto gli attivisti di Servire il Popolo si erano diretti al sud con lo scopo di politicizzare i ceti contadini e più impoveriti, seguendo ovviamente l’esempio di Mao. Non è quindi sorprendente scoprire come nei loro testi diversi membri di Global Tools dichiarassero simpatie maoiste: basti pensare all’elogio che, ancora sulla Casabella di Mendini, Franco Raggi fece dei prodotti del design della Repubblica Popolare Cinese…
Questa combinazione di aneliti radicali, primitivismo, romanticismo, etnologia, ecologia alternativa e maoismo, può apparire quantomeno bizzarra. In ogni caso, Global Tools non era in cerca di «soggetti rivoluzionari» quanto di corpi rivoluzionari, capaci cioè di alterare radicalmente la loro relazione con l’ambiente. Global Tools vide nel corpo una forma ultima di architettura che permetteva di distanziarsi dalle strettoie in cui la disciplina era confinata. Nei bollettini e negli articoli pubblicati su Casabella, il corpo era quindi invocato come il luogo in cui un potenziale creativo e politico attendeva d’essere liberato. Ma il corpo/architettura di chi?
Certamente non quello intorpidito del consumatore, e ancor meno quello socialmente e sensualmente deprivato dell’operaio. Piuttosto, Global Tools cercava corpi capaci di dormire all’aperto, resistenti a tutte le avversità e in mistica unione tra mente e muscoli, estranei alla vergogna come all’idea di bellezza borghese. I partecipanti a Global Tools fornivano esempi che rivelavano un’idealizzazione delle «culture sconosciute» così come il desiderio, tipicamente maschile (la maggioranza dei designer e architetti erano uomini) di un fisico eroico e indistruttibile. Evocavano cioè individui nomadi – il bushman australiano, il cowboy, l’autostoppista, il judoka, lo yogi, l’hippie, il contadino autarchico, il monaco buddista, lo squatter londinese – mentre su Casabella, Mendini equiparò la nudità a libertà e autenticità, sottolineando al contempo come «l’unica drammatica immagine di masse di corpi nudi che l’epoca moderna occidentale ha saputo dare è quella degli ebrei all’ingresso dei campi di sterminio».
Per chiarire quale fosse lo spirito di Global Tools, è utile riprendere il dialogo tra Branzi di Archizoom e l’architetto e designer Riccardo Dalisi, che nel 1971 aveva inaugurato dei laboratori di ricerca negli scantinati del Rione Traiano, uno dei più poveri quartieri popolari di Napoli. Qui incoraggiava i bambini e ragazzi del rione a costruire piccoli oggetti d’uso domestico e semplici strutture architettoniche di loro invenzione. Allo stesso tempo, Dalisi osservava come i sottoproletari arrangiavano le loro abitazioni, scoprendo che – al di là di una grossolana imitazione degli interni borghesi – le loro architetture vernacolari erano piuttosto simili alle case dell’antica Pompei. Dalisi chiamò i metodi sperimentati dei suoi laboratori «tecnica povera», dando una connotazione positiva all’aggettivo «povero»: evocava umiltà e dignità, oltre che il rifiuto di tecnologie inutilmente sofisticate.
Da parte sua, Branzi era uno dei membri fondatori di Archizoom, il gruppo di architetti fiorentini influenzati dalle teorie dell’operaismo italiano. Su Casabella, Branzi aveva elogiato ma anche scetticamente criticato la «tecnica povera», rimproverando a Dalisi di non porsi alcun obiettivo politico finale, con il rischio di creare dall’ignoranza e dalla povertà una nuova categoria culturale pronta per essere cooptata dal capitalismo. Allo stesso tempo, i cambiamenti economici e sociali in atto nei primi anni Settanta portarono diversi militanti a riconoscere l’importanza di strategie di riappropriazione esterne ai classici luoghi di lavoro. Dopotutto, argomentava Branzi, i proprietari terrieri avevano sempre sfruttato a loro vantaggio le conoscenze sviluppate da lavoratori e contadini. All’interno di Global Tools s’incominciò poi a ragionare non più sulla «tecnica povera» di Dalisi, ma su quella che fu definita come «tecnologia semplice»: un binomio che invocava la necessità di un approccio più sistematico al lavoro manuale rispetto alla metodologia «spontaneista» di Dalisi.
Se ora i riferimenti di Global Tools agli «strumenti» del lavoro manuale sono più chiari, resta da capire cosa s’intendesse per global. La parola era relativamente nuova all’inizio degli anni Settanta, e nel caso di Global Tools – ispirata dalle atmosfere delle culture beat e hippie – si caricava di chiare sfumature eco-olistiche. Nel 1968 erano state rilasciate le prime immagini del globo terrestre visto dalla luna, una sfera blu che offrì un nuovo senso di appartenenza al genere umano, oltre i confini nazionali. Non bisogna dimenticare che mentore degli architetti radicali e membro di Global Tools era lo stesso Ettore Sottsass fondatore con Fernanda Pivano della rivista Pianeta Fresco e amico di Allen Ginsberg. Inoltre le teorie discusse da Global Tools includevano le tesi ormai popolari di Marshall McLuhan, che nel suo War and Peace in the Global Village (1968) aveva popolarizzato l’espressione «villaggio globale».
Lo strumento che in apparenza si avvicinava maggiormente alle ricerche di Global Tools era tuttavia uno dei prodotti più ambigui della controcultura californiana: il Whole Earth Catalog (1968-72). Questo elencava, illustrava e pubblicizzava nelle sue uscite periodiche tutta una serie di oggetti e tecniche DIY per chi avesse voluto intraprendere uno stile di vita ecologicamente sostenibile. Tuttavia, come ha fatto notare lo storico dell’architettura Simon Sadler, l’ottimismo trascendentale del californiano Whole Earth Catalog era completamente differente da quello che definisce il tool globalism dei designer italiani: e cioè un approccio soprattutto ecologico e olistico, un’incessante e policentrica indagine sugli strumenti creati dall’uomo.
A scuola dai radicals
Nel 1973 Franco Raggi concludeva il suo racconto «Radical Story» per Casabella introducendo Global Tools come un nuovo stadio nelle sperimentazioni del contro-design italiano. Sottolineava l’importanza della tipologia di «scuola» proposta dalla Global Tools, un «progetto collettivo in continua trasformazione e verifica», e riassumeva così gli obiettivi di quest’impresa d’educazione allargata: «Rendere trasmissibile e moltiplicabile una esperienza lasciandone aperti gli sviluppi. Manifestare i risultati in una sorta di laboratorio collettivo. Uscire dai segreti degli “studi”, per suggerire, anche in senso generale, un’alternativa alla educazione tradizionale».
L’educazione era una preoccupazione centrale per un movimento architettonico nato nelle università occupate. Nel 1968 gli studenti della Facoltà di Architettura di Milano avevano promosso una serie di attività didattiche autogestite che avevano ridefinito i programmi ed erano state in parte appoggiate dai professori più progressisti. Queste classi sperimentali, basate sul lavoro collettivo, sulla ricerca e l’impegno sociale – inclusa l’ospitalità degli sfrattati dalle case popolari milanesi – durarono tre anni. Nel 1971 intervenne il Ministero della Pubblica Istruzione, sostituendo la presidenza e sospendendo i membri del Consiglio di Facoltà. Il dibattito e le proteste che seguirono l’intervento ministeriale furono prontamente documentate dal solito Casabella di Mendini.
Quello della Facoltà di Milano fu solo uno dei numerosi tentativi di impostare percorsi d’apprendimento alternativi a quelli istituzionali: la fine degli anni Sessanta, ma anche i primi Settanta, restano un periodo di vivace e a volte controversa sperimentazione didattica nelle università, nella scuola dell’obbligo come al di fuori di questi istituti. L’affermazione di Adolfo Natalini secondo cui l’attività di Superstudio sarebbe sempre stata «didattica» da ben prima della fondazione della Global Tools, deve insomma essere considerata all’interno di questo contesto.
Oltre l’incarico dello stesso Natalini presso l’Università di Firenze, la prima impresa «didattica» di Superstudio fu la S-Space – Scuola Separata Per l’Architettura Concettuale Espansa, fondata nel 1970 in collaborazione con il Gruppo 9999. I laboratori multidisciplinari della S-Space erano tenuti durante il giorno negli spazi del club fiorentino Space Electronic: momenti di riappropriazione sensoriale dello spazio si univano a eventi effimeri, performance, sperimentazioni di musica elettronica, campionamenti di rumori ambientali e video. Le attività della S-Space culminarono nel 1971 con l’internazionale S-Space Mondial Festival, che vide la partecipazione, tra gli altri, del gruppo inglese Street Farmer e dei collettivi californiani Ant Farm e Portola Institute (quest’ultimo responsabile proprio del Whole Earth Catalog).
L’anno seguente Superstudio pubblicò su Casabella lo storyboard di un film intitolato Educazione. Doveva essere il secondo titolo di una serie chiamata I cinque atti fondamentali, che introduceva un concetto «espanso», olistico di architettura. Combinando i toni di una favola e quelli di una lezione in tecnologie dell’informazione e antropologia, il film descriveva le origini del «rituale» dell’istruzione, la sua natura repressiva e la ribellione delle giovani generazioni contro le precedenti.
Vale la pena ricordare che quando Global Tools fu fondata, Natalini stava già insegnando all’Università di Firenze. Nel 1973, iniziò a coinvolgere gli studenti in una specie di riscoperta etnografica degli oggetti prodotti nella campagna toscana, nei corsi che più tardi si svilupparono nel progetto Cultura materiale extra-urbana. La sua presenza negli incontri preparatori per lo sviluppo della «non-scuola» Global Tools può essere vista come logica conseguenza delle attività didattiche di Superstudio. Risultato di questi incontri fu un documento che elencava diversi «strumenti» per una «autoeducazione creativa», una bozza che dichiarava il proprio indebitamento sia all’approccio di Superstudio sia alla «tecnica povera» di Dalisi.
In realtà, il termine «autoeducazione» e la prospettiva adottata da Global Tools si avvicinavano di più a un altro riferimento culturale di quegli anni: l’idea di una «non-scuola», di una serie di laboratori paritari e l’intenzione di sviluppare un’ampia rete di momenti educativi derivava principalmente, come ammesso da Superstudio su Casabella, dalle tesi libertarie sviluppate dal pensatore cristiano Ivan Illich. L’interesse per l’approccio di Dalisi fu sostituito da quello per la teoria della «descolarizzazione». Branzi fu il primo a sottolineare l’importanza degli scritti di Illich (Casabella, gennaio 1973), che incominciavano ad essere tradotti in Italia nei primi anni Settanta. In quel periodo la popolarità dei metodi pedagogici antiautoritari, che abbracciavano l’educazione, la politica e l’ecologia, non era comunque limitata alle teorie di Illich: l’esperienza di Dalisi era stata influenzata dal popolare Pedagogia degli oppressi di Paulo Freire (1971), e come lui anche molti insegnanti, animatori e «operatori culturali» (artisti, musicisti e teatranti) che dopo il Sessantotto avevano cominciato a lavorare nel Meridione o nelle periferie delle metropoli del Nord. Ma se questi ultimi lavoravano con le comunità più emarginate e usavano la creatività con l’obiettivo d’innescare un processo di emancipazione sociale, l’interpretazione di Illich messa in atto da Global Tools era diretta alla «liberazione» dei professionisti della progettazione dal sistema produttivo come dal loro isolamento nei circoli elitari della borghesia colta.
Vedendo nella scuola dell’obbligo un’istituzione burocratica e repressiva in cui si «scolarizza» l’allievo a confondere «insegnamento e apprendimento, promozione e istruzione, diploma e competenza» e ad accettare il «servizio» dell’istruzione al posto del «valore» dell’educazione, Illich ne contestava l’ideologia più diffusa, quella della «religione universale di un proletariato modernizzato», che faceva «vuote promesse di salvezza ai poveri dell’era tecnologica». Illich promuoveva invece un processo educativo permanente e autodiretto, basato sulla collaborazione tra pari e strutturato in reti autonome. Indicava poi quattro strumenti non istituzionali per accedere alle risorse dell’apprendimento: dei «Servizi per la consultazione di oggetti didattici»; delle «Centrali della capacità» dove esporre e scambiarsi conoscenze ed esperienze; un «Assortimento degli eguali»; e infine dei «Servizi per la consultazione di educatori». Lievemente modificati per coincidere con le esigenze di Global Tools, sono gli stessi punti dettagliati da Raggi in «Radical Story».
In generale, la critica di Illich toccava tanto la società moderna della produzione tecnologica quanto molto umanesimo rivoluzionario e «prometeico», affascinando quegli architetti radicali forse in cerca di un atteggiamento meno oppositivo di quello strettamente marxista. La «rinascita dell’uomo epimeteico» invocata da Illich era certamente in accordo con le proposizioni di Global Tools, con i suoi seminari e ricerche etnologiche, con la disillusione seguita alla mostra al MoMA, con gli anni della crisi energetica e l’eredità «controculturale» della Casabella di Mendini.
Questo articolo è apparso in forma diversa nel saggio Deschooling, Manual Labour, and Emancipation: The Architecture and Design of Global Tools, 1973–1975