Ultraleopardi
La memoria collettiva ricorda Giacomo Leopardi come uno scrittore menomato, languido e sofferente, malamente interpretato da Elio Germano nel film Il Giovane Favoloso (un biopic strappalacrime e, in fin dei conti, un po’ noioso). Solo chi si è avventurato di propria iniziativa nei meandri dell’opera leopardiana è riuscito a incontrare, al cuore del labirinto, un personaggio affabile, elegante, arguto e tormentato; una figura complessa e in continuo mutamento, ben diversa dalla macchietta da eremita depresso che serpeggia tra i banchi di scuola. L’iniquo trattamento subito dal poeta ha relegato in secondo piano, rispetto alla produzione letteraria, una vastissima e travagliata riflessione filosofica. Una riflessione tornata al centro del dibattito assieme a tutto il pantheon pessimista, risvegliato dal sonno della morte da un (non più così) recente saggio di Thomas Ligotti.
L’urgenza di recuperare la speculazione filosofica di Giacomo Leopardi diviene evidente qualora ci si renda conto della misteriosa e seducente affinità che intercorre tra numerose elaborazioni leopardiane e le più recenti tematizzazioni della filosofia contemporanea. Quel che tenterò di fare sarà proprio riattivare alcuni di questi nodi teorici, approfittando di questa vantaggiosa comunanza d’intenti e di passioni. Tuttavia, affrontare quello che Leopardi chiama il suo «sistema» significa addentrarsi in una delle opere postume più imponenti della storia della letteratura, lo Zibaldone di Pensieri, una raccolta ricavata da quello che fu letteralmente un baule di quaderni e fogli di annotazioni – una vera e propria giungla di «annotazioni di varia misura e ispirazione».
Per nostra fortuna «Zibaldone» significa miscuglio, minestrone, caos, disordine, guazzabuglio frammentario – un titolo che si pone fin da subito di buon auspicio. Si tratta di un lavoro di accumulazione minuziosa, al confine con la bulimia intellettuale: non vi è alcun ordine logico, né un qualche tipo di coerenza interna; tanto le argomentazioni quanto le conclusioni, sempre provvisorie, si danno battaglia contraddicendosi, duplicandosi, proiettando il pensiero in un vortice ciclonico in costante metamorfosi. Man mano che si procede tra le pagine di annotazioni, considerazioni, ripensamenti e fogli di diario, sondando ogni percorso possibile, sperimentando ogni prospettiva, si è sopraffatti dall’illimitata ricchezza del pensiero leopardiano.
Questa vorticosa disciplina analitica trova una sua definizione, necessariamente parziale e instabile, in una nota dell’8 settembre 1821: «Il mio sistema introduce non solo uno scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la ragione umana per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero […] ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere». Se la teoria classica (ad esempio quelle filosofie di ispirazione socratica o cartesiana), vede nella sospensione del giudizio una prassi o, meglio, una metodica del dubbio, l’indagine leopardiana spinge il pensiero a velocità folli, fino alla soglia in cui la conoscenza si sgretola e il dubbio si manifesta in qualità di inconoscibilità assoluta del reale.
Questo limite che si affaccia sull’illimitato, simile a un improvviso cadere nell’oceano, è il prodotto materiale, tangibile, di un coerente percorso di ricerca razionale; un incedere sempre più disperato, sempre più malinconico, in netta opposizione a un’ipocrita scepsi programmatica (dove il sapere viene accantonato, per poi essere dogmaticamente recuperato subito dopo, magari con Dio in qualità di garante della verità). Citando uno dei padri dell’accelerazionismo, Nick Land: «La sospensione del giudizio deve essere scoperta, non performata». Non si tratterebbe, dunque, di una mera questione di limitatezza umana o di finitudine della conoscenza, ma del rinvenimento di un abisso sul quale si fonderebbe l’esistenza stessa. In questo senso, l’opera di Leopardi non si pone solo, com’è stato spesso notato, in qualità di prosecuzione del razionalismo illuminista, ma anche come suo zenit. L’adesione di Leopardi al materialismo a lui contemporaneo lo condurrà, infatti, a delle conclusioni quantomeno peculiari.
Uno dei più evidenti risultati delle scienze moderne è che, pur avendo testardamente sondato ogni anfratto del corpo, non si è stati in grado di individuare alcuna traccia di un’anima
Partiamo perciò da un dato. Essendo l’esercizio della ragione un’attività di tipo analitico, ossia di scomposizione del complesso in parti semplici, risultato di un’analisi razionale del mondo naturale sarà quello di «Risolvere e disfar la natura», ottenendo che «La natura, così analizzata, non differisca punto da un corpo morto». Come possiamo notare anche solo osservando i procedimenti delle scienze mediche e anatomiche, l’assoluta semplicità raggiungibile dall’analisi coincide con la rigidità del cadavere dissezionato, poiché quest’ultimo è il requisito necessario per una conoscenza oggettiva del corpo. La natura, vivisezionata dal bisturi della razionalità scientifica, passa da uno stato di vitalità dinamica – un costante susseguirsi di soggettività e sensazioni vegetali e animali – a una condizione di oggettività inorganica: il vivente si manifesta come un assembramento di membra, di componenti di per sé inanimate. Di fatto, uno dei più evidenti risultati delle scienze moderne è che, pur avendo testardamente sondato ogni anfratto del corpo, non si è stati in grado di individuare alcuna traccia di un’anima, di uno spirito o di un soggetto che governino la materia somatica.
Con la modernità scientifica, le parole, in precedenza intese come espressione dell’animo umano, divengono un ponte tra le idee della mente e le cose del mondo: degli oggetti materiali (di tipo sonico-vibrazionale), in grado di rendere comprensibile ciò che altrimenti rimarrebbe vuoto e indistinto, le sensazioni. È all’insegna del materialismo illuminista che Leopardi scrive: «Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà. L’intelletto non potrebbe niente senza la favella, poiché la parola è quasi il corpo dell’idea la più astratta», per poi aggiungere, a qualche giorno di distanza: «Il cuore può bene immaginarsi […] di sentir qualcosa di immateriale: ma assolutamente s’inganna». L’illusorietà dell’immateriale, ossia del «Sé» e delle sue catene di pensiero, è un tema ricorrente negli appunti di Leopardi, nonché il motivo per il quale la sua ricerca filosofica rappresenterebbe il culmine e, al tempo stesso, l’oltrepassamento del progetto illuminista. Il sapere scientifico moderno si fonda, infatti, sulla chiarezza delle idee e delle percezioni di un dato osservatore, nonché sul totale possesso di sé da parte di questo stesso osservatore. Dubitare finanche della presenza di un soggetto in grado di dubitare significa privare il metodo scientifico di ogni riferimento cardinale – e l’aspetto paradossale della questione sta proprio nel compiere questa sottrazione secondo un procedimento razionale.
L’eliminativismo (termine con cui è stata battezzata una corrente di filosofi e scienziati che non credono nell’effettiva esistenza di un Io cosciente), è il piede in fallo che ci precipita nell’abisso: se si giudicano reali le sole percezioni sensoriali, si dovrà concludere che anche la percezione del Sé, ossia la coscienza di sé, non sia altro che una percezione di secondo livello – la percezione delle percezioni – senza che tale percezione globale corrisponda necessariamente a uno stato di cose reale. In questo senso Leopardi annota: «L’apparenza non solo basta, ma è la sola cosa che basti […] Perrocché la sostanza senza l’apparenza non fa effetto alcuno e nulla ottiene, e l’apparenza con la sostanza non fa né ottiene niente di più che senza essa: onde si vede la sostanza essere inutile e il tutto stare nella sola apparenza».
Lo spettro di un mondo informe e caotico, illusoriamente ordinato dalla mente, va sotto il nome di «teoria del cervello cieco», un’elaborazione che va in direzione opposta rispetto al cosiddetto realismo ingenuo (quell’insieme di dottrine secondo le quali il mondo percepito sarebbe identico al mondo reale). Stando alla teoria del cervello cieco, il mondo reale sarebbe immensamente più ricco e sfaccettato di quello rappresentato nelle nostre menti, le quali, a loro volta, non sarebbero che rappresentazioni di rappresentazioni, pseudo-oggetti materialmente inesistenti. Per dirla con il neuro-filosofo Thomas Metzinger, uno dei maggiori propugnatori dell’eliminativismo, il nodo della questione starebbe nel fatto che: «Noi non esperiamo i contenuti della nostra autocoscienza come i contenuti di un processo rappresentazionale, ma semplicemente come noi stessi, che viviamo nel mondo in questo preciso momento».
In La cospirazione contro la razza umana, Thomas Ligotti approfondisce questa inquietante prospettiva: «Nello schema di Metzinger, un essere umano non è una persona ma un modello meccanico del sé che simula una persona […] il realismo ingenuo diviene perciò un profilattico, necessario a proteggersi dal terrore concomitante alla distruzione delle intuizioni riguardanti noi stessi e il nostro statuto nel mondo», giungendo infine ad affermare che: «Vi sono aspetti della visione scientifica del mondo che potrebbero risultare dannosi per la nostra salute mentale».
Sprofondando, come fa Leopardi, la conoscenza sensibile – e la ragione stessa – in un limbo di illusioni, si annienta la via dell’ottimismo scientifico, catapultando il mondo reale in una tenebra senza tempo, senza significato e senza scopo. Uno dei temi più frequenti nello Zibaldone è proprio quello del danno arrecato alla vita umana dalla verità e dall’oggettività scientifica; una problematica che (come vedremo), Leopardi affronta in modo molto simile a uno dei suoi più noti ammiratori, H.P. Lovecraft, il quale, nel suo Il Richiamo di Cthulhu, scrisse che: «Le scienze, che finora hanno proseguito ognuna per la sua strada, non ci hanno arrecato troppo danno: ma la ricomposizione del quadro d’insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che noi occupiamo in essa, che o impazziremo per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale, nella pace e nella sicurezza di un nuovo Medioevo».
L’insensatezza del cosmo spogliato dei significati, delle speranze e degli obiettivi umani diviene ben presto claustrofobica. In uno dei momenti più intensi e toccanti dello Zibaldone Leopardi riporta il ricordo di quello che potrebbe essere un sogno, o un attacco di panico: «Io era spaventato di trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla […] Pare un assurdo, e pure è esattamente vero che tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni».
In chiusura del suo Nihil Unbound, il filosofo Ray Brassier (allievo di Land ai tempi del CCRU) afferma che, avendo accettato l’illusorietà della coscienza e l’inevitabile estinzione nel tempo di tutti gli individui e di tutte le specie, compresa quella umana: «Il soggetto della filosofia [ossia il filosofo], deve anche riconoscere di essere già morto, e che la filosofia non è né un mezzo di affermazione né una fonte di giustificazione ma, piuttosto, l’organon dell’estinzione». Sarebbe a dire che il contenuto di verità di una teoria scientifica o filosofica non è in alcun modo correlato al gradimento e alla piacevolezza che un soggetto ne potrebbe trarre, tendendo piuttosto a incrementare la scomodità della posizione umana nel cosmo e a rendere disgustosa l’esistenza.
Dissipando il regno delle illusioni, la conoscenza annienta ogni possibilità di gioia, intensa come tendenza naturale al piacere e alla sensazione; uno stato di totale ignoranza della crudeltà e dell’insensatezza della vita.
Questa febbre della ragione, propagata come un’epidemia dalla rapida diffusione del pensiero scientifico, pervade l’opera di Leopardi, trapelando a volte sotto forma di bizzarra euforia, a volte sotto forma di una tetra cappa apocalittica. L’aspetto negativo è tuttavia preponderante nella speculazione leopardiana, sfociando in macabre previsioni sull’autodistruzione della nostra specie come conseguenza dell’avanzamento tecnico e scientifico (un argomento presente, fin dai primi momenti, anche nel pensiero di Nick Land): «La società contiene ora più che mai facesse, semi di distruzione e qualità incompatibili colla sua conservazione ed esistenza, e di ciò è debitrice principalmente alla cognizione del vero e alla filosofia»; e ancora: « La filosofia la quale sgombera dalla vita umana mille errori non naturali che la società aveva fatti nascere […] è dannosa e distruttiva della società, perché quegli errori possono essere, ed effettivamente sono, necessari alla sussistenza e alla conservazione della società».
Se il fanciullo e l’ignorante trascorrono la loro vita ad agire e a percepire, ossia a costruire un mondo comune, cullati dalle illusioni, l’adulto e il dotto passano il loro tempo a calcolare e ragionare, in una condizione simile alla morte e che addirittura anticipa e accelera l’arrivo della morte. Dissipando il regno delle illusioni, la conoscenza annienta ogni possibilità di gioia, intensa come tendenza naturale al piacere e alla sensazione; uno stato di totale ignoranza della crudeltà e dell’insensatezza della vita. Nella riflessione leopardiana la natura gioca proprio questo duplice ruolo di signora delle illusioni e di madre terribile, conducendoci al punto centrale della questione.
Oltre a palesare l’insignificanza e la precarietà dell’esistenza umana, lo studio della natura rivela diversi aspetti perturbanti, in grado di mettere a dura prova qualsiasi argomentazione sulla bontà e sulla perfezione del nostro universo. Nella raccolta di articoli Quando i Cavalli Avevano le Dita, il biologo Stephen Jay Gould descrive il ribrezzo con cui i teologi dell’Ottocento accolsero i risultati degli studi sugli icneumonidi (imenotteri simili alle vespe): questi animali trascorrono il loro stadio larvale nutrendosi delle carni vive di un ospite, di solito un bruco in cui la femmina ha deposto le uova subito dopo averlo paralizzato con una tossina. La larva dell’icneumonide divora per primi i depositi di grasso e gli organi della digestione, lasciando intatti il cuore e il sistema nervoso centrale della vittima, che rimane perciò in vita, agonizzante, fino all’ultimo istante. Come scrive Gould, l’interrogativo che sorge spontaneo innanzi a un tale orrore è: «Se Dio è benevolo […] perché siamo circondati da dolore, sofferenza e da una crudeltà apparentemente senza senso?».
È ben noto come quello dell’immoralità della Natura sia uno dei temi portanti della riflessione leopardiana; a chi lo accusa di misantropia Giacomo risponde, infatti: «La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio […] a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi». Esattamente dieci anni prima delle Operette (e del celebre Dialogo della Natura e di un Islandese) Leopardi annotava, rispondendo anzitempo alla domanda di Gould: «La natura tutta, e l’ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi contrario».
La coscienza o, meglio, l’eccesso di coscienza fornito agli esseri umani dalle scienze naturali, manifesta l’orrore naturale, tormentandoci, per di più, con la minaccia di una possibile illusorietà di tutto il sapere faticosamente raccolto fin’ora – facendoci dubitare persino della nostra stessa realtà. È forse questo il primo sintomo di una pandemia di follia che avvolgerà o che sta già avvolgendo il pianeta. Scrive Giacomo: «Tolta la religione e le illusioni radicalmente, ogni uomo, anzi ogni fanciullo alla prima facoltà di ragionare […] si ucciderebbe infallibilmente di propria mano […] Ma le illusioni durano ancora a dispetto della ragione e del sapere. È da sperare che durino anche in progresso».
Nello Zibaldone, due sono le prospettive che sembrano suggerire una possibile via di fuga dall’abisso della follia. La prima soluzione, derivata da un calcolo puramente razionale, consisterebbe nel suicidio individuale e nell’estinzione progressiva e volontaria della specie umana: «È meglio assoluto ai viventi il non essere che l’essere […] ch’essendo all’uomo più giovevoli il non patire che il patire, e non potendo vivere senza patire, è matematicamente vero e certo che l’assoluto non essere giova e conviene all’uomo più dell’essere. E che l’essere nuoce precisamente all’uomo»; un’ipotesi riproposta in tempi recenti da Ligotti e dal filosofo e attivista vegano David Benatar, sotto il nome di antinatalismo.
La seconda soluzione è rappresentata dalla fondazione di una nuova disciplina: «La nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l’intero e l’intimo delle cose, ci riavvicini alla natura. E questo dovrebbe essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo». Questa seconda soluzione speculativa è ideata in contrapposizione al sapere filosofico tradizionale, in cui la vanità e la mondanità sono perseguitate e osteggiate. Piuttosto che in direzione radicalmente pessimista – un orientamento che non farebbe che ridurre e banalizzare la riflessione leopardiana – una potenziale Leopardi renaissance orbiterebbe attorno a questa riconciliazione di natura e ragione. Compito di un’ultrafilosofia sarebbe proprio quello di considerare ogni elaborazione scientifica, teologica e filosofica come una determinazione arbitraria, sarebbe a dire un’invenzione (una prospettiva teorica sorprendentemente vicina all’opera di Nietzsche e di Deleuze e Guattari, nonché alla non-filosofia di François Laruelle); la valutazione del valore di ciascuna di queste invenzioni, siano essi concetti, opere d’arte o assiomi, sarebbe fondata sulla sua positività, ossia sulla capacità di promuovere e potenziare la vita umana.
Vediamo infine come l’ambiguità insita nella riflessione leopardiana si faccia dolorosamente acuta, sospesa tra l’incubo della rassegnazione e un’arte dell’inganno. Questo il compito che ci spetta in quanto posteri: oltrepassare a nostra volta il duplice ostacolo rappresentato dal pessimismo e dall’ottimismo, ideando nuove soluzioni, costruendo nuove strade, come lo stesso Giacomo tentò di fare immaginando un’ultrafilosofia del futuro. Confrontarsi con l’opera di Leopardi, e in particolare con lo Zibaldone, significa ingaggiare un pericoloso corpo a corpo con i più antichi e profondi terrori dell’essere umano, con le aberrazioni delle tecno-scienze future e con la violenta mediocrità dello stato di cose presente. Al mezzogiorno di una nuova fioritura del razionalismo, rappresentata in particolare dagli entusiasmanti lavori di Ray Brassier, Quentin Meillassoux, Reza Negarestani, Peter Wolfendale e del collettivo Laboria Cuboniks, si è reso necessario volgere lo sguardo alle tenebre, scandagliate fino in fondo dallo sguardo di questo poeta filosofo, sofferente e al tempo stesso coraggiosamente sorridente.