Disperati e invincibili
Primo atto
Nella primavera del 1976, mentre a Bologna si viveva una primavera di creatività culturale, solidarietà sociale e invenzione politica, una persona che frequentava le assemblee mi invitò a una riunione che non aveva carattere pubblico. Accettai l’invito come avrei fatto con chiunque altro incontrato in un’assemblea, anche se non conoscevo il suo nome né lo conosco adesso.
Era un compagno e questo mi bastava.
Mi recai all’appuntamento nella periferia cittadina. Insieme a colui che mi aveva invitato c’era un operaio un po’ più anziano di me. Avevo un po’ subodorato l’argomento della conversazione: mi dissero che avevano il compito di costituire la colonna bolognese delle Brigate Rosse (che poi non si formò mai) e che, avendo seguito da tempo le mie attività (da anni facevo agitazione davanti ad alcune fabbriche bolognesi) volevano propormi di entrare a far parte dell’organizzazione.
Discutemmo per un paio d’ore. Dissi semplicemente quel che pensavo, e che penso ancora: non credo che il movimento operaio abbia bisogno di un partito armato. Non entrai nelle Brigate Rosse, né in altre formazioni armate.
Partecipai al movimento che nel marzo del 1977 rispose con la violenza simbolica alla violenza assassina delle truppe di Francesco Cossiga. Ho rotto qualche vetrina, ma non ho mai esercitato violenza contro un essere umano, non ho ucciso, né mai ho portato un’arma da fuoco.
La considero una fortuna, ma non un valore etico positivo.
Che lo vogliamo o no, la questione della violenza si pone nella storia della lotta di classe. E non si può aggirare.
Poche volte, nei decenni successivi, sono giunto a rimproverarmi quel mio rifiuto di arruolarmi. Una di queste volte fu il luglio del 2001.
Quando gli assassini in divisa mandati da un mafioso di Arcore e da un fascista di Bologna con la complicità dei veltroniani aggredirono, torturarono e uccisero, pensai che avevo vissuto una vita abbastanza bella ma forse non una vita giusta, perché non avevo fatto tutto quel che occorreva per eliminare i mostri prima che i mostri eliminassero noi.
Allora me ne andai nell’Himachal Pradesh a trovare una giovane monaca buddista. Meditai, e mi resi conto del fatto che il problema non era quello dell’armamento, perché, come disse la mamma della monaca buddista: loro dispongono di armate professionali e in fatto di violenza noi saremo sempre dei dilettanti. Fui costretto ad accettare l’idea che non c’era più posto per la speranza.
Sia ben chiaro, la speranza non è mai stata pane per i miei denti; dato che sono un materialista non la chiamo speranza, la chiamo comprensione di una tendenza. Dopo Genova mi parve chiaro che la tendenza era segnata: l’umanità era destinata all’inferno. Poiché il neoliberismo si era unito in alleanza con il nazismo, e poiché la soggettività sociale non era più capace di autonomia e di amicizia, la prospettiva non poteva che essere l’inferno della precarietà crescente, dello sfruttamento crescente, della miseria crescente, della violenza crescente, e anche della devastazione mentale e ambientale.
Disperai, e non ho smesso di disperare.
Ma quando smetti di «sperare» non per questo smetti di aspettare.
Secondo atto
Dovetti aspettare meno di due mesi.
In settembre dai cieli venne la vendetta, e l’inferno del nazi-liberismo si trasformò nell’inferno della guerra.
Gli umiliati senza speranza guidati da un assassino con la barba misero a frutto un colpo strategicamente vincente. L’abbattimento del simbolo dell’Occidente innescò un processo che venti anni dopo è in pieno svolgimento: il processo che sta portando alla fine della civiltà occidentale.
Non mi dispiacque il crollo di quel simbolo, né mi dispiace la fine della civiltà occidentale, anche se non «spero» che questo significhi liberazione dal dominio del capitale o fine della guerra contro l’umanità.
Il dominio del capitale appare al momento inossidabile perché non è mai emersa una soggettività capace di emanciparsene. Ma la civiltà occidentale è in agonia.
Il compagno Saviano forse non se n’è accorto, visto che oggi auspica che Fulgencio Batista torni a Cuba portato dalle truppe del criminale Biden.
Forse a suo tempo gioì del crollo dell’Unione Sovietica e oggi si rallegra per come è andata a finire?
Dispiace quando un cervello che fu brillante viene piegato dai casi della vita o semplicemente marcisce per conformismo. Eppure lo debbo riconoscere: l’autore di uno dei libri più importanti del nuovo secolo non ha capito (forse nessuno glielo ha detto) cosa è successo in Afghanistan, dove venti anni fa i Giuliano Ferrara di tutto il mondo chiamarono alla guerra santa, e oggi col favore della notte scappano le truppe della razza bianca, mentre gli amici di bin Laden conquistano il paese.
Saviano non ha capito cosa è successo in Iraq, dove in nome della menzogna democratica si è messo in moto un processo che ha portato alla nascita di Daesh, alla disgregazione sanguinosa dell’intero Medio Oriente.
Rumsfeld promise che avrebbe riportato l’Iraq all’età della pietra, se non avesse rinunciato alle armi di distruzione di massa, che poi non si sono mai trovate. C’è riuscito, ma all’età della pietra sta ritornando tutta l’umanità.
La disfatta dell’Occidente in Afghanistan e in Iraq è irrimediabile, non in senso militare, ma in un senso più profondo. Gli Stati Uniti d’America restano la potenza militare più grande di tutti i tempi, ma il genio strategico di bin Laden (e soprattutto l’inarrivabile imbecillità di Bush-Rumsfeld -Cheney) hanno messo in moto un processo inarrestabile di guerra civile e sgretolamento i cui segni sono dovunque. La potenza militare più grande di tutti i tempi non esiste più perché è in guerra con se stessa, e da questa guerra non uscirà viva.
L’Occidente è nel caos, sprofonda nella demenza, nel fuoco delle foreste della costa occidentale americana, e nel fango dell’Europa settentrionale.
A Genova ve lo avevamo detto: se continua così siamo condannati. Ci avete messo a tacere con la violenza, e in nome del profitto avete continuato a preparare l’Olocausto finale.
Adesso è troppo tardi. Il fuoco non si spegne, e ogni anno è destinato a bruciare più esteso. L’alluvione non si ferma e ogni anno è destinato a essere più turbinoso.
Venti anni fa si poteva. Forse.
Ora è sicuramente troppo tardi.
La Commissione europea promette che nel 2035 andremo tutti su auto elettriche, e Grillo, che non ha perso la voglia di farci ridere, consiglia di aspettare il 2050 dato che nel frattempo deve fare il Garante (della Goldman Sachs). Forse nessuno gli ha detto che la foresta amazzonica, un tempo considerata polmone del pianeta oggi, in buona parte, emette più CO2 di quanta ne assorba. Il che significa, se a Grillo non dispiace, che sul pianeta Terra nel 2050 ci saranno solo morti. Branson prepara navette per abbandonare la terra. Vada pure su Marte a farsi fottere.
Noi restiamo qua: stiamo attraversando la disfatta dell’Occidente, ma questo non ci mette di buon umore perché non siamo usciti dalla storia del capitalismo. L’Occidente ha perduto la guerra contro l’Islam ma non per questo possiamo rallegrarci, visto che l’Islam è un regno di terrore e oscurantismo. L’Occidente perderà presto la guerra contro la Cina ma non per questo possiamo rallegrarci, visto che la Cina è l’Impero dell’Automa.
Noi restiamo qua perché non abbiamo speranza, e questo ci rende invincibili.