Dalla diplomazia dello shitposting alla 3a Guerra Mondiale
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Il 22 febbraio 2022, pochi giorni prima che l’esercito di Putin dia ufficialmente inizio all’invasione dell’Ucraina, l’ambasciata statunitense a Kiev pubblica un meme – quattro foto di chiese ortodosse a Kiev, ciascuna riportante la data della sua fondazione (996, 1011, 1070, 1108); sotto le stesse date, la scritta «Mosca» e l’immagine di una foresta ripetuta quattro volte. Insomma, una specie di riedizione del celebre aforisma di Corrado Guzzanti in Fascisti su Marte: «Inglesi: gente che andava nuda a caccia di marmotte quando noi già si accoltellava Giulio Cesare», con i russi al posto degli inglesi e l’edificazione di sontuosi luoghi di culto al posto del tirannicidio
L’idea dietro al meme è quella di rispondere in modo arguto allo stesso Putin, che il giorno prima, in un lungo discorso alla nazione, ha praticamente negato l’esistenza storica dello stato ucraino, affermando che l’Ucraina non ha mai avuto alcuna tradizione nazionale, che non sia altro che una finzione politica creata dai bolscevichi nel 1917 allo scopo di dividere il popolo russo, e che dunque non abbia nemmeno senso parlare di «nazionalismo ucraino». In altre parole: un classico esempio di revisionismo storico, strumentale a preparare il terreno per il conflitto che di lì a poco la Russia avrebbe scatenato. Purtroppo, il meme con cui l’ambasciata statunitense prova a replicare al discorso del presidente russo si rivela tutto tranne che la bella trollata che pensava di essere: nel tentativo di celebrare il glorioso passato medievale dell’Ucraina finisce per celebrare l’antica Rus di Kiev, da Putin stesso considerata il punto d’origine dell’intera cultura russa, portando quindi acqua al mulino del nemico. E poi c’è l’ironia – sottolineata dal giornalista dell’Economist Gregg Carlstrom – di un meme che vuole risultare spavaldo, proveniente però dall’account ufficiale di un’ambasciata che dieci giorni prima è stata evacuata proprio per paura di un’invasione russa, «il culmine di diversi trend di lunga durata della politica estera americana, nessuno dei quali positivo».
Come ha scritto il saggista Tanner Greer, meme di questo genere «sono il prodotto di una cultura che ritwitta più di quanto non legga». Nella logica di internet e delle piattaforme, l’influenza viene misurata in termini puramente quantitativi: si compete a colpi di battute sagaci sul campo di battaglia del «discorso» e della «narrazione», si fa punto quando si arriva per primi e si misura la vittoria in termini di like, condivisioni ed esposizione, «cancellando» così il nemico. Non è una questione di usare le parole giuste, quanto di usare qualsiasi parola al momento giusto.
Il meme dell’ambasciata statunitense, che si piega completamente a tale logica e che per questo fallisce nel suo intento, è un esempio di quella che è stata definita in modo efficace shitpost diplomacy, «diplomazia dello shitposting». Nel linguaggio di internet, lo shitposting è un contenuto online ironico e volutamente di scarsa qualità, che può essere usato per far deragliare le discussioni o semplicemente per causare il maggior numero di reazioni possibili con il minor sforzo. Un contenuto volutamente incomprensibile e decontestualizzato, oppure semplicemente buttato lì, a metà fra provocazione dadaista e stupidità fine a se stessa. Negli ultimi anni, man mano che internet è andata fondendosi sempre più spesso col mondo reale, anche questo tipo di contenuto ha seguito la stessa traiettoria, cominciando a sua volta a contaminare la realtà fisica – compresa la politica. Il risultato è che, così come la diffusione di internet e dei social network ha cambiato il linguaggio delle nostre esistenze offline, portandoci a usare parole adattate dallo slang online e a pensare in termini di meme, allo stesso modo ha cambiato il linguaggio in cui si esprimono i partecipanti al sistema globale – quello della diplomazia e della comunicazione tra Stati.
Sarebbe però inesatto sostenere che tale contaminazione sia cominciata non appena la politica abbracciò definitivamente i social network, più o meno all’alba degli anni Dieci del XXI secolo. Certo, da quel momento in poi la discesa lungo il piano inclinato delle regole proprie di internet era cominciata; ma in realtà, agli inizi, più che meme e shitposting (vale a dire le espressioni native di quelle nicchie che passano più tempo online e meglio padroneggiano il linguaggio internettiano), a emergere fu la cosiddetta twiplomacy – da Twitter, il social network più usato da politici, funzionari ed enti governativi. Non fu cosa da poco: la twiplomacy, si legge in un’analisi del fenomeno pubblicata nel 2020, rompeva «gli argini rappresentati dalle limitazioni della diplomazia tradizionale, che si basa su un approccio burocratico, dall’alto in basso, per quanto riguarda le negoziazioni e la diffusione di informazioni». In più, mancava di quella formalità che la diplomazia era riuscita a mantenere pur cambiando i mezzi con cui veniva condotta, perché adesso a partecipare alla conversazione non erano più solo i funzionari direttamente coinvolti in un negoziato, ma tutta l’opinione pubblica, che li seguiva e che in una certa misura poteva interagire con loro. Come ci insegna la fisica quantistica, la sola presenza di un osservatore cambia ciò che succede nel sistema che si osserva. La presenza dell’occhio dell’opinione pubblica – che, pur potendo replicare, menzionare e condividere, rimane sostanzialmente mera osservatrice delle interazioni tra i protagonisti del sistema mondo – cambia il funzionamento del sistema stesso.
Già a novembre 2016, notava Esquire che «le prese in giro su internet stanno emergendo come una tecnica politica legittima: lo shitposting. Forse l’elezione del 2020 sarà tutta shitposting».
Siamo già oltre la diplomazia novecentesca, ma non siamo ancora all’ambasciata americana che cerca di trollare i russi a colpi di meme. Il punto di svolta che prelude a questo ulteriore passaggio può essere identificato ancora una volta nel solito annus mirabilis (o horribilis, se preferite), il 2016, e nell’evento per cui quell’anno è passato alla storia, l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. È in effetti al 2016 che rislagono i primi esempi di uso politico dello shitposting in una competizione elettorale, per opera di quelle comunità online della destra americana che sarebbero balzate agli onori delle cronache con il termine-ombrello di «alt-right».
Già a novembre 2016, notava Esquire che «le prese in giro su internet stanno emergendo come una tecnica politica legittima: lo shitposting. Forse l’elezione del 2020 sarà tutta shitposting». Si trattava però di un fenomeno ancora limitato, la cui direzione era insindacabilmente dal basso verso l’alto. Per quanto la barriera che li separava si stesse assottigliando sempre più, il linguaggio di internet e quello della politica erano ancora separati. Erano le comunità online di sostenitori alt-right di Donald Trump a shitpostare in suo nome; certo, politici, funzionari governativi e persino interi Stati ricorrevano sempre più spesso a internet per i loro scopi diplomatici, ma lo facevano ancora in modo abbastanza ordinato: quello che è probabilmente il primo flame tra Stati nazionali su un social network, avvenuto nel 2014 proprio tra Russia e Ucraina in occasione dell’annessione russa della Crimea, si era sostanzialmente limitato al tentativo, da parte dell’account ufficiale del Ministero degli Esteri russo, di dirottare un hashtag lanciato dal Dipartimento di Stato statunitense in sostegno dell’Ucraina.
C’è un’espressione dello slang di internet che esprime bene in cosa consiste invece la svolta avvenuta nel 2016: «Essere troppo online» vuol dire stare così tanto dentro il mondo virtuale da perdere il contatto con il mondo «lì fuori»; quando si è «troppo online» si disimparano le regole di comportamento del mondo reale col risultato che, quando nel mondo reale finalmente ci si torna, lo si fa seguendo le regole di comportamento valide su internet. Fino al 2016, a essere troppo online erano ancora soltanto i membri dell’alt-right a cui piaceva Donald Trump; la politica aveva imparato a usare i social, ma ancora si comportava secondo le regole del mondo lì fuori. Ma dopo un decennio di lenta maturazione, ecco che nel 2016 l’incontro tra il nuovo mezzo tecnologico e un mondo in procinto di sprofondare nel caos globale produce una scintilla: sempre lui, Donald Trump. Un tipo che, dopo aver vinto le elezioni grazie ai meme, shitposta dall’account ufficiale del presidente degli Stati Uniti, nonché il primo presidente degli Stati Uniti a farsi cacciare da un social network – «il più grande shitposter di sempre», nella definizione del giornalista Jake Hanrahan nel giorno del ban di Trump da Twitter.
Oggi che gli Stati litigano tra loro a colpi di meme, il fatto che il sistema mondiale parli un nuovo linguaggio è qualcosa che diamo quasi per scontato. Fino a pochi anni fa però non era affatto così, e anche in questo caso il trumpismo è stato un grande laboratorio. Proprio dalla bocca – o meglio, dalle dita tozze sulla tastiera – di Donald Trump è stata pronunciata quella che si può considerare a buon giudizio la prima parola del nuovo linguaggio oramai parlato dal sistema mondiale attuale: «covfefe».
Come le prime parole pronunciate dai neonati, anche «covfefe» non ha apparentemente senso; in realtà, si tratta della storpiatura della parola coverage, «copertura» nel senso di «copertura stampa». La sua prima apparizione risale al 31 maggio 2017, sei minuti esatti dopo la mezzanotte, all’interno di un tweet di Trump che consiste in una sola frase interrotta a metà: «Despite the constant negative press covfefe», letteralmente «Nonostante la costante covfefe negativa della stampa». Trump avrebbe cancellato il tweet qualche ora dopo, dando però a intendere che non si era trattato di un errore ma di qualcosa di intenzionale (il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer dirà che «il presidente e un piccolo gruppo di persone sanno esattamente cosa intende»); quello che però è interessante, è proprio come la coscienza collettiva del periodo abbia effettivamente percepito il refuso trumpiano come il primo vagito di un mondo nuovo. Se insomma l’elezione di Trump è il punto di divergenza nell’ucronia in cui viviamo, il momento in cui la realtà ha ceduto il passo a una linea temporale sbagliata, allora la prima parola che questo mondo ha pronunciato nella sua nuova lingua è senza dubbio «covfefe».
In breve, il termine comincia a comparire sui cartelli delle manifestazioni anti-Trump, diventa oggetto di un grande numero di paper sull’uso dei social da parte del presidente USA e sui suoi effetti sulla cultura statunitense, viene preso come termine di paragone per le gaffe dei capi di Stato di tutto il mondo, fino addirittura a dare il nome a un disegno di legge per l’archiviazione dei post social dei presidenti degli Stati Uniti – il COVFEFE Act (ufficialmente acronimo di «Communications Over Various Feeds Electronically for Engagement Act»). Già nel 2018, scriveva Esquire, «è difficile immaginare oggi un dizionario senza “covfefe”». All’epoca, i commentatori si dividono come di consueto in due campi: c’è chi si vergogna dello stile comunicativo di Trump – ridendone nervosamente o considerandolo un cafone – e c’è chi invece ne elogia la capacità di rompere gli schemi, di violare regole di comportamento considerate restrittive e ipocrite. Per i primi il «covfefe» è la parola pronunciata male di un bambino che deve ancora apprendere il linguaggio della diplomazia, per i secondi è una parola pronunciata male apposta da un adulto che quel linguaggio non lo vuole usare, al punto da fingersi un bambino così da meglio burlarsene.
Gli uni lo esecrano, gli altri lo elogiano: ma il punto è che il «covfefe» trumpiano diventa parte del discorso, un motivo di discussione. Nonostante, in sé, non abbia alcun senso, il primo vagito emesso dal caos globale si rivela infine una parola di senso compiuto, comprensibile. Da lì in poi, la lingua nata dal «covfefe» servirà solo praticarla, continuare a parlarla, prenderci confidenza. Ed è proprio quello che, negli Stati Uniti, succederà con la presidenza Trump: per quattro anni, a dominare le cronache politiche statunitensi – e quindi, di riflesso, dell’Occidente intero – è il feed di Twitter di un presidente che scrive cose come «non ho mai visto una persona magra bere Coca-Cola light».
Col «covfefe» è come se, a un ricevimento elegante, il padrone di casa si presentasse ruttando a tavola e mangiando con le mani, proprio nel momento in cui i commensali, parlando sottovoce tra di loro, già stanno discutendo della possibilità di abbandonare le vetuste regole imposte dalla forchetta e dal galateo. Da quel momento, tutta una serie di fenomeni che da tempo covavano sotto la superficie, sono sdoganati. Le regole di buona condotta del sistema internazionale vengono sistematicamente violate, mostrate nella loro astrattezza, smascherate nel loro essere convenzioni che esistono nella mente di chi vi aderisce e solo fintanto che tutti vi aderiscono. Il risultato è che quelle che prima erano boutade diventano comportamenti accettabili, che i casi particolari si trasformano in norma. Cambia il linguaggio con cui parlano i protagonisti sulla scena globale: la buona educazione cessa di essere una caratteristica fondamentale nei rapporti diplomatici tra i membri del sistema mondiale. Adesso si può ruttare a tavola e mangiare con le mani.
Se, per dirla con Wittgenstein, il significato di una parola deriva dalla somma dei suoi usi, il primo momento in cui la lingua nata dal covfefe dà forma a una vera comunità di parlanti globale, traducendosi così una conversazione a tutti gli effetti, può essere individuato nelle schermaglie diplomatiche – ovviamente via social – tra Stati Uniti da una parte e Iran dall’altra. La notte del 3 gennaio 2020, il generale iraniano Qasem Soleimani – capo della Forza Quds, un’unità speciale del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (IRGC) e tra i personaggi più importanti dell’intero Medio Oriente (era stato, per esempio, uno dei principali architetti della vittoria del governo di Bashar al-Assad nella guerra civile siriana) – viene assassinato da un raid americano nei pressi dell’aeroporto di Baghdad. È un evento di cui oggi non si riesce a comprendere davvero l’impatto, visto che di lì a un mese il mondo sarebbe stato travolto dalla pandemia di Covid, ma che sul momento viene percepito come un vero e proprio spartiacque per la storia mediorientale: solo per dare un’idea del clima del periodo, nelle ore successive all’assassinio su Twitter va in tendenza l’hashtag WWIII, «terza guerra mondiale».
L’attacco americano che uccide Soleimani arriva al termine di una serie di tensioni, culminate nell’invasione dell’ambasciata americana a Baghdad da parte di una folla filoiraniana e nel lancio di missili su una base americana in Iraq da parte della Kataib Hezbollah, una milizia sciita irachena sostenuta dall’Iran. Ma arriva anche al termine di una lunga escalation di shitpost diplomacy condotta a colpi di meme tra Iran e Stati Uniti: già nel novembre 2018, per annunciare nuove sanzioni all’Iran, Trump aveva postato su Twitter un finto manifesto della popolare serie tv Game of Thrones in cui il celebre motto «winter is coming» diventa «sanctions are coming». Poco dopo – mentre HBO, la rete produttrice della serie, chiede di non usare i propri marchi per scopi politici – proprio Soleimani risponde su Instagram con un altro poster nello stesso stile, stavolta con lui stesso nei panni dell’eroe di Game of Thrones Ned Stark e la scritta «I will stand against you», mi opporrò a te.
Tra le schermaglie a colpi di meme e il bombardamento col il drone su Soleimani passa un anno intero. Ma dopo l’assassinio del generale iraniano, Stati Uniti e Iran non tardano a rispolverare lo stesso linguaggio: per festeggiare la morte di Soleimani, Donald Trump posta su Twitter una bandiera americana; dopo l’unica vera rappresaglia militare iraniana – il lancio di missili contro un’altra base militare americana in Iraq, un’azione limitata e dal valore principalmente simbolico – il politico e diplomatico iraniano Saeed Jalili fa il verso al tweet di Trump e posta una bandiera iraniana. Lo stesso messaggio di Trump viene trasformato da alcuni sostenitori di Hezbollah, il partito-milizia sciita libanese con stretti legami con l’Iran, in una gif animata raffigurante un soldato americano che passa attraverso il tweet di Trump ed esce dall’altra parte sotto forma di bara coperta dalla bandiera a stelle e strisce. Mentre l’account Twitter di Ali Khamenei, Guida suprema dell’Iran, posta una foto di Trump sul cui volto viene photoshoppato il marchio rosso di uno schiaffo.
Da allora i casi di questo genere si fanno sempre più frequenti, al punto da smettere progressivamente di attirare più di tanto l’attenzione. Del resto, una volta che il padrone di casa ha ruttato a tavola e mangiato con le mani, anche gli ospiti si sentono di diritto di imitarlo; una volta che Stati Uniti e Iran hanno gestito a colpi di insulti sui social quella che, vista con gli occhi del mondo di ieri, sembrava una gravissima crisi diplomatica con il potenziale di mettere a rischio la pace e l’esistenza stessa della civiltà («terza guerra mondiale!»), quale altro linguaggio resta per gestire le relazioni diplomatiche tra paesi? Altri attori del sistema mondiale cominciano quindi ad adottarlo, e l’uso sempre più frequente dell’idioma nato dal covfefe lo rende sempre meno alieno. In un certo senso il trumpismo, esponendoci in maniera tanto insistita al suo vocabolario, ci ha come immunizzati nei suoi confronti, accelarando il processo di normalizzazione. Da questo punto di vista, la famigerata sospensione di Trump da Twitter, arrivata al termine della sua presidenza come punizione per aver postato messaggi che incitavano alla violenza contro il movimento antirazzista Black Lives Matter, è il classico tentativo di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati.
Così, quando nel maggio 2021 Israele lancia una campagna di bombardamenti su Gaza in risposta al lancio di razzi da parte delle fazioni della resistenza palestinese, le operazioni militari vengono accompagnate da una strategia di comunicazione perfettamente in linea con il nuovo linguaggio della politica internazionale, e in pochi se ne stupiscono. L’account ufficiale di Israele, gestito dal team per la diplomazia digitale del Ministero degli Esteri, abbandona in quei giorni il solito tono neutro e professionale per abbracciare una retorica degna del Tumblr di un’adolescente: «È stata una notte difficile per noi, siamo esausti dopo aver passato ore nei rifugi antiaerei, ma svegliarci e trovare così tanti messaggi di supporto da voi ragazzi ci aiuta. Grazie <3», recita un tweet, mentre un intero thread, ancora su Twitter, si compone di soli emoji di razzi (11 in tutto), ciascuno dei quali vorrebbe rappresentare un missile sparato da Gaza su Israele con l’intenzione di uccidere. A rendere interessante il caso israeliano è che, diversamente da quanto accaduto in passato, a parlare la lingua del covfefe non è più l’account di questo o quell’esponente politico – Trump o Soleimani, o chi per loro – ma l’account ufficiale di un paese intero. Il nuovo idioma non è più imputabile all’inventiva di un singolo personaggio pubblico, ma diventa la lingua delle stesse istituzioni.
A farci rendere conto per la prima volta della profondità del cambiamento è l’insieme di crescenti tensioni poi culminate nella guerra tra Russia e Ucraina nel 2022.
Da sgraziato elefante nella cristalleria della diplomazia vecchio stampo, la shitpost diplomacy può ormai contare su un suo preciso status. Ed è quando raggiunge il suo status che davvero ci accorgiamo della sua esistenza. Di fronte a Donald Trump e al suo «covfefe», di fronte alle schermaglie tra Stati Uniti e Iran a colpi di meme, il mondo dapprima ha reagito ghignando, sottolineando il carattere grottesco degli episodi alla stregua di uno stunt pubblicitario che diventa un po’ meno arguto ogni volta che viene ripetuto. Solo quando questo linguaggio diventa corrente, solo quando lo shitposting non viene più utilizzato per attirare l’attenzione ma si rivela come puro mezzo espressivo, lo percepiamo finalmente come parte della nostra realtà. E a farci rendere conto per la prima volta della profondità del cambiamento è l’insieme di crescenti tensioni poi culminate nella guerra tra Russia e Ucraina nel 2022.
Gli account delle due nazioni già da tempo erano in prima fila per quanto riguarda l’uso del nuovo linguaggio globale, e si potrebbero citare numerosi esempi delle loro schermaglie social – forse la più surreale, avvenuta nel maggio 2021, è quella in cui Russia e Ucraina litifano per il possesso della Crimea usando un video con protagonista un gattino e ricorrendo a espressioni come «cringe». Anche in quei casi, la reazione degli utenti fu quella di ridere del drama, sottolineare quanto tutto fosse grottesco e assurdo, e passare oltre. Fine. Tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022 qualcosa invece cambia: i rapporti tra i due paesi si complicano al punto che la Russia minaccia di invadere l’Ucraina, e a Kiev (come in tutto l’Occidente) l’aria si fa sempre più pesante. Come già in passato, l’account ufficiale dell’Ucraina torna a postare dei meme antirussi – e stavolta, vedendoli, il mondo non pensa più a «frecciatine» bizzarre ma sostanzialmente innocue. Non si tratta più di un tentativo di catturare l’attenzione sfruttando le dinamiche di internet, non è più uno stunt pubblicitario simile a quei goffi tentativi dei brand di usare i social in modo nativo per il proprio marketing digitale: l’Ucraina posta dei meme, sì – ma dietro i meme c’è una concreta, e potenzialmente devastante, minaccia militare.
Improvvisamente, in quelle schermaglie via Twitter non c’era più molto di divertente; non si poteva più ridere del drama, pensare a quanto fosse grottesco e passare oltre. Subito dopo l’inizio dell’invasione, l’account Twitter ufficiale dell’Ucraina – @Ukraine – posta una vignetta con Hitler che dà un buffetto a Putin, come per dirgli bravo; ma nel tweet immediatamente successivo, a essere puntualizzato è che «Questo non è un meme, ma la nostra e la tua realtà a partire da oggi».
Come scrive il Washington Post, l’account @Ukraine diventa «una sorta di finestra su uno spirito del tempo» intriso di ironia e humor nero – e non è uno spirito del tempo circoscrivibile all’Ucraina, ma riguarda un intero sistema mondiale oramai nel caos. Secondo la persona che gestisce il profilo su Twitter, che per ovvi motivi di sicurezza ha scelto di rimanere anonima, l’idea è quella di usare @Ukraine come se fosse l’account personale di «una persona genuinamente buona che ne ha passate tante nel passato, è riuscita a superare le difficoltà, e come risultato ha sviluppato questo tipo speciale di senso dell’umorismo: nero e insolente».
L’account @Ukraine viene aperto nel 2016 su iniziativa di Yarema Dukh, all’epoca membra dell’ufficio stampa della presidenza ucraina, che al terzo anno di guerra civile tra esercito ucraino e separatisti filorussi del Donbass cercava un modo di mantenere alta l’attenzione internazionale sulla questione. Dopo un inizio formale per prendere le misure, ecco che si trasforma in un canale il cui unico obiettivo è quello di blastare la Russia. Il battesimo del fuoco in questo senso risale al maggio 2017 quando, rispondendo a un tweet dell’account ufficiale @Russia in cui si esprime orgoglio per la storia comune di Ucraina, Russia e Bielorussia «che dovrebbe unire le nostre nazioni, non dividerle», @Ukraine posta la famosa gif dei Simpson in cui il rappresentante della Russia all’ONU, con una risata malvagia, annuncia il ritorno dell’Unione Sovietica, scrivendo: «non cambi proprio mai, vero?». La schermaglia diventa virale – resta in effetti uno dei primissimi casi di shitpost diplomacy – e convince i gestori dell’account di essere sulla strada giusta: attirando l’attenzione mondiale sulle frecciatine tra Ucraina e Russia, costringono i media internazionali a parlarne e, parlandone, a far emergere anche dei motivi di tale inimicizia – conflitto in Donbass in primis.
La svolta nell’utilizzo dell’account permette alla propaganda ucraina di raggiungere un’esposizione altrimenti impensabile: il meme sui vari tipi di mal di testa – causati da emicrania, ipertensione, stress e dal confinare con la Russia – viene visualizzato da 55 milioni di utenti, diventando il singolo contenuto più virale dell’account. «Avevamo un obiettivo molto pratico da raggiungere con questo meme, ovvero spiegare a un pubblico vasto e distante che qui il problema è la Russia, non l’Ucraina, l’Occidente, gli Stati Uniti, la NATO, gli alieni o qualcun altro. Il meme l’ha fatto perfettamente, comunicando un messaggio molto semplice ma importante: “la Russia è il mal di testa, nell’escalation in corso è la Russia il problema”».
Finché meme, shitpost e uso disinvolto dei social provenivano dagli account di singoli politici, era relativamente facile abituarcisi, perché era più facile collegare l’uso di quel linguaggio a una singola persona: Donald Trump sarà anche il presidente degli Stati Uniti, ma guarda Game of Thrones come me e te, e di conseguenza usa quell’immaginario per comunicare. Persino quando shitposting e simili sono diventati la lingua utilizzata da account ufficiali come quello di Israele, assorbire la novità fu relativamente facile: dopotutto si trattava di qualcosa che avevamo già visto fare ai brand, e l’account Twitter di Israele non è altro che la vetrina del brand Israele. Un discorso simile vale per le stesse schermaglie social tra Russia e Ucraina iniziate nel 2017, che, pur ottenendo una certa diffusione, agli inizi non sembrarono indicare un salto di qualità degno di nota: certo, erano stranianti, ma a loro modo erano paragonabili alle schermaglie su Twitter tra McDonald’s e Burger King – qualcosa di già visto che viene trasportato in un altro contesto, dalla competizione tra aziende alla competizione tra Stati. La differenza però è che le schermaglie tra McDonald’s e Burger King non si sono mai trasformate in colonne di mezzi militari marchiati con una M gialla che invadono un parcheggio dove vengono serviti i Whopper.