Detroit è una necropoli che brucia ancora

Ruin porn, case in fiamme e nuovo cinema horror: viaggio tra le rovine dell’ex capitale industriale americana

Your city lies in dust, my friend
Siouxsie and The Banshees

Neighborhood’s going to Hell.
Barbarian

Su Scary Movie 4 c’è una scena in cui Brenda e Cindy si incontrano per caso dopo diverso tempo, e Brenda dice all’amica di essere appena tornata da un servizio giornalistico a Detroit. La ragazza le mostra due clip: la prima è quella di una città in fiamme, con i grattacieli bombardati e il rumore martellante delle sirene e degli spari in sottofondo; la seconda riporta la medesima scena, salvo per la presenza di giganteschi alieni che si aggirano tra le rovine della città. Brenda descrive così le due riprese: la prima con “Questa è Detroit”, e la seconda con “Questa è Detroit dopo l’attacco”. Come recita uno dei commenti principali sotto al video: “it’s funny because it’s true”. 

Al di là della città del Michigan come punchline nell’immaginario pubblico degli anni Duemila, solo fino al secolo scorso Detroit costituiva l’apogeo del sogno industriale americano: la Motor City era una delle più avanzate e promettenti metropoli della nazione e negli anni Cinquanta la città era la quarta più popolosa d’America dopo New York, Chicago e Philadelphia. Tuttavia, a partire dalla seconda metà del Novecento inizia a prendere forma una graduale trasformazione dell’assetto socioculturale urbano, che avvia un’irreversibile mutazione per la città. Infatti, in seguito a specifici fenomeni economici e politici, come la delocalizzazione manifatturiera del settore automobilistico a partire dagli anni Cinquanta e il massiccio trasferimento della classe media bianca dalla città alla periferia (fenomeno noto come “white flight”), la popolazione di Detroit si è ridotta del 61% dal 1950 al 2010. Nel 2012, risultava che 103 chilometri quadrati su 360 della superficie totale fossero vacanti. Ciò significa che un terzo della superficie terrena di Detroit versava in uno stato di totale abbandono.

In questa necropoli dove il degrado urbano nelle ultime decadi ha ormai spopolato e divorato interi quartieri, che forme assume tale abbandono quando viene raccontato?

Per queste ragioni, Detroit viene spesso chiamata “shrinking city”, definizione ricorrente nel descrivere aree urbane ormai deindustrializzate che hanno attraversato – o stanno ancora attraversando – importanti perdite demografiche, tracollo economico e problemi sociali come sintomi di una crisi strutturale più ampia e complessa. La traiettoria di questo declino storicamente ha coinvolto anche altre città della Rust Belt, come Pittsburgh, Cleveland e St. Louis, ma nessuna di queste ha assistito all’abbandono di aree residenziali, interi complessi industriali e l’inconvertibile declino del paesaggio urbano tanto quanto Detroit negli ultimi sessant’anni. In Isole dell’abbandono. Vita nel paesaggio post-umano, la scrittrice Cal Flyn analizza Detroit insieme ad altri siti abbandonati dalla presenza umana, come l’isola Swona e Černobyl’: ad accomunare la descrizione di questi luoghi è il ricorso al lessico biologico, con i suoi processi di decomposizione e rewilding.

Tuttavia, c’è un descrittore che ricorre nella descrizione di Detroit, ed è nella bocca dei suoi residenti locali come dell’amministrazione cittadina: blight, ossia morìa, una definizione quasi lirica dello stato di decomposizione e declino che caratterizza interi quartieri e migliaia di proprietà nel suo territorio. Allora emerge un interrogativo: in questa necropoli dove il degrado urbano nelle ultime decadi ha ormai spopolato e divorato interi quartieri, che forme assume tale abbandono quando viene raccontato?

La città che non ha mai smesso di bruciare

Riprendendo la scena di Scary Movie 4 citata all’inizio, la rappresentazione storica di Detroit sino al giorno d’oggi è un campo di contraddizioni ancora insolute. Nell’immaginario culturale di massa, Detroit è l’8 Mile Road, la città natale di Eminem, Stevie Wonder e dei Jackson Five, dell’etichetta discografica Motown o lo sfondo post-umano del videogioco Detroit Becomes Human del 2018. Non sorprenderà che sullo stato di negligenza urbana e criminalità percepita della città circolino diversi meme online, uno su tutti si intitola We cant have shit in Detroit, comparso per la prima volta su Facebook nel 2018 e che, come da titolo, suggerisce che prima o poi a Detroit ti verrà rubato tutto ciò che possiedi. Dal meme è nato un disco eponimo di Traumacore, con una tracklist che gioca su questo riferimento con tracce come “MF Stole My Fucking Porch”, “Can’t Even Smoke a Joint MF’s Steal the Damn Smoke”, “Haven’t Even Got a Physical Form Anymore MF Stole That Shit”. Insomma, nell’iperbolico immaginario memetico a Detroit nulla è al sicuro: né i soldi, né la droga, né tantomeno la tua casa o la tua persona fisica. 

Per alcuni, forse, Detroit potrebbe rievocare anche la Devil’s Night della celebre pellicola The Crow del 1994 con Brandon Lee. L’evento nel film si ispira a un fenomeno reale tipico della città del Michigan a partire dagli anni Settanta, quando, la notte prima di Halloween, il marginale vandalismo comunemente associato ai festeggiamenti iniziò a trasformarsi in veri e propri atti di distruzione verso terzi, incluso l’incendio di abitazioni e auto. In un primo momento il fenomeno interessò solo il centro città, ma si diffuse poi anche in periferia. I danni maggiori furono registrati intorno alla metà degli anni Ottanta: nel 1984, in una sola sera si registrarono 800 incendi di natura dolosa. Oltre alla tradizione incendiaria del 30 ottobre, con l’organizzazione di vere e proprie campagne di sensibilizzazione e organizzazione di volontari vigilantes, il legame tra la città e l’aumento di incendi dolosi si diffonde in quegli anni e marchia ancora oggi la storia di Detroit. In un documentario intitolato Detroit is on Fire, ampio spazio è dedicato proprio alle interviste a vigili del fuoco. Uno dei pompieri commenta: “if you listen to the radio, it’s like Detroit never stops burning”.

Tra vigilantes che appiccano incendi a case abbandonate limitrofe alla loro proprietà, stanchi che siano squattate o usate come luoghi designati per lo spaccio o il consumo di droghe, e i pyros, ossia chi brucia case abbandonate senza un’apparente ragione se non per un rush adrenalinico, Detroit è la città che non ha mai smesso di bruciare. Non solo: il problema è aggravato dalla distribuzione delle case fuori dalla città. Infatti, la presenza di abitazioni abbandonate non è uniforme, ossia non ci sono interi quartieri che versano in uno stato di abbandono, bensì la loro distribuzione è molto più sparsa, a macchia. Questo significa che se viene appiccato il fuoco a una casa abbandonata, ci sono alte probabilità che quella immediatamente limitrofa sia abitata e sia, pertanto, fortemente a rischio nella propagazione delle fiamme. 

L’elemento incendiario fa capolino in un altro film di ambientazione a Detroit, Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch, uscito nel 2013: il fuoco divora un edificio mentre una coppia di vampiri, Adam ed Eve, attraversa le strade deserte della città in auto. Eve, appena arrivata da Tangeri, osserva la schiera di edifici in rovina e si rivolge ad Adam: “Così è questa la tua natura selvaggia… Ma questo posto risorgerà ancora. C’è l’acqua qui. E quando le città del Sud saranno in fiamme, questo posto fiorirà di nuovo”.

Detroit non è un mero sfondo urbano, ma il suo paesaggio post-umano di abbandono ed estinzione diventa un soggetto attivo, pervasivo e infestante. 

Detroit come Città Mostruosa nel cinema horror 

La storia di Detroit è singolare anche nello schizofrenico contesto urbano statunitense, poiché testimonia la parabola di un’evoluzione e di una decadenza repentina e senza precedenti avvenuta in meno di un secolo. Dal simbolo del progresso americano in campo industriale, in pochi anni Detroit esperì una forte deindustrializzazione, cui seguirono svuotamento demografico, criminalità in ascesa, segregazione e tensioni razziali tra downtown e periferia, che unitamente al generale impoverimento della popolazione trasformarono la città nel suo negativo. La storia di Detroit negli ultimi sessant’anni è quella di un grande trauma urbano e sociale, dove lo skyline luminoso dei grattacieli ha lasciato posto a interi quartieri fatiscenti e fabbriche abbandonate, cattedrali di un modello produttivo e di un miraggio economico in cui non è rimasto più nessuno a credere. Una città che, in diversi quartieri, sembra una vera e propria ghost town, e dove di notte dalle orbite vuote delle case abbandonate si possono intravedere i baluginii delle torce elettriche.

È proprio a partire dalla fascinazione per il volto desolato di Detroit che, negli ultimi dieci anni, la città è diventata lo sfondo prediletto per diversi registi del cinema horror statunitense, ricorrendo alle sue contraddizioni e alla sua decadenza come milieu per mettere in scena il terrore dell’era contemporanea. Complice anche una tassa elargita dallo stato del Michigan per i finanziamenti cinematografici nell’area, infatti, dagli anni Dieci dei Duemila abbiamo assistito a un aumento di film horror, spesso indipendenti, dove Detroit non è un mero sfondo urbano, ma il suo paesaggio post-umano di abbandono ed estinzione diventa un soggetto attivo, pervasivo e infestante. 

D’altra parte, Detroit è anche la città natale di Thomas Ligotti, uno dei maggiori scrittori horror contemporanei. Proprio a proposito della città, in un’intervista del 2004 con Neddal Ayad, lo scrittore disse: Mi è sempre piaciuto lo spettacolo di case ed edifici abbandonati, fatiscenti e bruciati fino alle fondamenta. […] In molti miei racconti ho cercato di articolare un’estetica della decadenza sia nelle piccole città che nei grandi centri urbani. Faccio uguagliare il declino e la decrepitudine con una certa serenità, un abbandono sereno verso le illusioni del futuro”. La decrepitudine menzionata dallo scrittore, insieme al declino urbano e agli edifici in rovina, sono tutti elementi divenuti ormai identificativi della città, suggellati nella sua iconografia urbana nel cinema horror dell’ultima decade.

Una scena del film It follows

Uno dei film horror recenti e più paradigmatici di Detroit come Città Mostruosa è It Follows di David Mitchell, uscito nel 2014. Il film segue le vicende dell’adolescente Jay Height, che dopo un rapporto sessuale col suo ragazzo scopre di avere ereditato una maledizione, trasmissibile da persona a persona attraverso l’amplesso. La maledizione assume le molteplici forme umane di quell’”It” del titolo, che la segue inesorabilmente a piedi, sempre pronto a raggiungerla. Ma l’orrore della Detroit in It Follows non giace tanto nella maledizione e nella sua modalità di trasmissione, o nelle disparate forme antropomorfe assunte da It, bensì in un paesaggio post-capitalistico dove la presenza umana è stata del tutto sottratta. L’atemporalità della scenografia e le inquadrature che omaggiano i quartieri residenziali di John Carpenter e Wes Craven riposizionano al centro della narrazione filmica non una dimensione suburbana astratta o immaginifica, bensì una città americana reale – Detroit, appunto. 

È proprio la geografia urbana declinata nell’immagine del limes a essere centrale nella pellicola: l’orrore di It Follows è situato nel falso senso di sicurezza conferito dalla presenza illusoria di un confine, simboleggiato dalla 8 Mile, che separa la città dalla periferia. Tanto che, attraversando quel confine, per recarsi alla fabbrica abbandonata della Packard, Yara, una delle amiche di Jay, dice:

“Quando ero una bambina, i miei genitori non mi lasciavano andare più a sud della 8Mile. E non capivo cosa significasse finché non sono cresciuta e ho iniziato a capire che era il punto dove iniziava la città e finiva la periferia. E pensavo a quanto fosse schifoso e strano. Dovevo persino chiedere il permesso per andare ai festival in città con la mia migliore amica e i suoi genitori perché erano a qualche isolato oltre il confine.”

Il confine della 8 Mile è l’unico riferimento puntuale all’ambientazione geografica del film, ma è fortemente significativo in quanto la tensione tra Detroit e la periferia è parallela ai comuni meccanismi narrativi del cinema horror: la città è la casa infestata, il luogo proibito da cui fin da bambini si è ammoniti a non avvicinarsi. Questi limiti osservati fin dall’infanzia vengono, però, attraversati a più riprese dall’It che segue la protagonista: è proprio la violazione di questo confine netto l’origine dell’orrore nel film di Mitchell. Al contrario della protagonista e dei suoi amici, It non si cura dei confini di classe, etnici e geografici, attraversa da una parte all’altra il perimetro della città di Detroit senza mai stancarsi ed estinguendo qualsiasi senso di falsa sicurezza legato all’abitare in una zona residenziale di classe media. La creatura ri-mappa quei confini, li stravolge, mettendo in luce l’arbitrarietà umana e l’indefinitezza di quei medesimi limiti. 

Una scena del film It Follows

Un altro dettaglio ricorrente nella rappresentazione horror di Detroit e che non manca in It Follows è la presenza vischiosa dell’elemento naturale: acqua e piante zampillano e si infiltrano tra i crepacci e gli edifici, riappropriandosi del loro dominio sullo spazio urbano. Non a caso, nel film di Mitchell vi è la frequente presenza di piscine e laghi, così come tra i ruderi architettonici urbani si fa spazio la vegetazione rediviva. Come i confini che separano la città dalla periferia sono confusi, lo sono anche quelli tra presente e passato, allo stesso modo in cui l’elemento umano lascia lo spazio a quello non-umano o post-umano. Infatti, benché le vittime dell’It nel corso del film siano poche, a inquietare è un’assenza umana più profonda, avulsa dalla presenza della creatura, che viene rimossa ex abrupto dallo sfondo paesaggistico: le case abbandonate, le praterie urbane, gli edifici industriali in rovina sono tutti significanti di un’assenza e di una sottrazione. Anche se la città è svuotata e diretta verso l’estinzione umana, qualcosa continua a crescere e farsi spazio tra le rovine. 

Uno degli aspetti che accomuna la produzione horror ambientata a Detroit è la perdita delle illusioni e l’ossessione per la fuga di chi è rimasto, ma che si scontra con un interrogativo ricorrente: da cosa vuoi scappare? Questa domanda a vuoto viene spesso pronunciata dai teenager in questi film, che si trovano a dover affrontare un’adolescenza monca, arbitrariamente mozzata. Il salto verso l’ignoto che segna comunemente il passaggio dall’adolescenza all’età adulta sembra essere a loro precluso. In It Follows, dopo avere fatto sesso con Jeff/Hugh (il ragazzo che sotto falso nome le trasmette deliberatamente la maledizione), una semi-nuda Jay è protesa per metà fuori dall’auto, osserva i germogli spuntare tra le piastrelle di un parcheggio abbandonato e domanda: “Now that we’re old enough, where do we go?”.

Questa stessa rimozione di un qualsiasi senso di appartenenza e orizzonte futuro, confluiti in un isolamento totale nel quadro di un paesaggio abbandonato ritorna in un altro horror di ambientazione a Detroit, Don’t Breathe, diretto da Fede Álvarez e uscito nelle sale nel 2016. Nel film, un gruppo di adolescenti a Detroit commette diversi furti nel tentativo di organizzare una fuga in California; dopo avere sentito di una piccola fortuna accumulata da un veterano cieco, residente in quartiere perlopiù abbandonato, una notte irrompono in casa sua, ignari che entrare in casa dell’uomo fosse molto più facile che uscirne. Rispetto alla rappresentazione urbana in It Follows, Don’t Breathe risulta una pellicola molto più debole tanto nel suo impianto narrativo quanto estetico; tuttavia, è interessante mettere in luce come la prevalenza di edifici abbandonati e miseria contribuisca a suggellare l’iconografia di Detroit già immortalata in It Follows due anni prima.

Una scena del film Don’t Breathe

A proposito della scelta del quartiere dove è ambientata la vicenda, Álvarez commentò: “Di solito si cerca di trovare una casa spaventosa in un bel viale, ma in questo caso è l’opposto: è una via spaventosa e questa è l’unica casa mantenuta bene; con la fuga di tutti gli altri, una storia come questa poteva avvenire solo qui [a Detroit]”. Nell’horror di Álvarez, Detroit è una città condannata, da cui ormai non resta altro che la fuga: nel tentativo di rubare il denaro di un veterano cieco, il decadimento architettonico urbano è una mera estensione del declino morale della popolazione rimasta.

Questo stesso grado di deterioramento architettonico e umano che già era un tratto significativo dei film di Mitchell e Álvarez ritorna in maniera importante in un’altra pellicola horror uscita lo scorso anno – Barbarian di Zach Cregger. Il film segue Tess, che arriva a Detroit nella notte per un colloquio di lavoro previsto il giorno dopo, ma recatasi presso l’Airbnb dove ha pernottato scopre che questo è già occupato da un tale Keith. Dopo un’iniziale resistenza all’idea di fermarsi la notte in compagnia di un estraneo, ma consapevole che tutti gli hotel sono già prenotati per la presenza di una convention locale, Tess cerca di riorganizzarsi per la notte, mentre Keith le lascia la camera da letto e si sistema sul divano. Tuttavia, la mattina seguente è la casa, e non Keith, a iniziare a inquietare Tess: quest’ultima scopre infatti un tunnel in cantina, insieme a una stanza con un letto macchiato di sangue, delle corde e una telecamera.

Anche se la costruzione dei sobborghi residenziali è stata animata, in primo luogo, dal sentimento di paura e dal desiderio di isolarsi rispetto alla popolazione urbana, questi hanno finito poi per dare origine ai propri mostri.

Ma questi elementi sono solo le prime avvisaglie di un orrore ben più profondo nel film, e non limitato alla cantina della casa in Barbary Street di Brightmoor, Detroit. È interessante il fatto che, la notte dell’arrivo di Tess, l’Airbnb sia l’unico edificio illuminato di tutto il quartiere: al di là del suo perimetro si estende l’oscurità, ma Tess non sa ancora cosa si nasconde nel buio. Anche in questo film c’è, dunque, la rovina dentro la rovina: il quartiere di Brightmoor non è un inferno finzionale ma un quartiere residenziale ben preciso e noto proprio per il suo stato di declino, tanto che è stato rinominato “Blight More”. Infatti, la reale natura del quartiere si rivela a Tess il giorno dopo sotto la luce diurna, quando la donna si rende conto che l’edificio dove ha trascorso la notte è l’unico ancora stabile, circondato da ruderi, villette vittoriane col tetto infossato e con porte e finestre sfondate, sbarrate dalle assi di legno.

Come per Sterling Heights di It Follows, la storia di Brightmoor è stata segnata da una forte segregazione a maggioranza bianca nell’Età dell’Oro di Detroit: fondato nel 1922, nel 1970 i suoi residenti erano per il 98.9% bianchi degli Appalachi. Il declino del quartiere inizia alla fine degli anni Settanta, con l’emergere del fenomeno già citato e noto come “white flight”, ossia con la migrazione di famiglie afroamericane in quei quartieri e con il conseguente abbandono dello stesso dalla popolazione bianca. È evidente come non sia stata l’emigrazione nera a causare il declino di Brightmoor, bensì la risposta razzista dei residenti locali a determinarne il fato: un declino, per riprendere le definizioni a carattere organico di Cal Flyn, endemico.

Secondo questa prospettiva, c’è un’altra interpretazione nel film che vale la pena mettere in luce: il civico dell’Airbnb è 476, ossia l’anno della Caduta dell’Impero Romano d’Occidente; in questo senso, il titolo Barbarian suggerirebbe una possibile, deliberatamente fuorviante relazione di causa effetto tra l’Impero e la sua caduta, alla stregua di come il declino di Brightmoor e per estensione di Detroit non possa essere meramente imputato alla popolazione locale come capro espiatorio.

Una scena di Barbarian

Eppure, a un macro-livello, ad accomunare questi tre film horror e il rinnovato interesse per l’aspetto di abbandono e rovina di Detroit è proprio la caduta degli imperi – quello automobilistico e musicale, genitoriale, quello delle comunità di vicini e dello steccato bianco a perimetrare le case. Infatti, se nella visione tradizionale era la città americana a essere immaginata come una trappola e la periferia, al contrario, costituiva la zona sicura, It Follows, Don’t Breathe e Barbarian sono tre horror recenti che si pongono in continuità narrativa con i classici di John Carpenter e Wes Craven e ci ricordano che anche se la costruzione dei sobborghi residenziali è stata animata, in primo luogo, dal sentimento di paura e dal desiderio di isolarsi rispetto alla popolazione urbana, questi hanno finito poi per dare origine ai propri mostri. E, come per l’It di It Follows, da quel terrore puoi affannarti e scappare quanto vuoi, ma è meglio arrendersi all’idea che questo, prima o poi, finirà sempre per raggiungerti ovunque ti trovi.

Abitare la città fantasma

In Isole dell’abbandono, Cal Flyn introduce un problema etico: è possibile parlare di blight in riferimento a una comunità vivente? Cercando su Youtube “Detroit streets”, escono una serie di video simili tra loro, perlopiù riprese da dash cam che riportano titoli come Detroit most dangerous hoods/The worst parts of Detroit/A Drive through the City No-Go-Zone’s: American Urban Disaster, dove il conduttore attraversa silenziosamente in automobile quartieri fatiscenti e in apparente stato di totale abbandono. In Davanti al dolore degli altri, Susan Sontag scriveva: “È sempre un’immagine che qualcuno ha scelto; fotografare significa inquadrare, e inquadrare vuol dire escludere”. Anche in questi video, come nelle riprese a bordo della Packard in It Follows, è evidente l’intrusione di un orrore sottrattivo, dove la presenza umana è del tutto assente e dove a dominare è uno scenario post-apocalittico nel quale Detroit emerge come una vera e propria Wasteland contemporanea.

La proliferazione di questo immaginario post-umano è il sintomo di un più ampio pessimismo culturale in crescita, foraggiato dall’atomizzazione della società e dal timore che il peggio debba ancora arrivare.

In realtà, però, sono i filmati reali a fornire un elemento chiave e chiarificatore rispetto alla rappresentazione filmica della città: la presenza umana di chi chiama ancora Detroit, per necessità o volontà, “casa”. E non è un caso che quei volti umani, opachi e simili a spettri, ripresi ai lati del finestrino dell’auto solo per qualche secondo, appartengano per la maggiore parte a persone afroamericane, comunità che nel 2010 componeva l’82.2% della popolazione della città, e che nel 2020 si è ridotta al 77.2%. Proprio l’elemento di rimozione delle complessità razziali e di classe nella storia di Detroit a favore di un’estetizzazione della città come Urbe delle rovine emerge nel dibattito negli ultimi anni. Questa rimozione può essere inquadrata nel contesto del cosiddetto ruin porn. Per ruin porn (o ruin photography) si fa riferimento a un trend artistico che ha come soggetto il declino architettonico di città, edifici o infrastrutture, con una predilezione per le aree post-industriali.

Per la sua storia, Detroit rappresenta senza sorprese l’epicentro americano di tale estetica. Per esempio, un progetto fotografico come The Ruins of Detroit (2005-2010) di Yves Marchand e Romaine Meffre mirava proprio a enfatizzare il paesaggio post-umano della Detroit contemporanea, dove le rovine non sono dettagli marginali ma sono divenute una componente intrinseca della città, cannibalizzandola, e faceva esplicito riferimento a un processo di mummificazione, dove i suoi monumenti in decomposizione sono, alla stregua delle piramidi d’Egitto e del Colosseo romano, le tracce di un grande impero che fu, temporalmente molto più vicino a noi.

Tuttavia, il volume fotografico, insieme ad altri esperimenti affini, fu criticato perché la cristallizzazione atemporale e post-umana di questa iconografia detroitiana ignorava completamente l’ingente contributo che l’iniquità di razza e classe hanno giocato negli ultimi sessant’anni per trasfigurare la città fino a renderla irriconoscibile: operava cioè una semplificazione storica ed estetica imputabile solo a chi è del tutto estraneo a Detroit. Le critiche al lavoro di Marchand e Meffre e, in generale, all’approccio della ruin photography alla città di Detroit e ad altre città ex-industriali, accusano quindi l’appropriazione di uno stato di crisi urbana finalizzata alla consumazione e allo sfruttamento di un’estetica ripulita da qualsiasi coscienza sociale e politica, fino alla rimozione totale dei suoi residenti dalla sua rappresentazione spaziale.

Anche horror ambientati a Detroit come It Follows, Don’t Breathe e Barbarian sono stati accusati di avere alimentato questa estetizzazione decadente della città; in realtà, il merito di queste tre pellicole è quello di avere rivelato uno sguardo particolarmente situato nel tessuto urbano di Detroit: quello di un sobborgo a maggioranza bianca nel caso del detroitiano David Mitchell (It Follows) e quello di due estranei alla città come Fede Álvarez (Don’t Breathe) e Zach Cregger (Barbarian). A mancare ancora all’appello, però, è uno sguardo che provenga dalla downtown e che ne descriva la realtà. In ogni caso, ciò che si evince dal corpus filmico horror fino a questo momento è che Detroit si trova a un punto di incrocio dove l’arte si scontra con le ansie del nostro tempo.

Uno dei contributi più rilevanti sull’esplosione di immagini su Detroit e sulla sua dicotomia tra decadenza e sublime è Beautiful, Terrible Ruins. Detroit and the Anxiety of Decline della storica dell’arte Dora Apel. La studiosa prende in esame un’ampia selezione di prodotti audiovisivi, dalla fotografia alle pubblicità, dai video game ai documentari, mettendo in luce come la proliferazione di questo immaginario post-umano sia il sintomo di un più ampio pessimismo culturale in crescita, foraggiato dall’atomizzazione della società e dal timore che il peggio debba ancora arrivare. La rovina di Detroit ci affascina e ci respinge perché è la reale manifestazione urbana del nostro terrore, la conseguenza al grado massimalista dei tassi di disoccupazione e povertà in crescita, del cambiamento climatico, dell’incapacità di immaginare un modello post-capitalistico. La città di Detroit è altro da sé, un locus dove la fine non ha mai smesso di finire, rivelando il deterioramento di tutte le cose e immortalando un mondo in via di estinzione, che presto non sarà più e dove noi, di riflesso, non ci saremo più.