Effimero Queer

José Esteban Muñoz meets Kevin Aviance

Ecco qui un estratto da Cruising Utopia. L’orizzonte della futurità queer, il classico di José Esteban Muñoz appena pubblicato nella collana Not di NERO.

Richiamo l’espressione «approcciare Aviance» per rendere un’immagine di vita vissuta, la scena di quando ci si accosta ad Aviance. Attraversare il mondo gay di New York con Kevin Aviance è sicuramente un modo per attirare l’attenzione. Aviance è una persona nera, calva, di un metro e novanta ed effeminata. Che sia nel suo ineguagliabile drag o meno, è immediatamente riconoscibile da chiunque abbia visto un suo show. Andare in giro per la città con lui significa osservare persone sconosciute avvicinarsi e far riferimento a una delle sue performance. Spesso raccontano con grande entusiasmo e descrivono quanto siano significative per loro una o tutte le sue performance. Si sentono dire cose come «ricorderò per sempre quello show che hai fatto prima che chiudessero il Palladium» oppure «hai spaccato al Roxy la settimana scorsa». Kevin è sempre gentile e ricambia l’amore appena ricevuto. 

Il suo lavoro, le canzoni, i movimenti non sono l’alta arte di Bill T. Jones o di Mark Morris, ma mi azzarderei a dire che ci sono più persone queer che guardano le mosse di Aviance di quante abbiano assistito a una sola delle magistrali produzioni di Jones. Con questo non intendo sminuire il valore del lavoro di Jones. Voglio solo inquadrare bene quanto contino le perfomance di Aviance nei locali notturni. I gesti che performa sono la cosa più importante del mondo per i ragazzini nel pubblico. Aviance è una specie di faro che mostra e raccoglie interi mondi queer di gioie e dolori. Nelle sue mosse vediamo la sofferenza di chi, con un genere fuorilegge, vive fuori dalle regole dell’eteronormatività. Inoltre, dietro i suoi gesti persiste l’altra parte della storia, essere nero nel mondo gay, che è fondamentalmente un mondo di suprematismo bianco. Alcuni dei suoi gesti trasmettono e amplificano i piaceri dell’essere queer, le gioie della dissidenza di genere, di trovare caparbiamente la propria rotta contro la marea devastante dell’eteronormatività. 

La forte influenza della pratica del voguing, presente in ogni sua mossa, riafferma l’ontologia razzializzata della Pier Queen, un personaggio «da degrado» per la cultura gay mainstream. Spesso, un unico gesto tiene dentro aspetti contemporaneamente positivi e negativi, perché piaceri e pene queer non sono proprio una rigida dicotomia. Le chiacchiere che seguono le sue performance, amic* e sconosciut* che gli si avvicinano per strada, i manifestini nei bar, le recensioni nei giornali locali, i video amatoriali occasionali, i ricordi annebbiati dalla droga che rimangono dopo le performance live vere e proprie, sono l’effimero queer, quello spostamento dell’energia della performance che funziona anche come faro per la possibilità e la sopravvivenza del queer. 

Per comprendere il fascino della performance di Aviance è utile descrivere quella che tenne a una festa al Red and Blue di Montreal. Il Red and Blue è nel sistema del circuit-party. Il circuit è semplicemente un giro di dance party liberamente connessi che hanno luogo durante tutto l’anno nelle maggiori città del Nord America. Aviance era stato invitato a Montreal per una performance. Un’altra performer drag, una queen nera nel tradizionale drag illusionista, compare sul palco e presenta la «fierce» e «legendary» Kevin Aviance. Aviance emerge da una tenda rossa ricamata in oro. Indossa un fantastico abito giacca e pantaloni con delle spalline esageratamente vaporose che gli arrivano fino alle orecchie. 

Mentre inizia a cantare il suo primo pezzo da discoteca, il microfono viene fuori dal bavero e gli permette di usare le mani in totale libertà, per muoversi con quei gesti familiari a chi ha esperienza di voguing e break dance. Nel mezzo della canzone tutto il corpo è coinvolto mentre riproduce delle movenze fredde da robot. Il mostro sfila. A quel punto comincia a cantare il suo pezzo, «Cunty». Canta «Feeling like a lily / Feeling like a rose», e mentre è fermo in piedi il suo corpo inizia a fremere di un’emozione smodata. Sta al centro del palco, e mentre urla, freme con una forza emotiva che connota lo stigma dell’ostracismo di genere. La sua mostruosa stramberia di genere parla al pubblico che lo circonda. Il suo è un corpo queer amplificato ed estremo, un corpo in movimento che rapidamente mobilita i segni, i gesti della comunicazione, della sopravvivenza e del farsi da sé queer. Le persone nel pubblico si connettono con il suo tremito, con i modi in cui torce il polso e ritrova la propria compostezza mentre si applica un fondotinta immaginario. 

In questo frangente della performance, toglie la giacca e i buffi pantaloni. Il suo corpo è rivelato, completamente avvolto in una tuta iridescente. Inizia a rimbalzare da un lato all’altro del palco, offrendo al pubblico una versione particolare della runway (passerella) – quella pratica del voguing di sfilare come una top model. Vale la pena soffermarsi su un gesto di Aviance in particolare, cioè il modo in cui le sue caviglie si piegano e si flettono mentre sfila, o sarebbe più il caso di dire il modo in cui pesta i piedi, sulla passerella. Questo gesto gli permette di essere più diretto e determinato sui suoi passi di chiunque sfili sui tacchi alti; è un gesto che connota una tradizione di identificazione delle queen con il sadismo dei rituali di bellezza femminile. La mossa – camminare sui tacchi alti in questo stile poco ortodosso – costituisce una disidentificazione dalla tradizionale performance dei maschi gay che incarnano corpi femminili. Il rifiuto di Aviance di indossare parrucche è un ulteriore esempio della dinamica di disidentificazione. La sfilata canonica è rimpiazzata da un modo particolare di far ciondolare la schiena in cui il petto e il culo vengono fuori, esagerando le caratteristiche del corpo razzializzato. Compiere questo gesto, ci tengo a esplicitarlo, non significa fare la parte della Venere Ottentotta per un pubblico canadese prevalentemente bianco; significa, invece, mettere in luce ulteriormente l’elemento della nerezza in uno spazio claustrofobicamente bianco. Aviance allora si lancia sul pubblico che lo tiene sospeso. Si perde in un mare di mani bianche; questo perdersi può essere inteso come un modo particolarmente queer di performare il sé. La performance finisce così. Il meraviglioso controfeticismo è assorbito dalla massa desiderante. Aviance ha aperto dentro di loro un desiderio o un modo di desiderare che non mette a proprio agio e che è estremamente importante se Aviance deve spingersi oltre la nuova simmetria di genere nel mondo gay. 

La biografia di Aviance è già in sé una testimonianza di sopravvivenza queer. Cresciuto come Eric Snead in una famiglia numerosa a Richmond, in Virginia, la sua prima esperienza in drag fu alle medie. Ancora giovanissimo scappò dagli stretti confini del paesino e si trasferì nella metropoli gay più vicina, Washington, D.C., dove lavorava come parrucchiere, faceva del drag amatoriale e sviluppò una dipendenza alle droghe che si rivelò invalidante. Alla fine riuscì a uscire dal crack grazie all’aiuto della House of Aviance; la House of Aviance non è esattamente la stessa cosa delle house di voguing come si vedono in Paris is Burning di Jennie Livingston, perché non partecipa alle competizioni. La House of Aviance è una specie di rete di parentela queer al cui interno le persone si comportano come una famiglia allargata, di elezione e – come sostiene qualcun*– migliorata, che supporta e dà forza a chi ne fa parte. Kevin Aviance è il nome che prese dopo la sua iniziazione. 

Aviance successivamente approdò a New York, dove si fece un nome in quello che oggi è il leggendario Sound Factory, un club queer che iniziò come spazio prevalentemente nero e Latino. Si distinse sulla pista catturando l’attenzione dei maggiori DJ e PR, e ben presto divenne un performer professionista. Oggi è uno dei pochi performer drag di New York che può vantare di vivere esclusivamente delle sue performance. Abbandonato il drag più tradizionale e il mondo delle parrucche già dall’inizio della sua carriera, il suo look ricorda quello delle leggendarie dive black soul LaBelle, il gruppo che incise la pressoché perfetta hit disco «Lady Marmelade»; penso al look di Aviance mentre studio la copertina dell’album fenomenale delle LaBelle del 1974, Nightbirds. Le tre donne, tutte vestite di tessuto metallizzato, sono ritratte come dei vortici spaziali afro-glamour. L’afrofuturismo delle LaBelle era una mossa strategica per far sembrare il gruppo ancora più mostruosamente strambo e alieno, per rendere la nerezza qualcosa di perturbante, da un altro mondo. 

Aviance, come le LaBelle, riproduce la nerezza con una misteriosa estetica lost-in-space. Altri confronti possibili si possono fare tra le performance punk di Klaus Nomi, la folle divinità disco di Grace Jones, l’assurdo e meraviglioso drag di Leigh Bowery e la sballatissima eleganza dell’artista hip hop Missy Misdemeanor Elliot. Ma il look di Aviance è decisamente tutto suo. L’ho visto in diversi outfit, inclusa una fantastica tutina in lamé dorato, un abitino microscopico a pois e una calzamaglia leopardata. Sebbene non indossi le parrucche, a volte adorna la testa pelata con un copricapo. 

Né il suo aspetto né la sua performance sono in alcun modo tentativi di imitare una donna. È invece interessato ad approssimare una nozione di femminilità. La teoria queer ha prodotto una lezione chiara: l’insieme di comportamenti e codici di condotta che noi riconduciamo alla femminilità e alla mascolinità non sono schiavi della biologia. Le donne, straight o gay, performano e vivono la mascolinità nello stesso modo in cui molti uomini cis abitano la femminilità.  A volte la tecnologia permette di allineare l’identità di genere delle persone al loro sé biologico. Altre si godono la scissione antinormativa tra il genere biologico e il genere performato o vissuto. La mascolinità di Aviance, in parte informata dalla sua maschilità biologica, non è mai nascosta – non indossa parrucca, non fa tucking (non copre o nasconde il pacco mentre sta in drag). Infatti nelle sue performance possiamo vedere una coesistenza unica di tratti tradizionalmente maschili e femminili. 

Mi ritrovo al Roxy, il posto più stiloso per una specifica fascia di gay newyorkesi. Sono sopraffatto dalla massa di ballerini a torso nudo con i corpi palestrati. Il loro stile di ballo è aggressivo e per giunta rigido; le mosse sono concepite per ostentare i frutti di ore di allenamento.

Performare un genere così ibrido non significa solo voler essere queer, ma anche sfidare le problematiche logiche del genere all’interno degli spazi gay. Il capitolo di Jonathan Bollen sulla performatività queer e la pista da ballo elenca diversi stili di ballo – come per esempio il girly poofter (slang australiano per ballo per maschi dallo stile camp e femminile) e il classico-macho, che è lo stile di ballo che domina in molti locali gay. Bollen tocca ma non approfondisce la femmefobia  manifesta su molte piste da ballo queer, dove le persone che rompono la regola del clone-gay che deve comportarsi da uomo sono de-erotizzate e declassate a cittadine di serie B. 

Osservo questa tensione quando mi ritrovo al Roxy, il posto più stiloso per una specifica fascia di gay newyorkesi. Sono sopraffatto dalla massa di ballerini a torso nudo con i corpi palestrati. Il loro stile di ballo è aggressivo e per giunta rigido; le mosse sono concepite per ostentare i frutti di ore di allenamento. Non si sparpagliano nel locale, al contrario ballano appiccicati, quasi in branchi. Spesso sono nel pieno degli effetti di qualche droga ricreativa, tipo ecstasy e keta, e si accalcano mentre ballano. Per la maggior parte del tempo non si lasciano andare e restano attaccati l’uno all’altro, godendosi il modo in cui i loro muscoli scolpiti si strusciano contro quelli del più vicino compatriota quasi clonato sulla pista. 

Attraverso la foschia della macchina del fumo guardo Aviance elevarsi sulla folla. Sta ballando su una piccola piattaforma che sarà alta un metro e mezzo circa, quel tipo di cubo che solitamente è occupato da qualche go-go boy palestrato. I go-go boy fanno quasi solo un po’ di movimento di bacino. Non c’è molto spazio per fare dei passi, ma Aviance non ne ha bisogno. Questa particolare danza riguarda solo le mani: si muovono in spasmi meccanici, a scatti; incorniciano il suo volto e il suo outfit. Balla la musica house che il DJ sta mettendo soprattutto per lui. È più in alto rispetto alla pista, ma comunque circondato da ballerini che adesso ballano con lui. È allo stesso tempo in scena ma anche parte della massa, della musica. È giusto che sia più in alto. Non è lì semplicemente perché è un ballerino migliore di qualunque altro avventore del club intorno a lui (e lo è), ma perché lui è il ponte tra il ballare ordinario di una notte e una performance teatrale.  Sfida i codici di mascolinità che saturano la pista. I suoi gesti sono fieramente femme. Le dita picchiettano il volto, come se si stesse rifacendo il make-up invisibile. I suoi movimenti sono codificati come maschili (scatti decisi e repentini), femminili (movenze fluide e sinuose) e, soprattutto, robotici (precisi movimenti meccanici). 

Cosa significa che in questo spazio dove dominano i codici della mascolinità Aviance è la santa patrona? Come lavora la perfomance in questo locale? E inoltre, cosa ne è della nerezza in questo spazio governato da bianchi torsi nudi sudati? Qui funge da feticcio in questo spazio, potrebbe essere una risposta, un juju magico che permette a gay bianchi ed effeminati di restare favolose senza essere per nulla progressiste su genere, razza e sessualità. Una simile lettura potrebbe perdere di vista il punto della questione. Aviance è molto consapevole del pubblico e, quando arriva il momento di giocare alla sfida uomo/donna, reagisce sempre così. L’ho visto accadere in scena in molte occasioni. Al La Nueva Escuelita, uno spazio Latino queer in centro, gli ho visto trasformare il cubo in un pulpito, e tra un numero musicale e l’altro, gli ho visto denunciare il regime fascista del sindaco della città e il razzismo delle sue forze di polizia. Aviance prende regolarmente la parola, sia nei locali bianchi che in quelli razzializzati. Interpreta anche il razzismo della comunità gay privilegiata di New York. Aviance è consapevole di poter essere ridotto a feticcio, ma si disidentifica da questo tipo di ruolo in un modo tutto suo. 

Il marxismo ci racconta la storia del feticcio del bene di consumo, l’oggetto che ci aliena dalle condizioni di possibilità che hanno materialmente prodotto qualunque bene.  Il feticcio, nella sua dimensione marxiana, riguarda l’occultamento, la rimozione, la cancellazione e l’illusione. Alcune drag preferiscono riconoscersi nel genere illusionista. Aviance non lavora sull’illusione; diventa molte cose allo stesso tempo. La sua performance insiste nell’indicare un fantastico glamour femminile, ma la sua mascolinità non è mai completamente eclissata. Se il feticcio riguarda l’illusione, Aviance si disidentifica dalla nozione standard di feticcio e la traduce in una sorta di demistificazione. 

Quando è sul palco, performa gesti che poche altre persone possono performare; non sono permessi dai rigidi codici della mascolinità, rispettati dagli habitué della maggior parte degli spazi per il ballo queer commerciali. Il capitolo di Paul Franklin sui gesti di Charlie Chaplin si rivolge alla paura dell’effemminatezza che ha turbato la storia dei ballerini in Occidente. Gli stessi argomenti sono lucidamente espressi da Ramsay Burt in The Male Dancer.  Ironicamente, questo pregiudizio antieffemminatezza è riemerso in molti spazi gay per il ballo. Come un’icona, un faro che si staglia sulla pista, Aviance usa gesti che concedono a chi balla di vedere e provare sentimenti che da sol* non si concederebbe. Lui e i suoi gesti sono fari per tutte quelle emozioni che la massa non è autorizzata a provare. 

Queste queen pompate in palestra, nella maggior parte dei casi sono partite come femminelle cicciottelle o mingherline che provavano a nascondere i propri gesti. Molti di loro, come l’io nel mio precedente racconto autobiografico, hanno provato a camminare da uomini e nascondere quella spia luminosa del gesto queer. Questa cultura deve essere criticata per i paradigmi normativi di genere in cui si iscrive, e allo stesso tempo per le logiche escludenti (spesso bianche e decisamente mascoline) che applica alle persone che non ce la fanno a stare nelle norme. Ciononostante, sebbene tale violenza simbolica non sia giustificabile, chiunque può comprendere questo desiderio di mascolinità. Questi uomini non si sono limitati a dare una raddrizzata alla camminata per sembrare straight; hanno lavorato sul corpo per avvicinarsi il più possibile all’ideale di ipermascolinità. 

Non voglio consumare altra energia per fare la morale contro il cammino per la sopravvivenza nel mondo eteronormativo. Ha una sua logica, specialmente se consideriamo che questi uomini sono giunti alla mascolinità quando sono stati accerchiati dallo spettro della pandemia di AIDS. La catastrofe dell’AIDS fornisce molte ragioni per scolpirsi il corpo. Ma immaginate quanto deve essere stata dura provare tutto il tempo a sembrare butch e a comportarsi come tale. Infatti, questi uomini si sono trasformati nel loro stesso feticcio di mascolinità, nel senso che nascondono le condizioni di possibilità che li hanno condotti al loro divenire butch. Aviance svela queste condizioni. Questa è la funzione della controfeticizzazione: performa l’interfaccia potente tra femminilità e mascolinità attiva in ogni genere, soprattutto in quelli queer. In tal senso è ancora una volta un controfeticcio, rendendo esplicite le reali condizioni materiali del nostro genere e del nostro desiderio. 

Immaginate il sollievo che provano queste queen da palestra quando Aviance si permette di essere sia mascolino che femminile, quando i suoi gesti un po’ strani e favolosi lasciano intendere i mondi di sofferenza queer che questi uomini accalcati provano a sbarrare fuori ma da cui non possono scappare, il piacere di essere checca e fighetta che non possono concedersi nella vita quotidiana. Inoltre, immaginate che la sua performance sia in qualche modo istruttiva, che ricodifichi i segni dell’abiezione negli spazi queer mainstream – la nerezza, la femminilità/effemminatezza – e li renda non solo desiderabili, ma qualcosa per cui esser desiderati. Immaginate come alcuni di quegli uomini in pista possano giungere ad accettare e far proprio il gesto queer attraverso l’esemplare performance di Aviance. Ma più di ogni altra cosa, immaginate cosa significhi la sua performance per quelli ai margini della folla, per quelli che non hanno consacrato la loro vita all’appuntamento quotidiano in palestra e all’ideale ipermascolino, per coloro che per razza o fisico non sono conformi ai rigidi schemi di cosa è hot. Quelli sui margini possono raggiungere un estremo godimento nel vedere Aviance stagliarsi dalle masse muscolose, elevato e radiante. 

Per i connoisseur razzializzati, i suoi gesti funzionano come i tristi canti in Le anime del popolo nero di W.E.B. Du Bois. In questo testo, che ha rappresentato una svolta di paradigma, Du Bois riflette sul potere della Negro Music e sul significato incorporato e sincretico racchiuso da queste testimonianze sulla cultura della schiavitù. 

Cosa sono questi canti e cosa significano? Mi intendo poco di musica e non posso dire nulla in linguaggio tecnico, ma so qualcosa degli uomini, li conosco e, conoscendoli, so che questi canti sono il messaggio degli schiavi al mondo. Ci dicono in questi giorni intensi, che la vita per gli schiavi neri era gioiosa, spensierata e felice. Posso facilmente crederlo di alcuni, di molti. Tuttavia neanche tutto il Sud del passato [Old South], anche se risorgesse dai morti, può negare la testimonianza di questi canti che toccano il cuore. Essi infatti sono la musica di un popolo infelice e dei figli della delusione. Parlano di morte e sofferenza e di desideri inespressi per un mondo più vero, di vagabondaggi incerti e di sentieri nascosti.

Con una tale similitudine rischio di sembrare un po’ troppo drammatico, e tuttavia invoco questo classico della letteratura africana americana con lo scopo esplicito di richiamare l’attenzione sul pathos alla radice di alcuni di questi gesti. Il voguing, per esempio, è considerato troppo spesso una celebrazione semplicistica della cultura nera queer, è visto come una mera appropriazione dell’alta moda o di altri aspetti della cultura del consumo. La mia proposta è di vedere in queste mosse qualcosa di più di una semplice celebrazione: potremmo scorgervi la traccia profonda della sopravvivenza per le persone nere e le persone queer razzializzate, il modo in cui da ragazzin* abbiamo bisogno di immaginare di divenire l’Altr* a dispetto della combutta tra le logiche culturali del suprematismo bianco e dell’eteronormatività. Il gesto contiene un messaggio articolato che chiunque può leggere, in questo caso un messaggio sulla favolosità e sul divenire fantastico. Contiene anche un altro messaggio, meno articolato e più effimero, ma altrettanto importante per comprendere un minimo i gesti queer, gesti che, come ho esplicitato, spesso sono bi- o multivalenti. Così, mentre Aviance che fa vogueing si muove e gesticola sul palco, l* spettator*ice dallo sguardo corto potrebbe vedere solo un’approssimazione del glamour dell’alta moda, altr* invece vedono/sentono un’altra melodia, che intona l’autoproduzione della razza in opposizione a una generale ostilità. 

José Esteban Muñoz (L’Havana, 1967 – New York, 2013) è stato studioso di teoria queer, studi culturali e cultura visiva, e docente e direttore del Dipartimento di Performance Studies alla New York University. Tra le sue opere, Disentifications: Queers of Color and the Performance of Politics (1999) e The Sense of Brown (2020, postumo).