Annientamento: cose bizzarre per un pubblico enorme

Il film che Alex Garland ha tratto dal romanzo di Jeff VanderMeer è lento, bello e incredibilmente triste. Ma cosa ci insegna la sua vicenda in tempi di «rivincita dei nerd»?

Uno degli ultimi dialoghi di Annientamento arriva dopo un’ora e trenta di un film intenso, faticoso, che per gli ultimi venti minuti è visionario e quasi muto, e che allo spettatore, a parte la scena dell’orso, richiede un certo impegno. Alla protagonista, unica sopravvissuta della missione all’interno di una zona dominata da una presenza misteriosa, viene domandato quali potessero essere le reali intenzioni di quella presenza, dal suo punto di vista di scienziata. Voleva distruggerci, colonizzarci? Lei crede di no. C’era sotto – c’è sotto – qualcosa di più sottile. La presenza, qualsiasi fosse la sua origine, voleva creare. Copiava o prendeva in prestito piccole parti del nostro mondo per produrne un altro. E questo significava la fine del mondo per come lo conoscevamo.

Suona come una dichiarazione d’intenti da parte del regista Alex Garland, date le libertà che si è preso nell’adattare il romanzo di Jeff VanderMeer (primo capitolo della fortunata Trilogia dell’Area X), e che gli estimatori più nervosi potranno considerare mancanze atroci. Qualcuno resterà deluso nel non ritrovare nel film determinati animali e piante che si agitavano tra le pagine del romanzo; a qualcun altro non andrà a genio la maniera radicale con cui sono stati ridisegnati i personaggi. Fermo restando che pretendere adattamenti fedeli di un’opera è la strada che ci ha portato, nell’ordine, alle fanfiction di Twilight e ai film tratti da 50 sfumature di grigio, dovremmo tutti accettare che portare un libro sullo schermo significa, per sua stessa natura, tradirlo, e che l’obiettivo, al massimo, sarebbe trasformare un’esperienza di lettura in un’esperienza di visione capace di respirare in autonomia.

Il trailer di Annientamento

Detto ciò, da Annientamento ci si poteva tirare fuori qualunque cosa. Se ne poteva fare uno sparatutto fracassone con quattro (cinque) donne in lotta contro il tempo; anche se la tendenza pare essersi un po’ frenata, si poteva imboccare la strada dell’horror found footage (qui un diario diventa un video-diario), insistendo sul punto di vista e sull’inaffidabilità delle voci narranti. Invece Garland ha fatto un omaggio accoratissimo a un particolare tipo di fantascienza anni Settanta, quella dove si parla tanto e si spiega poco, e si offre allo spettatore la possibilità di decidere cosa sia realmente accaduto.

Nel caso specifico, Annientamento è una lunga, lenta esplorazione della pulsione di morte come idea che può frullare per la testa anche alla gente normale. (Non lo dico io, lo dice un personaggio del film. Letteralmente: c’è una scena che serve solo a spiegare la pulsione di morte, con il personaggio che dice, «siamo tutti uguali, fumiamo, beviamo, mandiamo a monte matrimoni felici». State calmi. Va tutto bene.) Quindi siamo indirizzati verso la fine da quando nasciamo, le nostre cellule esistono per crescere, moltiplicarsi, decadere e morire, il richiamo del vuoto è troppo forte per non sedurci, e qualcuno è solo tanto fortunato – o intuitivo – da buttarsi in braccio lui all’elemento destinato a distruggerlo. Annientamento.

Un giorno, con calma, ragioneremo sul periodo culturale in cui ci tocca vivere, dove l’emorragia di consumatori è tanto marcata da spingere chi crea a realizzare progetti per pochi, esigendo sempre maggiore severità da se stesso, e chi ci mette i soldi a scommettere su operazioni rischiose spacciandole per «intrattenimento adulto», salvo poi correre ai ripari e chiudere tutto quando si accorge che – ehi! – il regista di Ex Machina è bravissimo a raccontare storie tristi ma non è diventato Fabio Volo quando si è ritrovato in mano un budget leggermente più alto del suo solito, e lasciare carta bianca a un autore può assolutamente risultare in Il richiamo del vuoto: Il film, e il pubblico felice di inocularsi una stagione di Black Mirror in una notte non sempre è pronto a mettersi le scarpe e uscire di casa per andare al cinema. La vita è dura per tutti, ragazzi.

La fantascienza, l’orrore e la narrazione speculativa lavorano, da sempre, sulle paure e sui desideri inespressi del tempo presente in cui operano i loro creatori. Andate a riguardarvi un episodio medio di Ai confini della realtà e provate a immaginare cosa voleva dire chi lo scriveva. L’unica forte differenza, semmai, tra un autore di genere e un artigiano competente sta nella decisione di cosa farsene del materiale di quel genere: se sai muovere i corpi negli ambienti e padroneggi la tecnica del colpo di scena, ma non ci metti dentro qualcosa di più urgente o più personale, complimenti per l’abilità con cui manovri il teatro dei pupi, però non c’è troppo altro. (A titolo di esempio: The Strangers è un ottimo teatro dei pupi, ma non è un discorso profondo sulla fragilità dei legami; It Follows ci prova dall’inizio alla fine, tantissimo.)

Se VanderMeer è bravo con la weird fiction, Alex Garland è un maestro nel creare piccole bolle di intimità all’interno di un testo che comunque deve proseguire spedito verso la conclusione, tenendo sulla corda lo spettatore/il lettore. Sia che adatti il libro di qualcun altro sia che lavori su un soggetto originale, tende a partire da una grande premessa magari abusata – gli zombie, la navicella nello spazio – per portare alla luce la vulnerabilità e l’identità dei personaggi. Ricordiamoci che Garland nasce come romanziere commerciale di enorme successo (L’ultima spiaggia, edito, a suo tempo, da Bompiani): grazie alla sua prima vita ha potuto diventare sceneggiatore e poi regista del proprio materiale, con un’impronta talmente riconoscibile da poter considerare «suoi» a tutti gli effetti anche i film che si è limitato a scrivere in veste di semplice sceneggiatore, come 28 giorni dopo, e soprattutto Sunshine, che con Annientamento ha più di qualche tratto in comune. (Siete partecipi del fatto che Sunshine – anno 2007 – parli di una missione suicida condotta da persone di scienza, con un mondo sul ciglio della catastrofe ambientale? E che, a grandi linee, si vada a parare in zona «non giocate a fare Dio, chi si avvicina a un potere sovrumano ne viene trasformato in modo irreversibile»?)

Un controllo di trenta secondi sulla gestazione di Dredd ci conferma che è proprio la visione dello sceneggiatore Garland a essere passata sullo schermo, molto più dell’esecuzione del regista Pete Travis: adattando un fumetto tanto storico quanto infilmabile, sceglieva di prendere tutto sul serio, lasciando a noi il compito di stabilire dove finiva il baraccone e dove c’era da partecipare alle sorti dei personaggi, buoni o cattivi. E non potendo umanizzare l’eroe stoico e ammazzasette, perché nessuno l’avrebbe voluto umano il giudice Dredd, lavorava di fino sulla coprotagonista, trasformandola, in una giornata, da recluta ben addestrata ma inesperta a macchina per uccidere capace di conciliare La Legge e la sua morale. Con Ex Machina del 2015, Garland – qui finalmente al suo esordio da regista – raccontava cosa succederebbe se qualcuno praticasse il test di Turing su un’intelligenza artificiale già molto più sgamata di come appaia, e se, durante il test, l’androide chiedesse all’umano «ti piace Mozart?», per sentirsi rispondere «mi piacciono i Depeche Mode». Sì, certo, poi ci fa il discorso più ampio sulla solitudine e sulla manipolazione, ma intanto sta facendo questo. Garland è così che lavora. Garland personalizza.

Messo davanti ad Annientamento, la sua scelta, in soldoni, è stata personalizzare tutto. Se nel romanzo i personaggi non avevano neppure un nome, adesso di loro sappiamo come si chiamano, che storia hanno, quali sono, in un paio di casi, i loro gusti sessuali, e soprattutto (aiuto) quali ferite si portano dietro. C’è la tossicomane, l’autolesionista, quella a cui è morta la bambina, la cinquantenne senza famiglia né amici, e c’è la protagonista, che si offre volontaria per una missione suicida perché vorrebbe espiare una colpa individuale. Sento già nelle orecchie gli strilli di chi lo considererà un disgustoso tradimento dell’opera. State calmi. È una scelta dura, discutibile, magari, ma è l’ABC della narrazione: si prendono sagome e si danno loro nomi, indirizzi, dettagli, difetti fatali.

Garland vuole farci capire che questa è una missione suicida, che le persone coinvolte lo sanno, che la storia non le aiuterà a superare i loro problemi (sappiamo dalla prima scena che la sopravvissuta è una soltanto) e che, consapevolmente o meno, sono disposte a non tornare tutte e sane. Sono donne, già, ma sono anche adulte giunte al limite, che hanno preso un sacco di legnate, e comunque that’s how we roll. Se è innegabile che certi passaggi risultino un po’ tirati via, è altrettanto vero che Garland dia a queste povere criste un pochino di spessore supplementare, e che allarghi la storia in un’ottica più tradizionale, almeno per un’oretta. Con un’eccezione, però.

Bene che lo vediamo subito, ma questo era un film da grande schermo, punto.

Ai personaggi del romanzo di VanderMeer, Garland ne aggiunge uno, Anya: una donna lesbica, latinoamericana, con un atteggiamento spavaldo, che funziona per l’impostazione della nuova trama. Funziona, punto. Ma è ovvio che funzioni: è Vasquez di Aliens. E da che mondo è mondo le Vasquez di questa terra servono a fare la triste fine di Vasquez, non prima di aver fatto e detto cose da Vasquez, e forse aver salvato qualcun altro. Non è misoginia: è relativa consapevolezza delle regole del genere in cui si sta lavorando. È un film: è lavoro. Siamo tutti liberi di considerare inaccettabile questo abbinamento tra personaggi femminili e difetti fatali, come siamo tutti in grado di andare a vedere per la terza volta Black Panther, un film il cui protagonista, stringi stringi, ha un solo difettuccio: è troppo buono.

I prodotti di intrattenimento – dischi libri film fumetti – non esistono in un vacuum spaziotemporale indipendente dal mondo esterno, è sempre bene tenerlo presente. A questo punto i travagli di Annientamento sono pubblici e ben documentati – ne ha parlato l’ufficialissimo Hollywood Reporter qualche settimana fa. In breve: sono stati comprati i diritti di un romanzo semi-sofisticato con un grande successo di pubblico e critica; si è affidato tutto a un autore che difficilmente da quel materiale avrebbe tirato fuori uno sparatutto fracassone (per quanto divertente), e che ne ha ricavato una lunga, lenta meditazione sulla pulsione di morte; ci si sono scornati due produttori; sono state sollevate obiezioni prevedibili («troppo lento», «troppo cerebrale»); il film che vediamo noi è quello girato da Garland, perché il produttore Scott Rudin stava dalla sua parte e aveva il final cut, il diritto all’ultima parola sul montaggio; litiga oggi e rimanda domani, il film esce in sala soltanto negli Stati Uniti e in Canada – dove è andato male – e in Cina, dove capiremo cosa succederà; il resto del mondo lo guarda direttamente su Netflix.

Bene che lo vediamo subito, ma questo era un film da grande schermo, punto. Intere sequenze vengono risolte tramite immagini che restano in campo per pochi secondi, dettagli minimi giocano un ruolo importantissimo ai fini della comprensione, tutto lo studio dell’inquadratura va a privilegiare il piccolo (la scena delle foglie che spuntano dal braccio). Guardarlo sul portatile, come ho fatto io, come farete voi, è un’esperienza mutilata. Chissà cosa ne ricava chi lo guarda sul telefono. Probabilmente spegne.

Per inciso, uno degli aspetti del film che pare abbia dato fastidio ai finanziatori sarebbe una certa assenza di piacevolezza nella protagonista, se interpreto correttamente il diktat produttivo che l’avrebbe voluta «more sympathetic», per cui si sarebbero voluti richiamare alla bisogna troupe e attori in modo da rigirare o aggiungere diverse scene. Ma dove, se tutto quello che fa quel personaggio lo fa per espiare una colpa (e quale colpa; la colpa di Eva, l’aver lasciato libero il serpente nel giardino dell’Eden)? Cosa c’è di più umano del tentativo in extremis di ricucire uno strappo probabilmente insanabile? A questo siamo arrivati?

Ci troviamo in un momento critico della cultura nerd. Abbiamo preso il potere, almeno sembra. La fortuna della trilogia dell’Area X è emblematica del desiderio di offrire cose bizzarre a un pubblico distratto ma enorme. Negli Stati Uniti, la trilogia di VanderMeer l’ha pubblicata il marchio «strano» di Farrar, Straus & Giroux, FSG Originals, che ha messo il sigillo di qualità a libri scattanti, e ha saputo giocare sull’effetto Netflix (tre romanzi editi in un anno) e sulla fame di certi lettori per materiale che una o due generazioni fa veniva considerato antisociale e inadatto al curriculum dei consumi pubblici. Roba da tenere nascosta. Risultato: alcuni – intellettuali, artisti, semplici curiosi – si sono sentiti legittimati a gridare al mondo intero che a loro i teatrini dei pupi PIACCIONO, e anche tanto, ma così tanto che in soggiorno hanno il poster originale della Casa 2, perché finalmente in circolazione c’erano delle killer app abbastanza raffinate da fare breccia anche nei cuori dell’élite istruita.

Altri, spiace dirlo, si stanno aggrappando a un treno che corre da decenni, con il cinismo situazionale di chi fiuta l’aria, prende una moda e la usa per ritagliarsi un’identità sempre al passo con le ultime tendenze. Anche questa è personalizzazione. La si può far rientrare nel processo junghiano di individuazione, per cui nulla ci uccide e tutto ci modifica, portandoci, col tempo, a diventare «i veri noi stessi»? Persone complesse, sfumate, contraddittorie? Certo a nessuno piacciono i buttafuori della cultura che decidono chi può entrare e chi no. Nessuno vuole diventare un adulto orribile che castra i giovani. Allora si comincia con un pacato invito ai nuovi adepti, perché prendano maggiore contatto con il genere, e si finisce a dire che se non avete visto Punto di non ritorno nel 1997 in una sala minore dell’Odeon che puzzava di traghetto non siete preparati e dovete soltanto stare zitti.

Il che, incidentalmente, è vero: dov’eravate voialtri, quando noialtri ci sorbivamo Hellraiser nello spazio senza un lamento, per poi riversarci a cercare i Lansdale editi da Urania sulle bancarelle dell’usato? Dov’erano i sagaci interpreti del femminismo intersezionale quando noi stavamo in ginocchio sui ceci a cercare di farci piacere i bruttissimi film a tematica queer distribuiti da (omissis)? Ehi, Vasquez, ti hanno mai scambiato per un uomo? No, e a te? In effetti, dov’ero io quando mia madre si prendeva i lacrimogeni in manifestazione? Sempre mantenere la calma; sempre ricordare che c’è stato qualcuno prima di te a occuparsi delle stesse identiche cose che oggi interessano a te. Va tutto bene.

I lettori che due anni fa si sono appassionati a VanderMeer ora stanno già chilometri avanti al film. È passato, andava di moda prima, adesso non ho tempo.

La gente – se esiste ancora la gente – che si sta buttando in massa nelle sale a guardare Black Panther non lo fa in nome di un risveglio ideologico (ma quando mai), né di una subitanea affezione per il regno di Wakanda: lo fa perché la formula Marvel ha cambiato le aspettative di chi consuma materiali di genere. Fumetto uguale tante scene d’azione con personaggi autoironici che tra un combattimento e l’altro indossano splendide giacche da camera e si crucciano per amore; saga uguale interminabili fili che uniscono un film all’altro, abitudine a restare seduti fino al termine dei titoli di coda per vedere se il cugino è vivo o morto, lasciarsi abbastanza spazio di manovra da concedersi un Deadpool ogni tanto, pronto a ricordare al pubblico che sì, l’universo Marvel è un po’ una telenovela, almeno da quando, parafrasando Junot Diaz, «gli X-Men sono diventati strani». (Vado a memoria, è un passaggio di un romanzo che non ho letto in italiano, È così che la perdi).

A me non piace molto, ma non posso farci nulla. Ormai è questa la prassi. Hanno vinto loro. Si sono mossi presto, hanno avuto un piano di lavorazione lungimirante, tempistiche serrate, obiettivi cristallini: invaderci, trasformarci, riportarci, ancora e ancora, a pagare per avere la stessa cosa ma peggio. E le ondate di hype li toccano in parte minima. Mentre tutto il resto, qui e ora, è condizionato dalla rapidità con cui ogni oggetto culturale viene pubblicizzato, metabolizzato e mal digerito. I lettori che due anni fa si sono appassionati a VanderMeer ora stanno già chilometri avanti al film. È passato, andava di moda prima, adesso non ho tempo, sto guardando la serie sui bipolari rimasti senza litio.

Annientamento dura un’ora e quaranta minuti. È lento, è bello, è incredibilmente triste: è il nuovo film del regista di Ex Machina. Da oggi direttamente su Netflix. Buona visione, mangiate dopo.