Cattedrale in fiamme
Non riesco a respirare perché un poliziotto mi preme il ginocchio sul collo, la testa schiacciata sull’asfalto fino a farmi sanguinare il naso, l’asfissia che mi toglie il fiato e alla fine mi uccide.
Non riesco a respirare perché questa mascherina che perenne porto sul volto mi fa boccheggiare, e ogni passo è un ansito d’affanno, ogni movimento un sospiro strozzato.
Non riesco a respirare perché l’aria è una merda, attorno tutto si è fermato tranne la CO2, che non ha rispettato alcuna interruzione, che non ha aspettato nessuna ripartenza.
Non riesco a respirare perché non ho più tempo, le notifiche si accumulano sul mio smartphone, i webinar sono venuti a scovarmi fin dentro al cesso di casa, le videoconferenze le faccio in mutande perché mi sono svegliato cinque minuti fa.
«Il fuoco verrà / Giudicherà ogni cosa / e la comprenderà» scrive su Facebook l’amico Tiziano Cancelli citando Eraclito, a commento delle notizie che arrivano da Minneapolis. I manifestanti hanno dato alle fiamme un commissariato di polizia e le immagini del rogo sono assieme solenni e spettacolari. In una strana associazione involontaria, mi tornano alla mente le istantanee dell’incendio che l’anno scorso semidistrusse Notre Dame: i due eventi in comune non hanno nulla, ma un commissariato avvolto dal fuoco è pur sempre una cattedrale in fiamme. «Quando l’ora venne, dalle parole passarono ai fatti», cantavano i Coil nel 1984, in un brano intitolato per l’appunto «Cathedral in Flames»: cinque minuti di nenie angosciose, fanfare dissonanti e tamburi da giorno del giudizio che si concludono così: «una volta tornati a respirare, i giovani si contorsero nella pioggia dorata che sulle loro carni incise le parole: “il paradiso attende all’ombra delle spade”».
La «Cathedral in Flames» dei Coil può essere letta come il resoconto di un rito di iniziazione occulta o come la cronaca di un’antica jacquerie. L’incendio di Minneapolis aggiorna il repertorio di immagini che per tutti gli anni Dieci abbiamo collezionato pescando dalle insurrezioni che a cadenza regolare hanno squassato il globo, ma al tempo stesso lo proiettano in una dimensione nuova. Il decennio che si era aperto con le sollevazioni di Tunisi e del Cairo, si era concluso coi manifestanti che da Parigi a Hong Kong passando per Santiago riempivano le piazze in un tripudio di corpi in rivolta. Il 2020 si è aperto con la subitanea scomparsa di quegli stessi corpi, di colpo invisibilizzati dal morbo che da Wuhan in poi ha inaugurato un’era di isolamento, paura del contatto e distanziamento sociale. Gli spazi che fino a poche settimane prima erano stati teatro di cori, urla e sommosse, si sono riscoperti di colpo spettrali, i corpi tramutati in fantasmi. Ma adesso i fantasmi ritornano, e la loro furia pare tanto moltiplicata quanto condannata a una pronta ricacciata negli inferi. È un dettaglio su cui è difficile sorvolare: scendendo in strada e scagliandosi a frotte contro le cattedrali dell’abuso e del potere, i manifestanti di Minneapolis sfidano non solo la polizia, ma anche il contagio – che negli Stati Uniti, lo sappiamo, uccide perlopiù la stessa popolazione afroamericana preventivamente condannata dalla segregazione. Forse è troppo presto per dirlo, ma tra le pieghe dei fatti di Minneapolis riecheggia agghiacciante l’aut-aut che da subito è aleggiato sulla cosiddetta «nuova normalità» della pandemia: morire di fame o morire di virus? Morire per mano del flagello, o morire per mano della stessa vita a cui siamo condannati?
È un’opzione che, per quanto sulla carta terrificante, la storia dell’umanità conosce bene. La celeberrima Crisi del Trecento che incendiò l’Europa del XIV secolo è forse il primo e più ovvio termine di paragone: la jacquerie del 1358 in Francia, la rivolta dei Ciompi in Italia, la rivolta dei contadini in Inghilterra, avvennero tutte in un contesto in cui a infuriare erano carestia e Peste Nera. D’altronde, il parallelo tra era contemporanea e Medioevo ricorre da tempo nei commenti sul nuovo ordine destinato a soppiantare l’ormai esausto consensus neoliberale; e se è vero che, come notava Umberto Eco nel lontano 1972, ogni epoca ha amato paragonarsi ai Secoli Bui, è anche vero che arrivati a questo punto la combinazione di neofeudalesimo prossimo venturo, rivolte del pane e pandemia dilagante, delle corde le fa risuonare.
Un paio di anni fa notavo come, quantomeno nel campo delle arti e delle estetiche contemporanee, stesse prendendo piede un immaginario futur-gotico in cui convivevano apertamente ansia technoide e rimandi alla Dark Age par excellence – il titolo del pezzo era, guarda tu, Il medioevo digitale. Nel 2019, il manifestante cileno agghindato come un cavaliere con tanto di scudo, elmo e armatura, e i rivoltosi di Hong Kong che si scontravano con la polizia a furia di catapulte, lance, archi e frecce, mi colpirono come l’incarnazione di un sentimento che da inconscio diventava a quel punto esplicito: se quella era la generazione cresciuta in pieno «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo», e se il capitalismo per come lo conosciamo è ormai arrivato alla sua fase terminale, a intervenire è una sorta di constatazione dal sapore squisitamente millenarista: la fine del mondo è arrivata per davvero. E quale epoca storica incarna per antonomasia la fine del mondo se non proprio quel medioevo – immaginario o reale, poco importa – che ci viene dalla secolare narrazione sull’«era oscura» che avrebbe preceduto la «luce» della modernità capitalista?
All’orizzonte si profila un futuro dominato da sovrani invisibili e spietati feudatari che dominano masse sterminate di servi della gleba, il pianeta corre spedito verso un’Apocalisse che per l’occasione prende le fattezze della crisi climatica, a imperversare è un flagello che con logica divina ricaccia l’umano a una condizione di terrore e subalternità, mentre gli occulti sortilegi di quella forma di magia nera che chiamiamo tecnologia si impossessano dei nostri corpi indipendentemente dalla nostra volontà. È difficile resistere alle tentazione di identificare il nostro tempo come un Nuovo Medioevo tecnologizzato e contemporaneamente arcaico, e così introiettare quel soffio da «fine dei tempi» che per convenzione associamo a una premodernità abbandonata da Dio e sprofondata nelle tenebre di oscure profezie e tentazioni irrazionali.
Gli storici ci hanno spiegato che il Medioevo fu tutt’altro che un’epoca «buia», e che al contrario i secoli che precedettero la modernità furono un periodo di grandi esperimenti e vivacità diffusa; ma, di nuovo, non è il Medioevo reale che a questo punto ci interessa. Per capire in che maniera ci troveremo a sopravvivere nel Nuovo Medioevo Postcapitalista, ci torna forse più utile indagare che tipo di mondo hanno vagheggiato sin dall’infanzia i Signori e Signorotti chiamati a dominare un pianeta governato da entità extraumane che di nome fanno virus, clima e algoritmo – a cominciare dai tech-titani della Silicon Valley, gli stessi contro cui inutilmente inveisce il giullare pazzo Trump.
Non esiste Medioevo senza movimenti ereticali.
Tutta la cultura nerd-geek da cui discende la Weltanschauung della Silicon Valley è infusa di un medioevo fantastico derivato dai romanzi fantasy, dai videogame e dai giochi di ruolo sword & sorcery. Il concetto di worldbuilding – così centrale nel nerdom ossessionato dalla creazione di mondi immaginari – si è trasferito dal piano della speculazione fai-da-te a quello dell’architettura concreta dei nostri spazi, immateriali o meno che questi siano. Nelle loro fantasie perennemente adolescenziali, i tech-titani agognano da sempre di plasmare il reale grazie alle loro doti di astuzia, intelligenza e abilità con le più esoteriche arti a cavallo tra tecnica e magia, così da avere la meglio in un mondo immancabilmente popolato da stregoni e cavalieri erranti. Chi per decenni ha sdegnosamente relegato l’immaginario fantastico a imbarazzante passatempo di serie B a uso e consumo di una generazione di sfigati incolti, farebbe bene a rimediare entro i prossimi cinque minuti un corso di introduzione accelerato a Dungeons & Dragons. La narrazione puramente fantastica di un periodo storicamente inesistente, ha finito per condizionare e infine indirizzare la stessa realtà in cui ci troviamo immersi: da questo punto di vista, possiamo parlare di un atto magico in pura regola (anche qui: chi per decenni ha sdegnosamente ecc. ecc. il cosiddetto «pensiero magico», recuperi almeno un Crowley a caso. O quantomeno un disco dei Coil di cui sopra, ecco).
Più che al Medioevo storicamente accertato, è d’altronde a quell’immaginario fantastico che anche gli stessi manifestanti di Santiago e di Hong Kong presumibilmente si richiamavano, cresciuti come sono più a Attack on Titan che a Marc Bloch (ipotizzo): in un certo senso, possiamo dire che in quei corpi convergevano tanto la consapevolezza intuitiva di essere alle soglie di un modello storico-economico al contempo nuovissimo e antichissimo, quanto l’eredità di quell’impetus eroico da cui discende qualsiasi dispositivo narrativo genericamente fantasy (l’eroe solitario che nonostante le proprie limitatezze riesce ad avere la meglio su un nemico più grande e potente di lui; l’archetipo Frodo, insomma). Il fatto però è che, per quanto affascinanti siano queste rappresentazioni, il modello narrativo entro cui si situano presenta almeno una grossa, inaggirabile criticità: la totale irrilevanza della figura del servo della gleba, dello schiavo libero, insomma di noi tutti nel momento in cui il Neofeudalesimo epidemico-digitale avrà infine colonizzato finanche il nostro ultimo nanosecondo di serenità.
In questo, ci torna utile la critica (anche feroce) al Medioevo di fantasia sul modello tolkieniano avanzata in tempi diversi da autori come Michael Moorcock e soprattutto China Miéville; specie quest’ultimo, nelle sue opere ambientate in quella specie di Dark Age steampunk che è il Bas Lag, ha prediletto una dimensione collettiva che nella sua connotazione fantasy-lumpen finisce per essere tanto disperata (letteralmente: senza speranza) quanto politicamente incisiva (nel senso di: capace di incidere, se non sul mondo nella sua totalità, quantomeno sulla vita concreta delle collettività). Con ancora negli occhi le immagini della Cattedrale in Fiamme di Minneapolis, mi viene da pensare che è forse da lì che toccherà ripartire per ipotizzare strategie di sopravvivenza in un pianeta dominato dalla malattia, dal terrore, dal tracciamento e dalla segregazione. «Organizzatevi nelle vostre comunità», incitavano ieri i manifestanti di Minneapolis. Come a dire: è lì che si respira, mentre attorno il pianeta collassa e la Cattedrale brucia. E d’accordo, è praticamente certo che queste comunità – le nostre comunità – verranno perseguitate, additate, periodicamente condannate al rogo. Ma è pur vero che non esiste Medioevo senza movimenti ereticali. I fratelli e le sorelle del Libero Spirito e i Lollardi del 1300 lo sapevano: «il paradiso attende all’ombra delle spade».