L’inferno del fandom
In un saggio edito da Lindau, Mondo Queer, il critico Piermaria Bocchi introduceva il concetto di «militanza matrigna». In breve, è il meccanismo per cui uno spettatore omosessuale si accomoda in una sala cinematografica tutta buia ed è perfettamente appagato quando sullo schermo vede o crede di vedere minime strizzate d’occhio rivolte soltanto a lui. Quello spettatore non desidera migliori film a tematica omosessuale, non cerca di confrontarsi con gli artisti che hanno davvero uno sguardo queer, né tantomeno diventa un creatore di contenuti; allo spettatore basta bearsi dell’aver dato una sbirciata a qualcosa che stava lì per lui, sì, proprio per lui.
Molto prima di capire cosa fosse la militanza vera, e cosa, nel mio piccolo, potessi fare, ho conosciuto la militanza matrigna nella mia cultura di nascita, quando dopo aver visionato un film dell’orrore scritto male e recitato peggio, So cosa hai fatto, un allora giovane fan semi-influente nel circuito delle riviste amatoriali dichiarava, «brutto è brutto, però c’è l’omicidio che cita 5 bambole per la luna d’agosto».
Appartengo alla prima generazione nella storia umana che non ha mai messo da parte i giochi infantili. È colpa nostra, senza dubbio. L’autore del romanzo da cui è tratto Ready Player One, Ernest Cline, ha cinque anni più di me. Gli stessi cinque anni, ma in meno, ce li ha Adam Wingard, il regista di The Guest e del futuro Godzilla vs. Kong. Siamo tutti sostituibili. Siamo dei fan, oppure, quando va male, dei fanboy. Abbiamo amato furiosamente, siamo arrivati a capitalizzare, con alterna fortuna, sulle nostre passioni, sappiamo di fare meno schifo rispetto a tanti altri e di non dare per scontate le conquiste artistiche e politiche delle generazioni precedenti, ma il massimo che ci si può chiedere, con sincerità, è produrre contenuti originali che non vadano a profanare le tombe di chi è venuto prima di noi. Viviamo in un mondo in cui i premi li vince La forma dell’acqua.
Voi avrete, a questo punto, letto un centinaio di articoli che inquadrano Ready Player One come la prova della morte del cinema. La logica del ragionamento sarebbe: un testo che vive di rimandi più o meno parassitari ad altri testi è una sconfitta collettiva, ci dimostra che non inventiamo nulla, abbiamo finito. Non si tiene forse conto del fatto che è l’intero mondo di Ready Player One a essere finito: l’umanità è una discarica a cielo aperto dove nessuno ha soldi e tutti tirano avanti grazie a un Second Life disegnato bene – Oasis –, dove giocano con il passato a loro piacimento. «Scalare l’Everest insieme a Batman», sfidare Godzilla, eccetera. La cultura è arrivata al termine, le possibilità di assorbirla e ricombinarla godono di ottima salute. E poi, tutti quei rimandi fanno parte del gioco: il creatore di Oasis era un disadattato incapace di gestire la realtà, che dall’appropriazione culturale aveva tratto il suo parco dei divertimenti. Chiunque voglia ereditarlo deve prima decifrare gli indizi seminati nella storia (una palata di Easter eggs legate ai gusti – perciò alla vita – del creatore defunto) e schivare il perfido padrone liberista che vuole trasformarlo in un servo del sistema. Quindi sì, il capo lo diventi se sei un nerd maniacale, ma devi anche tradurre la militanza in azioni concrete, e ricordarti chi sono i tuoi veri amici.
Ready Player One, il romanzo, campava sul suo essere il testo «di» un fan «per» i fan. Il film ha alzato la barra anni luce: ha un tono medio uniforme, mette una pezza sui limiti del libro (femmina uguale trofeo, maschio uguale redentore), sa girare intorno all’impaccio della parola scritta – non serve mezza pagina dedicata all’aspetto di una DeLorean quando puoi buttare sullo schermo una DeLorean, sicuro nella consapevolezza che la gente la vede e ci arriva in un lampo. Ma resta sempre una storia in cui «essere un fan» e «capire il mondo» significa videogiochi anni Ottanta, Goldrake, i mostri grossi, Spielberg e Robert Zemeckis, mentre si potrebbe sostenere che «essere un fan» significa gli occhiali di Essi vivono, The Devil in Miss Jones, Jack Ketchum, la musica di Cannibal Holocaust e vengono fuori dalle fottute pareti. Abbiamo tutti ragione. Se non esiste una macro-cultura nerd per partito preso – se non esiste, nei fatti, uno stesso mucchio di riferimenti che abbiano lo stesso impatto su tutti quanti – non si può delimitare il campo in base a criteri rigidi.
Oggi, però, esiste una pressione inumana in due direzioni riguardo al diventare un fan.
L’abbraccio è doppio. Vuoi l’approvazione di quelli come te, durante la ricerca dell’oggetto magico capace di dare senso a una vita intera. Ma vuoi anche alzare la testa rispetto alla massa di quelli come te. Vuoi il rispetto, il riconoscimento, la medaglietta del numero uno, dominare la materia. In questo senso Ready Player One finge di mirare ai cinquantenni ma si rivolge dritto ai giovanissimi fanboy e fangirl di adesso: imparate a memoria un’interminabile fila di cazzate, e il mondo sarà vostro. Tanto, ieri come oggi, senza un carattere ossessivo e senza il richiamo del vuoto, non vi sareste appassionati a nulla. Deadpool sapeva da quale lato fosse imburrato il suo pane quando ha rinunciato alla canzone originale in colonna sonora, pescando invece da YouTube il Deadpool Rap, un brano scritto dai fan del videogioco, e usandone una versione leggermente corretta come sottofondo di un montaggio d’azione.
Ma non basta. Non basta niente. I nuovi fan, come i vecchi che credono sia arrivata la loro stagione dopo anni di soprusi, vogliono essere sempre corteggiati. Pretendono di dettare la linea ai creatori, celebri e non. Sanno tirare fuori il peggio quando in ballo c’è una produzione costosa o la nuova versione dell’oggetto amato. Un fandom dovrebbe essere la fotografia della gita di classe dove «c’erano tutti»: diventa un labirinto di specchi che friggerebbe il cervello a chiunque, pensate a un ragazzino che magari si sente solo.
Il fan contemporaneo è una creatura complicata, dunque. Desidera ogni giorno il suo piatto preferito, servito con onestà, come glielo servono i blogger alla Cinema Snob, ma desidera anche altro: una tripla porzione, mettere il becco in cucina, non pagare il conto; vuole varianti alla solita ricetta e si lamenta mentre le riceve, vuole le uvette candite sul risotto alla milanese e insiste per mettercele lui.
È sempre stato impossibile accontentare tutti. Oggi non puoi accontentare nemmeno il 5-10% dei tuoi consumatori stabili. Non sarà un incidente se i momenti in cui Ready Player One respira meglio sono quelli dove il diluvio di citazioni si interrompe, per concentrarsi su un’opera in particolare (l’eroe che decide di vestirsi da Buckaroo Banzai, la lunga sequenza che riprende Shining) oppure per far succedere qualcosa di molto piccolo tra i poverini che popolano il suo mondo cane. La possibilità di avere un contatto fisico dentro Oasis, che riempie l’eroe di tensione e di desiderio, ma più di tensione; la sua voce fuori campo, prima, che riflette, «forse Art3mis ha ragione… o forse lo penso solo perché è figa», mentre sta accucciato su un materasso sopra la lavatrice che gira.
L’amore patologico come filo conduttore di una storia e della maniera di raccontarla non ce lo siamo inventato noi quando avevamo sette anni; quindi, se di morte della narrazione e trionfo della fan appropriation vogliamo parlare, allarghiamo un attimo il campo.
Alcune opere del passato recente che troviamo regolarmente nella lista dei «super-cult intramontabili» hanno scavallato il 1990 soltanto perché al loro tempo erano andati maluccio – avevano un immaginario, quello sì, ma erano troppo di nicchia per sbancare al botteghino. Siamo stati noi a dare loro importanza, non il contrario. La loro fortuna gliel’abbiamo costruita con il passaparola, i noleggi compulsivi in VHS e DVD, le maratone sul piccolo schermo. Labyrinth di Jim Henson i maschi lo trattano come un guilty pleasure perché la protagonista è femmina – ma è pur sempre la storia di una fangirl asociale sbalzata nel paese dei suoi sogni, che deve decidere se diventare regina o tornare a casa. Tuttora esistono persone normali che Grosso guaio a Chinatown non sanno se prenderlo dal lato dell’azione o da quello della commedia – ma è pur sempre la storia di un demente qualsiasi che cerca di orientarsi in un mondo parallelo dove esistono la magia e gli stregoni. Explorers viene quasi sempre relegato tra gli esperimenti non riusciti, però portava avanti un discorso simile e lo ribaltava sul finale – gli alieni non sono presenze sagge né illuminanti, sono bambini come i protagonisti, conoscono la Terra attraverso i programmi TV captati nello spazio. I nuovi classici del passato marciavano tanto sul ruolo dello spettatore, insomma. Ci coccolavano, ci facevano sentire speciali, particolari. Però esistevano anche al di fuori del nostro sguardo. E omaggiavano tutti il genere fantastico, con una rete di citazioni sottili, ma non vivevano o morivano sul gomitino gomitino.
Il citazionismo spinto è una scoperta molto recente. Il papà di Ready Player One, Scott Pilgrim, con il pischello che non si lascia comprare dal sistema, risale a soli otto anni fa. Costato 90 milioni di dollari, ne ha incassati 47. Un bagno di sangue. E non se lo meritava: aveva spirito, aveva cuore, aveva brillanti scene d’azione. Ma gli adulti l’hanno ignorato, e anche i nerd, nonostante fosse l’adattamento di un fumetto che in teoria piaceva a tutti. Tra l’altro negli Stati Uniti arrivò in sala lo stesso weekend dei Mercenari di Stallone: e i nerd sono tutti andati a vedere i Mercenari. Sì, c’ero anch’io. Sì, quel weekend. Sì, ho pagato il biglietto, andiamo avanti.
L’unico contesto in cui, fino a questa primavera, il citazionismo aveva dimostrato di funzionare erano i film di animazione per bambini. I casi di maggior successo negli ultimi anni sono tutti un ammiccamento ad altri film, altri giochi, altri mondi. Il discorso critico si è arenato, mi sembra. Ne parlava Alyssa Rosenberg all’uscita di The LEGO Movie, dove un escamotage di sceneggiatura spiega la bizzarria e la differenza fortissima dei riferimenti. Rosenberg sosteneva fosse una gigantesca pernacchia liberatoria verso la cultura di massa americana: la canzone onnipresente nel film, Everything is AWESOME!!!, dovrebbe servire a veicolare il messaggio. («Va tutto BENISSIMO quando stai vivendo i tuoi sogni!!!») Poi però abbiamo avuto LEGO Batman, noto in determinate cerchie come il migliore dei Batman, che prende per i fondelli tutto il canone del personaggio, lo fa scontrare con tutti i suoi cattivi, fumetti minori inclusi, e ci piazza dentro Voldemort, i Dalek, persino la malvagia strega dell’Ovest. Poi, a metà della storia, LEGO NinjaGo si interrompe con un montaggio di falsi film di arti marziali che non serve a niente se non a farci utilizzare il fermo-immagine – ce n’è uno dal titolo «Ti ho detto che stai sprecando il tuo tempo, ho giurato di abbandonare quello stile di vita».
Fanboy e fangirl sono termini dispregiativi: indicano l’eccesso di passione che rende ciechi. Li si usa per i fissati, tanto facili all’entusiasmo e alla pignoleria.
Vi siete accorti che ormai «il passato» arriva al massimo al 1974, come se Non aprite quella porta fosse il graffito sui muri delle caverne della civiltà umana, e tutto quanto c’è stato prima fosse una terra cancellata dalla vostra memoria?
Fanboy e fangirl sono termini dispregiativi: indicano l’eccesso di passione che rende ciechi. Li si usa per i fissati, tanto facili all’entusiasmo e alla pignoleria, e come nel caso di «zoccola» o di «frocio» alcune persone li rivendicano con orgoglio per definirsi. L’ascesa di Ernest Cline come sceneggiatore (un filmetto poco visto e stravolto in post-produzione che si intitolava, appunto, Fanboys) e poi come autore del romanzo Ready Player One è legata a doppio filo all’ascesa di un suo buon amico – un uomo ora totalmente rimosso dalla nostra memoria, che pure nei tardi anni Novanta veniva considerato il futuro: Harry Knowles, fondatore del sito Ain’t It Cool News.
Chi se lo ricorda salti il paragrafo e tiri un respiro profondo. Knowles aveva costruito un regno di terrore facendosi forte dell’avere un personaggio: il ciccione texano che aveva visto tutti i film e sapeva tutto sul cinema di menare, fiero di essere un semplice fanboy, fuori dal sistema, e quindi, per forza, un estimatore genuino di quello che piace davvero alla gente comune. Knowles raccolse un consenso impressionante intorno alla propria figura, anche perché un sacco di persone gli forniva materiale (quanti gli scrivevano dopo aver partecipato alle proiezioni blindate, per amore del pettegolezzo o per sentirsi importanti), e presto venne calato lui nel ruolo del «critico giovane» capace di muovere l’opinione su Internet: produttori e distributori lo vezzeggiavano, gli pagavano tutto. L’avevano letteralmente comprato. Col risultato che molto in fretta le recensioni su Ain’t It Cool diventarono elenchi di com’era comodo l’aereo, quanto era lussuoso l’albergo, quali VIP erano stati gentili e quanti begli oggettini stavano dentro la swag bag. Il re dei marginali voleva soltanto un posto in prima fila – accade quasi sempre: ho quarant’anni – e il dilettante allo sbaraglio voleva professionalizzarsi, mettere a frutto la propria passione.
Knowles è stato una potenza, in effetti. Andava in TV, spostava i soldi, è stato uno dei fondatori del Fantastic Fest, un festival rilevante per il genere, gli spettatori, i registi: qualcosa l’ha combinato, ecco. Il suo regno è durato dieci anni. Ad aprire una crepa è arrivata una nuova ondata di critici giovani, più preparati e magari con minori pretese, la moltiplicazione dell’offerta, la scossa basagliana di YouTube, e poi, alla fine, una valanga di cattivi comportamenti individuali – il Kickstarter che ha ramazzato oltre 100.000 dollari per produrre una web series mai materializzata; le molestie sessuali, ovviamente.
Dallo stesso calderone di fanboys, intanto, veniva fuori anche gente degna, commentatori acuti, autori decenti – uno su tutti, C. Robert Cargill, lo sceneggiatore di Sinister e Doctor Strange, che ha tenuto vivo il suo legame con la cultura di nascita grazie al podcast Junkfood Cinema. Alcuni, col tempo, sono diventati critici migliori. A tratti delle brave persone. I piccoli nerd di oggi stanno molto più attenti di noi a quanti favori accettano, e da chi. Ma devono anche muoversi in un mondo dove, per un singolo contributo pubblicitario, vengono bollati come «venduti» e «troppo commerciali» da parte dei loro affezionati. Ne parlava la scrittrice e attrice Gaby Dunn, ricordando il periodo in cui doveva tenere su la maschera – la comica, l’alternativa spensierata – mentre frugava tra i sedili della macchina in cerca di monetine.
Sulla rivista I 400 Calci, nel corso degli ultimi anni, sono apparsi parecchi articoli che raccontano bene l’impotenza provata rispetto al ruolo di spettatore impegnato a districarsi in un’offerta spesso scadente, consapevole di far parte di una massa di persone proprio come lui, un branco di mentecatti, vergogna della città, che accetta tutto purché dentro ci siano sangue, ciornia e pupazzoni realizzati orribilmente. Di questi articoli ne andrebbero letti almeno due, uno a firma Luotto Preminger e uno di Jean-Claude Van Gogh.
Non piacciono i Calci? Troppo sferzanti, troppo nerd? I documentari con un elenco di fonti accademiche lungo sei metri, vi piacciono? Ce n’è uno della PBS, Generation Like, che cerca di indagare il mondo dei fanboy contemporanei, la prende alla larga partendo con i giovani e la tecnologia, e poi agli spettatori mostra un quadro raggelante: i consumatori moderni sono bestie incapaci di intendere e di volere, intrappolati in un groviglio di mettici il like, schiavizzati dai grandi marchi che li manipolano convincendoli che forse anche loro, un giorno, a colpi di like e cuoricini, entreranno nel gioco da protagonisti, e allora sì, saranno qualcosa.
Il fandom contemporaneo è maestro nell’arte di considerarsi un salottino per pochi intimi all’insegna di buona fede e gusto, ma brandisce con la medesima facilità la sindrome della maggioranza accerchiata.
Tarda primavera 2002. Una serata tiepida. C’è appena stata la proiezione stampa del primo Spider-Man di Sam Raimi. Un film a grosso budget tratto da un fumetto, per il cinema dell’epoca, è un evento. Sono con un amico critico che si costruirà una carriera all’incrocio tra cinema e fumetto. Io non so cosa pensare: non conosco bene l’Uomo Ragno, e il film non mi ha convinto, l’ho trovato un po’ lezioso forse. Il mio amico, invece, è un fan duro e puro della prima ora. Un fulmine. Smonta, argomenta, cita la continuity del personaggio e i tradimenti all’originale, traccia paralleli tra le inquadrature e le vignette originali. Dopo dieci minuti sbotta: «e comunque io voglio vedere lui che si fa il costume».
Il fandom contemporaneo è maestro nell’arte di considerarsi un salottino per pochi intimi all’insegna di buona fede e gusto, ma brandisce con la medesima facilità la sindrome della maggioranza accerchiata, là dove qualcosa non gli torna. L’abbiamo già tutti rimosso perché abbiamo altri problemi, ma il Sony hack del 2014, per chiunque avesse la dedizione necessaria a scartabellare tra decine di migliaia di email, ha provocato danni gravi anche al nostro tessuto sociale. Perché, fatalmente, dalle mail è venuto fuori che sì, certi produttori volevano portare in sala contenuti acchiappa-fan, come un nuovo Ghostbusters, senza avere a cuore le opinioni dei fan della serie, e tentavano manovre subdole per estromettere Ivan Reitman. Si comincia così – l’imperatore è nudo, il sistema non funziona! – e si finisce a minacciare stupro e morte per un anno al regista e alle attrici. Il livello di complottismo attorno a un singolo prodotto è stato una follia. Pseudo-documentari di quaranta minuti volti a sbugiardare i padroni, nerd famosi che si rifiutavano di guardare il film per principio, gentismo ovunque, atmosfera da rivolta degli schiavi contro il mercato. Almeno ricordiamoci che abbiamo sfiorato la guerra con la Corea del Nord per difendere il nostro diritto alla libertà d’espressione a partire da un film, The Interview, che era, senza offesa, Vacanze di Natale a Pyongyang, con Seth Rogen che si infilava oggetti nel retto gridando «mamma mia che dolore».
Non sono ancora entrati nel discorso italiano da bar, ma si stanno guadagnando un posto nella conversazione alcuni termini come fanservice (posizionare oggetti e persone nello spazio in maniera da compiacere gli acquirenti), fan entitlement (accampare diritti sul lavoro altrui perché tu ne capisci e loro no), queerbaiting (lasciar intendere che tra persone dello stesso sesso accadranno cose da far rizzare i capelli ai pesci, salvo poi non mostrare nulla). Sono invenzioni linguistiche maturate nella cultura degli appassionati, adattabili, però, a situazioni comuni, sociali, politiche. Quanto dell’ascesa di un movimento si deve all’aver intercettato il bisogno di riconoscersi in un gruppetto di arrabbiati contro il sistema, salvo poi non sapere cosa farsene, del potere, una volta ottenuto? Quanto della conversione di un partito di nicchia in partito nazionale si deve all’utilizzo sapiente di icone chiare a tutti, condivisibili, come la pizza? Quanto queerbaiting c’è stato nell’intrecciare le trame dei reality come il Grande Fratello, quanto ce n’è, oggi, in chi ammicca al pubblico dall’altro lato di una webcam da 50 euro? Quanto forte è il senso di entitlement identitario in chi, senza averne troppo presenti i motivi ultimi, si ritrova ai raduni della nuova destra post-tutto e molto ironica in diversi paesi del mondo, compreso questo?
Intanto: continuano a uscire saggi e articoli sul fatto che troppo materiale maschile queer venga prodotto da donne eterosessuali, sia sul piano amatoriale sia, ancora più significativo, sul mercato dove circola denaro vero, come l’editoria specializzata in romanzi erotico/sentimentali. L’ultima a parlarne in ordine di tempo, su Electric Literature, è stata la scrittrice e attivista transgender Claire Rudy Foster. Se ne trae una morale del tipo «lasciateci giocare in pace, donne cisgender, ve lo buco ‘sto pallone», ma basta un rapido esame di coscienza ed è vero: alcune di noi si sono sfasciate la testa di contenuti mediocri pensando che fosse la rivoluzione e un nuovo modo di fare politica dal basso – che divertente ammucchiare tra loro i maschi, che bella la girandola dell’identità in movimento – quando forse, ciascuna a suo modo, potevamo rimboccarci le maniche un po’ prima. L’importante è arrivarci, dai. Ci sono persone che non ci arrivano mai.
Però, a volte, il rimosso torna fuori in maniere implausibili, e non per volontà dei diretti interessati. A gennaio è uscito per Mondadori il nuovo romanzo di Eleonora Caruso, Le ferite originali. In fase di promozione si è spinto molto sul fatto che Caruso fosse «una delle più note autrici di fanfiction in Italia», ma il romanzo ha una storia, i personaggi, la trama. Non è After, non è una roba trovata su Wattpad a cui hanno cambiato i nomi. Allora perché insistere sulla formazione di Caruso? Per darle un sigillo di genuinità, per stabilire che è una di voi, una di noi, anche se ha scritto qualche libro?
Questa primavera, costretta a letto da un breve malessere fisico, dopo un giorno passato bestemmiando per il lavoro arretrato, decido che tanto vale rimettersi in pari con gli horror. Nell’arco di dodici ore ne guardo tre: La babysitter, It Follows, mollato durante la prima visione, e Mayhem di Joe Lynch. Due sono baracconate citazioniste piene di gente antipatica che muore male, l’altro è una meditazione sulla solitudine con un netto tono fotografico e l’evidente desiderio di imbastire discorsi alti.
Indovinate, dei tre, quale ho rimosso subito.
Tristemente offline da ormai troppo tempo per poter sperare in una resurrezione, la community Fandom Wank documentava, con la brutalità dello sguardo esterno e il sobrio cinismo di chi le ha già viste tutte, le guerre tra poveri che scoppiavano in qualsiasi cultura di minoranza a partire da questioni ridicole, dettagli. Nessuno poteva dire di vivere in un ambiente sano e privo di crepe. Gruppi musicali, libri per bambini, saghe fantasy, videogiochi, oggetti preziosi: prima o poi il matto arrivava, prima o poi per spiccare dal mucchio qualcuno si dava troppa importanza o sparava un’idiozia tale da scatenare l’inferno. Era anche un periodo in cui il fandom era un passatempo femminile più che maschile – almeno, lo era l’esprimersi attraverso certi canali: i blog su LiveJournal e derivati, i portfolio su DeviantArt, i Tumblr a tema (quelli non muoiono mai, cambiano solo indirizzo). Un classico della follia anni Zero è stato il fenomeno delle cosiddette Twilight moms, le donne che si appassionavano ai romanzi di Stephenie Meyer e ai film tratti dai libri. In parte le Twilight moms venivano derise perché erano tutte grandi, spesso mamme davvero, e andavano in ebollizione per una cosetta da adolescenti, in parte perché molte non sapevano stare al loro posto, non si accontentavano di essere fan alla vecchia maniera, corretta e un tantino passiva: pretendevano gli autografi e l’attenzione degli attori, si azzuffavano sui forum. Un gran casino.
Scoppiata la bolla, non è cambiato niente. Il nuovo normale sono i fan adulti, uomini e donne, che bersagliano di insulti i creatori colpevoli di aver frainteso del tutto il senso del loro lavoro. Infatti non di rado i creatori se ne vanno dai social; l’anno scorso è capitato a Adam Wingard dopo la cattiva accoglienza riservata alla sua versione di Death Note. L’adagio this is why we can’t have nice things – ecco perché non ci meritiamo nulla – è nato in un altro contesto, un monologo comico di Paula Poundstone, ma è diventato l’inno sotterraneo di chiunque ami un oggetto a cui possono accedere anche gli sconosciuti.
Oggi. Andiamo a controllare come sta il fandom di IT a sei mesi dall’uscita del film. Per tastare il polso alle cose basta un giretto sul principale portale dedicato ai transformative works, quello fondato dalle docenti universitarie che fanno la rivista accademica. Constatiamo che la fase del porno con i tentacoli forse non è mai esplosa, il ciclo alfa / beta / omega potrebbe essersi già estinto (strano), e si è raggiunta la relativa pace che deriva dal trattare i personaggi di una storia come balocchi, accoppiarli tra di loro, solo i maschi, naturalmente, ingravidarli per il LOL, portarli alla maggiore età per fargli fare il sesso vero oppure procedere all’insegna del «me ne sbatto, i tredicenni sono maturi», e strapazzarli in maniere ancora più crudeli di quante ne preveda il testo originale. E ce ne vuole: è IT. Quanti stupri, ragazzi. Un giorno ne parliamo, con calma?
A parte le ultime accuse di plagio, il successo incontestabile e planetario di Stranger Things sta nel suo essere un testo originale, sulla carta, ma talmente intriso di omaggi al gusto del passato recente da diventare il primo esempio di fanfiction involontaria prodotta per il consumo di massa. Non solo saccheggia il cinema anni Settanta/Ottanta in termini di inquadrature, di scelta dei colori, di tipologia dei personaggi, di recupero di qualche attore: Stranger Things saccheggia ogni singolo luogo comune dei racconti per bambini e per adolescenti di sempre, pigliandosi l’intera fascia del pubblico che va dai 50 ai 12 anni. È davvero la foto di classe in cui «ci sono tutti». Lo sceriffo burbero che si rivela protettivo, il bulletto che si redime, il nerd che scopre il coraggio, la ragazza della porta accanto che diventa eroina. Però la sua occasionale bellezza sta nello spazio di manovra che si prende rispetto a una storia esattamente come la volevi tu. La ragazza della porta accanto va a letto con il più fico della scuola senza sentirsi legata a lui, e a domanda risponde «ci ho solo dormito insieme». L’amico nero, Lucas, ha una vita sua: in una puntata della seconda stagione vuole travestirsi da Ghostbuster, ma non ne vuole sapere di recitare il ruolo di Winston solo perché è nero anche lui; anzi, è molto indispettito dal suggerimento, e rivendica l’amore per la scienza che hanno gli altri. Ecco, hanno messo LE RAZZE NON ARIANE nella tua regressione.
Consumatore: stacci. Stranger Things prende quello che hai sempre visto, te lo dà come non hai mai smesso di vederlo, e ogni tanto si sforza di fare leva contro le tue aspettative millimetriche, suggerendoti che il mondo è più movimentato e meno lineare di come tu lo vorresti. Nasce e muore su un particolare effetto nostalgia – la definizione migliore è uscita dai critici responsabili degli Honest Trailers: «devo rivisitare l’infanzia per sfuggire all’orribile realtà di oggi» – però è anche un testo abbastanza opaco, alla fine. È tanto zeppo di altro che tu sei libero di rivederci quello che ti pare. I Goonies, Akira, Lo squalo, la bambina che ti piaceva alle medie. Il passato è una madre generosa. Il passato si interrompe al 1974.
Quanti di noi hanno conosciuto l’inadeguatezza per cui, dopo un’oretta di conversazione sull’orrore che ci circonda, una volta appurata l’impossibilità di spostarsi su argomenti personali (non sia mai, la peste), si finisce a parlare di Freddy Krueger e della scena del televisore? Quanti di voi hanno dormito in una stanza dove, al risveglio, hanno preso atto della presenza di quell’identico modello di televisore?
Di Ready Player One ho già rimosso quasi tutto. Va bene così. Appartengo a una generazione limitata, segnata dalla perdita di un orizzonte di crescita economica, ma almeno, ai nostri tempi, abbiamo intravisto i soldi veri con la coda dell’occhio, non siamo stati noi a mandare in malora il mondo, non rubiamo posti di lavoro a nessuno, siamo arrivati a distinguere tra militanza reale e militanza matrigna, e prima che tutto finisse ce la siamo spassata a mille, bevevamo spremuta d’arancia in bicchieri di cristallo tra un tiro a canestro e un film di Spike Lee. Che poi il riferimento ai film di Spike Lee è un’invenzione del doppiaggio italiano e io stanotte sto pensando a chi abbia deciso di inserire Malcolm X con la bandiera che brucia in mezzo alla sigla di un telefilm per bambini bianchi.