DataPunk
In questo articolo vi racconto perché, nel nostro mondo globalizzato e iperconnesso, è necessaria un’estetica punk dei dati per sentire la complessità. Perché i dati sono un media a bassa risoluzione dal carattere fantasmatico. E perché tutto questo può aiutarci a uscire dal dominio realista del calcolo e dell’estrazione in cui la nostra percezione del possibile e dell’immaginabile è bloccata.
Datameditation, COVID e ascesi
Durante le prime fasi del COVID abbiamo avviato un movimento: il Nuovo Abitare. Il primo gesto pubblico (noi li chiamiamo rituali) del Nuovo Abitare è stata la Data Meditation. Nell’epoca dell’iper- (velocità/connessione/storia/oggetti/… ), dati e informazioni nell’infosfera dividono, polarizzando computazionalmente. Nell’epoca che abitiamo – quella della plausibile insostenibilità psicologica della comunicazione, della sofferenza della comunicazione, della Digital Loneliness (Chittaro, 2019) – abbiamo deciso di iniziare dall’ascesi. Come è fatta un’esperienza di dati e informazioni che unisca? Che non eserciti il potere computazionale della classificazione, come invece è tipico dei dati e degli algoritmi?
Mentre le persone erano quotidianamente e completamente schiacciate da una comunicazione fatta a suon di bollettini di guerra degli infetti, dei contagiati, degli intubati, provocando fragilità di cui ancora oggi sentiamo distintamente gli echi, ci siamo iniziati a domandare come fosse possibile provare ad alzare lo sguardo.
Nasce così la datameditation: in una summer school internazionale che parte da Amsterdam. I dati, da processo estrattivo, diventano autorappresentazione, autobiografia: l’essere umano e l’ambiente non sono più pozzi di petrolio, da cui i dati sono estratti e inflitti sotto forma di decisioni prese nel chiuso algoritmico di chissà quale data center. Sonificati (trasformati computazionalmente in suoni), queste autobiografie di dati arrivano alle orecchie dei partecipanti. Sulla cuffia sinistra i propri dati, su quella destra i dati di un Altro. Mentre il tempo della giornata scorre, ascoltiamo noi stessi e il nostro Altro, immersi nel flusso di una musica generativa che descrive una nuova forma di autorappresentazione attraverso i dati.
Questa sincronia del sentire nel/col corpo, porta apertamente e agevolmente al confronto, all’esposizione e all’esperienza dell’altro: l’altro è lì e si sente. Alcuni partecipanti iniziano a parlare spontaneamente di data-enabled empathy, come leggiamo dai testi composti collaborativamente durante l’esperienza.
Le altre due edizioni, una al Museo MAXXI di Roma e l’altra alle università canadesi di Toronto e di York e presso l’ArtSci Salon, confermano le impressioni: oltre a proporre un processo completamente non estrattivo, datameditation è un nuovo media partecipativo e performativo che unisce.
Fin dall’inizio consideriamo i dati e la computazione come un nuovo possibile genere letterario. Fin dall’inizio proviamo ad analizzare ciò che abbiamo fatto.
I dati, anche quando stessimo parlando di Big Data, sono un “media” a bassa risoluzione. Sono fantasmatici: c’è sempre molto spazio tra un dato e l’altro. Il vuoto è altrettanto importante del pieno.
Una delle prime persone con cui parliamo è Luca Chittaro, direttore dello Human Computer Interaction Lab dell’Università di Udine e, nella stessa università, tra i principali contributi del Master di I livello in Meditazione e neuroscienze. Chittaro avvia una sorta di iniziale peer review del processo delle Data Meditation partendo dalla documentazione tecnica e dalle espressioni dei partecipanti. Il primo consiglio è di considerare se cambiare il nome: trovare un’alternativa alla “meditazione”, perché tecnicamente, questa pratica condivide solo alcuni elementi con ciò che si definisce solitamente meditazione.
Il secondo elemento che ci ha menzionato dopo ci ha letteralmente dato da pensare per i mesi successivi: il carattere fantasmatico dei dati.
I dati, anche quando stessimo parlando di Big Data, sono un “media” a bassa risoluzione. Sono fantasmatici: c’è sempre molto spazio tra un dato e l’altro. Il vuoto è altrettanto importante del pieno. Perché dando il benvenuto all’interpretazione del dato come media, proprio dalla mediologia deriviamo la nozione che questa bassa risoluzione corrisponde alla possibilità della partecipazione, all’opportunità di non essere semplicemente spettatore: questi vuoti li riempiamo noi, interpretando e performando.
Ora: il teorema del campionamento ci dice che posso sempre interamente ricostruire un segnale se ho un sufficiente numero di campioni. Messo che il segnale non abbia variazioni troppo rapide rispetto al numero e alla distribuzione dei campioni che abbiamo a disposizione (Shannon-Nyquist, 1928-1933).
In questa condizione diventa evidente come questi vuoti richiedano la partecipazione (es: per eseguire l’ennesimo campionamento occorre essere presenti e attenti/sensibili). L’unico modo di avere esperienza del cambiamento molto rapido del dato è avere una maggiore sensibilità, che corrisponde alla presenza e alla partecipazione col/nel fenomeno.
Il rischio sistematico del campionamento è che ciò che è “strano”, ciò che è “anomalo”, ciò che è queer o eerie (perturbante, da Fisher, The Weird and the Eerie 2016), rimanga fuori, invisibile, data la poca sensibilità. Se non si è immersi nel fenomeno, e quindi non aperti all’effettiva diversità che lo caratterizza, in una dimensione performativa/partecipativa e sensibile, c’è il rischio sistematico di che la diversità rimanga esclusa.
La dimensione del sentire, la dimensione della partecipazione performativa alla ritualità del dato, questo bisogno di immersione nel dato unisce profondamente i teoremi della fisica, della matematica e della statistica con i fenomeni della cultura, dell’antropologia e della psicologia.
Del reale bisogno di DataPunk.
Il discorso del sentire è centrale nel punk. A cominciare dal suono: il rumore e la velocità insopportabili entrano nella musica punk e iniziano a vendere milioni di copie di dischi. I suoni taglienti, inumani, dolorosi diventano fenomeno giovanile. Anche nella moda: piercing, spilloni da balia conficcati nelle orecchie e nelle guance. Tatuaggi, scarificazioni, fetish S/M, il pogo, lo stage diving. Arriva il punk e tutto cambia. Il sentire diventa centrale, anche a costo di farsi male.
Anche performance, come termine dell’arte e della cultura, ha un’origine collegata alla postmodernità, con quello che poi è diventato il punk. Il punk ha cominciato a mettere in sistematica difficoltà la possibilità di accumulazione e storicizzazione delle opere d’arte (e quindi, la linearità della storia) proprio tramite la performance: come si memorizza una performance? Tramite i video? Le fotografie? Da quale inquadratura? Chi decide cosa è dentro e cosa è fuori? Come si esercita il potere?
Progressivamente, gli elementi che poi metteranno in dubbio l’arte e la cultura neoliberiste, da consumare, di mercato, iniziano da qui, dal punk, con cui condividono anche estetiche e pratiche: il Do It Yourself, DIY, e l’open source che arriverà con le opere digitali.
Dalla dimensione del sentire si può partire come modalità proto-politica: che viene prima della politica, prima del logos, attraverso il sentire nella carne. Per aprire nuovi spazi, nuovi varchi, nuove e differenti ferite che non si possono ignorare e di cui, dopo, è possibile parlare. Sentire e poi discutere. La via della sensibilità, dell’estetica intesa come ciò che è esposto ai sensi.
Apriamo l’ipotesi della necessità del Data Punk.
Gli esseri umani, nella condizione iperconnessa del nostro mondo globalizzato sono costantemente esposti a forme di complessità inumana, che si manifesta attraverso la mediazione computazionale di enormi quantità e qualità di dati. Però nessuno delle dozzine di sensi, interni ed esterni, di cui sono dotati i nostri corpi, hanno alcuna sensibilità a queste quantità e qualità di dati, tantomeno alla computazione. Ci troviamo nella condizione sistematica di non poter avere esperienza del mondo, e di non riuscire a trarne senso. Il cambiamento climatico, le migrazioni, la salute delle persone, i mercati e gli altri fenomeni che derivano direttamente dalle caratteristiche del mondo iperconnesso e globalizzato dipendono da miliardi di variabili e parametri interdipendenti, dai dati e dalla computazione.
Il discorso del sentire emerge dalla domanda deleuziana, da cui nasce il punk: “cosa può fare questa tecnologia?”. In questo caso: “cosa possono fare i dati e la computazione?”. Questo passaggio dalla forma “albero” al “rizoma”, in cui non c’è la necessità della sintesi di ciò che è la complessità in cui siamo immersi, è molto collegata col sentire: non c’è sintesi possibile del dolore e del soffrire.
La complessità è sofferenza. Da questa domanda, inumana, nasce il punk, come nasce la musica elettronica. Il Punk non è un movimento enorme, ma riverbera in tutto ciò che viene dopo.
Piuttosto che di data-feminism (D’Ignazio e Klein, 2020), risalirei un po’ più indietro nel tempo, a un’ipotesi più complessa, riferendomi al bellissimo Mal d’archive di Derrida (1995), che esplora sistematicamente la connessione tra archivio e psicologia. Tanto da arrivare a ipotizzare l’esercizio della psicologia dell’archivio e nell’archivio. Questa suggestione aiuta a formalizzare i modi in cui si esercita potere attraverso l’archivio, e quindi attraverso dati e informazioni. Chi decide cosa entra e cosa esce? O quali siano le categorie e i limiti per cui si è dentro o fuori? Arrivando a formulare l’ipotesi che il grado di apertura degli archivi è direttamente proporzionale allo stato di democrazia in un contesto.
Un’ipotesi di ricerca che sembra adatta a un design concettuale efficace è che dalla sofferenza dei traumi che corrispondono a questa psicologia dell’archivio e nell’archivio (dei dati e nei dati) dipenda la nostra sofferenza. E che proprio questo tipo e modalità del soffrire (e, quindi, dell’esercizio del potere, dell’insensibilità) sia usabile per esplorare la violenza e il malessere, sì da risolverlo. Ma come si risolve la tragedia? Che, per definizione, non ha soluzione, ma solo agnizione: un riconoscimento con conseguente cambio di stato, di condizione, di modello.
Serve la sofferenza per poter togliere la mano dal fuoco.
Serve un’estetica punk per sentire la complessità.
C’è questa strana convinzione che la tecnologia sia fatta per essere usata, ma la realtà è che nasce per sentire diversamente, per diventare Altro.
Il dato come media e l’inumanità
Il punk esce fuori dalla domanda deleuziana: “cosa può fare questa tecnologia?” In questa domanda, il media viene spinto alle sue conseguenze estreme.
Un duo newyorkese chiamato Suicide. Martin Rev, uno dei componenti del duo, acquista una drum machine economica perché vuole incorporarla nelle loro performance. Ma il suono della batteria elettronica non era adatto al loro stile oscuro e affilato. Con tutta probabilità Martin Rev non ha guardato la drum machine che aveva comprato nei termini della rappresentazione, che significa che non ha guardato la macchina per tentare di ottenere qualcosa che avrebbe potuto ottenere con un batterista e la sua batteria con piatti, cassa e rullanti. Invece di chiedersi cosa imita o cerca di rappresentare la drum machine, si è posto la domanda deleuziana: cosa può fare la drum machine?
La macchina, allora, diventa non più una batteria di second’ordine, o una cosa che suona male, ma un oggetto che incorpora un insieme di capacità e di opportunità completamente nuove e differenti. Martin Rev usa la macchina esattamente per cercare un suono che un batterista umano non avrebbe mai scelto (o potuto) fare: alza al limite le battute al minuto e schiacciando pochi tasti imposta un ritmo minimalista e rapidissimo quasi inumano. Punk.
Improvvisamente la drum machine smette di essere una rappresentazione fallace di una cosa che avrebbe potuto realizzare una persona in carne e ossa, e si trasforma nelle percussioni industriali inumane che sono al centro della società, e intorno a cui si muovono il mondo, i corpi dei giovani. Tutto improvvisamente cambia.
Il suono inumano provoca sofferenza, fastidio: si sente. Questa connessione tramite la tecnologia inumana, come opportunità di sofferenza alla base delle nostre possibilità di evoluzione si osserva distintamente anche in 2001 Odissea Nello Spazio. Nella scena in cui la Scimmia lancia in alto il femore, questo roteando diventa automaticamente l’astronave. È la nascita della tecnologia come ciò che è “dopo” la carne del corpo, secondo Kubrick. Da quel momento in poi la storia dell’essere umano è la storia della coevoluzione dello scimmione e della tecnologia. Coevoluzione: l’essere umano inventa la tecnologia e la tecnologia inventa l’essere umano, e in questa relazione ecosistemica con l’inumano nasce sia la nostra evoluzione, che anche la nostra sofferenza.
C’è questa strana convinzione che la tecnologia sia fatta per essere usata, ma la realtà è che nasce per sentire diversamente, per diventare Altro.
La possibilità di sentire attraverso la tecnologia è molto collegata al punk, alla sua inumanità, al noise. In genere, la nostra morbida carne può poco contro la durezza della tecnica, per cui è facile farsi male e soffrirne, e, quindi, sentire.
Che fare qui e ora, in Italia
Pochi giorni fa, a un incontro presso l’Università di Bologna, organizzato e condotto dalla Advanced Design Unit e intitolato “From Knowledge to Wisdom and Back”, ci siamo trovati a parlare di una delle principali questioni che riguardano la comunica e l’informazione orientata ai/dai dati e, comunque, mediata dai dati e dalle piattaforme digitali (computazione): la qualità delle fonti di dati e informazioni. Questo tema è collegato a innumerevoli altri che attraversano discipline e metodologie di ricerca, e questi fenomeni prendono vari nomi a seconda delle impostazioni, degli approcci e degli orientamenti: disinformazione, misinformazione, fake news. Si tende, per esempio, ad abbandonare il termine “fake news”, perché non è quasi mai rappresentativo dei modi in in cui il fenomeno stesso si manifesta. Il “Fake” è sempre in mezzo al “Real”, che lo rende più verosimile e che fornisce “appigli di realtà” per agganciare le varie comunità polarizzate online, fornendo anche gli stimoli sociali e psicologici di “appartenenza” che così tanto contribuiscono all’efficacia di questi fenomeni.
Oggi, se non si è istruiti e competenti, è molto facile che l’ambiente informativo a cui siamo esposti diventi rapidamente tossico e psicologicamente non sostenibile. L’abbondanza delle sorgenti di informazione, la dispersione in miriadi di piccole bolle polarizzate e, a volte, molto violente, e la composizione stessa delle interfacce dei servizi di social media, che promuovono una spietata contabilizzazione delle emozioni e delle risposte emozionali, rendono abitare tutti questi spazi molto difficile e problematico. Spesso arrivando a determinare vere e proprie difficoltà a discernere tra vero e falso e/o a trovare comunità di riferimento capaci di solidarietà, empatia e, soprattutto, di generare senso per i loro partecipanti.
Come riconoscere le fonti attendibili da quelle non attendibili? Quando si prende in considerazione il fatto che ogni elemento di disinformazione si situa lungo un gradiente che va dal completamente fake al completamente real, le cose diventano ancora più complesse.
Parlando di questi temi, è uscita fuori una peculiarità tutta italiana.
In Italia abbiamo una grande tradizione che utilizza il Fake come strumento di liberazione. Per esempio con Luther Blissett, o anche con il nostro Romaeuropa.org. Erano altri tempi e, per esempio, i social network hanno completamente cambiato il loro ruolo nelle nostre società.
Il mondo del complotto non è scollegato dal mondo “reale” (il “fake” si appoggia saldamente sul “real”, stabilendo dei gradienti complessi).
Dal nostro punto di vista, il focus sulla valutazione della qualità delle sorgenti di dati è sovrastimato. Ci sembra che ci sia qualcosa che viene prima, in cui il Fake ha un ruolo possibile o almeno immaginabile come opportunità di liberazione, che non è schiacciato sulla necessità di rispondere al realismo su cui ci siamo bloccati, tanto che diventa difficile, se non impossibile, immaginare qualcosa di diverso.
Per esempio, se la data visualization fosse non una pratica del design, ma un genere letterario, si aprirebbero innumerevoli opportunità già presenti in diverse pratiche attuali (scenario design, near future design, design fiction, speculative design). Il progetto diventa qualcosa il cui scopo non è quello di funzionare e di trovare soluzioni che, come abbiamo già detto alludendo alla condizione tragica della complessità, potrebbero non esistere. Ma quello di trovare possibili agnizioni, per attivare i cambiamenti di stato. Non solo ciò che è tecnicamente fattibile, ma anche e soprattutto ciò che è preferibile, desiderabile, immaginabile: processi di scrittura collettiva sul potenziale.
I dati non sono un’entità tecnica, ma culturale. Insieme alla computazione sono parte del nostro patrimonio culturale universale. I dati e la computazione, oggi, raccolgono e raccontano le nostre abitudini, le nostre tradizioni, le forme delle nostre relazioni, sono interi generi letterari, le nostre malattie e psicosi, le forme dei nostri corpi! Sono al centro delle nostre culture.
Come il linguaggio, dati e computazione sono ambigui e lì sta uno tra i loro più grandi valori: di lasciare aperta la possibilità, il potenziale. Il dato non è mai dato. Piuttosto è sempre costruito. Il dato è ideologico: dietro il dato c’è sempre una teoria, una interpretazione del mondo, che stabilisce cosa valga la pena misurare per acquisire la sensibilità circa un fenomeno. Questo vale dai dati più semplici che registri in un’anagrafica (cose che 100 o 1000 anni dopo servono per ricercare la storia). Fino a quelli più complessi: cosa vuol dire misurare la povertà? Mancanza di soldi? Di tempo? Di senso? Di accesso alle opportunità e alle relazioni? Di istruzione?
Il dato non è mai dato. Semmai è sempre datur: da dare.
L’etimologia latina di fingere sta nel concetto del creare.
Lo stesso vale per la musica, per la poesia, per la pittura, per la data visualization e per tutti gli artefatti culturali che sono passibili di interpretazione. Interpretare vuole dire sia attribuire un significato, sia appropriarsi di qualcosa per condurre la propria autorappresentazione.
Anche se un dato/libro viene interpretato male, non è detto che la reinterpretazione sia da buttare, o che non nasconda delle opportunità. Ciò che è certo è che una autorappresentazione è sempre al centro di una relazione tra un agente di qualche tipo (non necessariamente umano) e un media/una tecnologia.
Si può immaginare di iniziare a usare questi tipi di concetti (il fake, il datur, l’interpretazione) come paradigma, come metodo della conoscenza.
Per continuare a sentire, i dati ci devono entrare nella pelle. Come piercing.
Un’estetica punk dei dati
La vita puzza: la vita emana odore cattivo. Ci dobbiamo sempre ricordare costantemente che la puzza non va scartata: perché è alla base della vita. Ciò che ci dà fastidio rappresenta la nostra rara e preziosa opportunità di sentire.
Data as a media: McLuhan nel suo Understanding Media ha un’intera sezione dedicata a come le culture alfabetiche tentano sistematicamente di eliminare l’odore del proprio corpo, o l’odore inaccettabile. Questa è una cosa che che possiamo immaginare di tenere a mente continuamente. Il ruolo del rumore nell’evoluzione: noi evolviamo tramite il rumore. Tramite l’errore.
La computazione ha bisogno del punk, come l’evoluzione dell’errore. Per continuare a sentire, i dati ci devono entrare nella pelle. Come piercing.
Questa società morbosa che cerca di prevedere quanto più precisamente possibile, a rischio 0, a rumore 0, eventualmente a puzza 0, mira sistematicamente in questo senso a terminare la vita.
In questi giorni di guerra e pandemia, lo vediamo con esattezza nella cronaca: dalla geopolitica alla gestione dell’emergenza sanitaria, stiamo raccogliendo ciò che abbiamo seminato.
Uno speciale ringraziamento va a mia moglie Oriana che senza battere ciglio mi ha permesso di svegliarmi oggi come tante altre volte con il regalo di un testo editato e più bello di come l’avevo lasciato. In questa nostra condizione di ricerca performativa continua che è la vita che abbiamo scelto insieme.