Capitalismo e violenza contro le donne

Un estratto del nostro prossimo libro, Caccia alle streghe, guerra alle donne di Silvia Federici, in libreria dal 16 settembre.

Lo sviluppo del capitalismo iniziò con una guerra alle donne: la caccia alle streghe del XVI e XVII secolo che in Europa e nel Nuovo Mondo causò la morte di migliaia di persone. Come ho scritto in Calibano e la strega (2004), questo fenomeno storicamente senza precedenti è stato un elemento centrale del processo che Marx ha definito di accumulazione originaria. La caccia alle streghe, infatti, ha distrutto un universo di soggetti e pratiche che ostacolavano la formazione di quelle che erano le precondizioni del nascente sistema capitalista: l’accumulo di forza lavoro su larga scala e l’imposizione di una disciplina del lavoro più coercitiva. Definire e perseguitare le donne in quanto «streghe» ha spianato la strada in Europa al loro confinamento nel lavoro domestico non retribuito; ne ha legittimato la subordinazione agli uomini, sia dentro che fuori dalla famiglia; ha conferito allo Stato il controllo sulla loro capacità riproduttiva, garantendo la produzione di nuove generazioni di lavoratori. In questo modo, la caccia alle streghe ha costruito un ordine patriarcale specifico del capitalismo che perdura ancora oggi, nonostante i suoi continui adattamenti messi in campo per rispondere sia alla resistenza delle donne sia alle mutevoli esigenze del mercato del lavoro.

Dalle torture e dalle esecuzioni inflitte alle donne accusate di stregoneria, le altre donne hanno velocemente imparato a essere obbedienti e silenziose e a sottomettersi al duro lavoro e agli abusi degli uomini così da essere socialmente accettate. Per quelle che reagivano, c’era la «mordacchia». Forme specifiche di violenza di genere furono anche praticate nelle piantagioni americane. Qui, nel XVIII secolo, le aggressioni sessuali dei padroni alle schiave si trasformarono in una sistematica «politica dello stupro», in quanto i padroni delle piantagioni tentarono di sostituire l’importazione di schiavi dall’Africa con un sistema di allevamento locale concentrato in Virginia.

La violenza contro le donne non è scomparsa con la fine della caccia alle streghe e l’abolizione della schiavitù. Al contrario, è stata normalizzata. Negli anni Venti e Trenta del Novecento, al culmine del movimento eugenetico, la «promiscuità sessuale» femminile, bollata come fragilità mentale, veniva punita con il ricovero in ospedale psichiatrico o con la sterilizzazione. La sterilizzazione delle donne povere e di colore che praticavano la propria sessualità fuori dal matrimonio è continuata fino agli anni Sessanta, sia nel Sud che nel Nord degli Stati Uniti, diventando «la forma di controllo delle nascite più comune nel paese». La violenza contro le donne comprende anche l’uso esteso che si è fatto negli anni Cinquanta della lobotomia come cura per la depressione; un intervento considerato ideale per le donne destinate al lavoro domestico, che presumibilmente non richiedeva l’uso del cervello.

Ancor più importante, come ha sottolineato Giovanna Franca Dalla Costa in Un lavoro d’amore (1978), è il fatto che la violenza è sempre stata presente come sottotesto, come possibilità nella famiglia nucleare: perché agli uomini, mediante il salario, è stato dato il potere sia di controllare il lavoro domestico non retribuito delle donne, sia di usare le donne come proprie servitrici, sia di punire il loro rifiuto di tale lavoro. È per questo che la violenza maschile contro mogli e figlie, fino a tempi recenti, non è stata considerata un crimine. Analogamente alla legittimazione da parte dello Stato del diritto dei genitori di punire i propri figli come parte della loro formazione in quanto futuri lavoratori, la violenza domestica contro le donne è stata tollerata dai tribunali e dalla polizia come legittima risposta al loro rifiuto dei doveri familiari.

Ma se la violenza contro le donne è stata normalizzata come un aspetto strutturale delle relazioni familiari e di genere, ciò che ha preso piede negli ultimi decenni va ben oltre la norma. Un caso esemplare è quello degli omicidi di Ciudad Juárez, la città messicana dove negli ultimi vent’anni centinaia di donne sono scomparse, e i loro corpi torturati spesso sono stati ritrovati abbandonati in spazi pubblici. Non si tratta di un caso isolato; i rapimenti e gli omicidi di donne sono una realtà quotidiana nell’America Latina di oggi, che ci riporta alla memoria le «guerre sporche» che negli anni Ottanta insanguinarono tanti paesi della regione. Questo avviene perché la classe capitalista è determinata a mettere a soqquadro il mondo pur di consolidare il proprio potere, indebolito negli anni Sessanta e Settanta dalle lotte anticoloniali, femministe e anti-apartheid. E lo fa attaccando i mezzi di riproduzione delle persone e istituendo un regime di guerra permanente.

La mia tesi, in altre parole, è che stiamo assistendo a un’escalation di violenza contro le donne – in particolare afrodiscendenti e native americane – perché la «globalizzazione» è un processo di ricolonizzazione politica il cui scopo è fornire al Capitale un controllo incontestato sulle ricchezze naturali del mondo e sul lavoro umano, e questo obiettivo non può essere ottenuto senza attaccare le donne, che sono direttamente responsabili della riproduzione delle loro comunità. Non sorprende, dunque, che la violenza contro le donne sia più intensa in quelle parti del mondo – Africa subsahariana, America Latina, Sud-Est asiatico – più ricche di risorse naturali e ora bersaglio per le imprese commerciali, e in cui la lotta anticoloniale è stata più forte. Brutalizzare le donne è funzionale alle «nuove enclosures». Apre la strada all’accaparramento delle terre, alle privatizzazioni e alle guerre che per anni hanno devastato intere regioni.

La brutalità degli attacchi perpetrati contro le donne è spesso così estrema da sembrare priva di qualsiasi obiettivo utilitaristico. Riferendosi alle torture inflitte sui corpi delle donne da parte delle organizzazioni paramilitari operanti in America Latina, Rita Laura Segato ha parlato di «violenza espressiva» e «crudeltà pedagogica», sostenendo che il loro obiettivo è terrorizzare, avvertire prima le donne e poi, attraverso di esse, intere popolazioni, che non devono aspettarsi alcuna pietà. La violenza contro le donne – il cui effetto è di espellere intere popolazioni dai loro territori, costringendo le persone a lasciare le proprie case e le proprie terre ancestrali – è un fattore cruciale per le compagnie petrolifere ed estrattive che oggi stanno dislocando numerosi villaggi in Africa e in America Latina. È l’altra faccia dei mandati delle istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale e le Nazioni Unite, che strutturano l’economia politica globale, impostano i programmi estrattivi, e sono in definitiva responsabili per le condizioni neocoloniali in cui le imprese operano sul campo. In effetti, è ai loro uffici e ai loro piani di sviluppo che dobbiamo guardare per comprendere la logica per cui le milizie private nei campi di diamanti, coltan e rame della Repubblica Democratica del Congo sparano alle donne nella vagina; o perché i soldati guatemaltechi hanno squarciato con dei coltelli la pancia di donne gravide, in quella che continua a essere raccontata come una «guerra di controinsurrezione». Rita Segato ha ragione. Una simile violenza non può emergere dalla vita quotidiana di nessuna comunità. È «violenza da manuale». Deve essere pianificata, calcolata ed eseguita con la massima garanzia di impunità – la stessa con cui anche nell’Italia di oggi le compagnie minerarie inquinano con sostanze chimiche letali le terre, i fiumi e i corsi d’acqua, mentre chi vive di queste risorse viene arrestato dalle forze dell’ordine se osa opporre resistenza. Non importa chi siano gli esecutori materiali: solo gli Stati e le potenti agenzie internazionali possono dare il via libera a una tale devastazione garantendo che i colpevoli non vengano mai esposti alla giustizia.

È essenziale sottolineare che la violenza contro le donne è un elemento chiave in questa nuova guerra globale non solo per l’orrore che evoca o per i messaggi che invia, ma per ciò che le donne rappresentano, nella loro capacità di tenere unite le comunità e, cosa altrettanto importante, difendere una concezione non commerciale della «sicurezza» e della «ricchezza». In Africa e in India, ad esempio, fino a poco tempo fa le donne avevano accesso alle terre comuni e dedicavano una buona parte della loro giornata lavorativa all’agricoltura di sussistenza. Ma tanto la proprietà terriera collettiva quanto l’agricoltura di sussistenza hanno subìto un feroce attacco istituzionale, criticate dalla Banca Mondiale come una delle cause della povertà globale, secondo l’assunto che vede la terra come una «risorsa inutile» a meno che non sia legalmente registrata e usata come garanzia per ottenere dalla banca prestiti con cui avviare qualche attività imprenditoriale.

In realtà, è proprio grazie all’agricoltura di sussistenza che molte persone sono riuscite a sopravvivere alla feroce austerità imposta dai programmi internazionali di sviluppo. Ma critiche come quelle portate avanti dalla Banca Mondiale, ripetute in decine di incontri con autorità governative e leader locali, hanno infine avuto successo sia in Africa che in India, costringendo le donne ad abbandonare la loro produzione agricola di sussistenza e a lavorare invece come aiutanti dei mariti nella produzione agricola a fini commerciali. Come osserva Maria Mies, questa dipendenza forzata è uno dei modi specifici in cui le donne nelle zone rurali vengono «integrate nello sviluppo», che è in sé un processo violento. Non solo è «garantita dalla violenza insita nelle relazioni patriarcali tra uomini e donne», ma svaluta anche le donne, di modo che gli uomini delle loro comunità le vedono (specialmente quando sono anziane) come esseri inutili il cui patrimonio e il cui lavoro possono essere espropriati senza scrupoli.

I cambiamenti nelle leggi e nelle norme sulla proprietà fondiaria e nella concezione di ciò che può essere considerato come una fonte di valore sembrano essere alla radice anche di un altro fenomeno, che dagli anni Novanta in poi ha causato molta sofferenza per le donne, specialmente in Africa e in India: il ritorno della caccia alle streghe.

Alla rinascita della caccia alle streghe contribuiscono diversi fattori: tra questi, la disintegrazione della solidarietà comunitaria a seguito di decenni di impoverimento e delle devastazioni provocate dall’AIDS e da altre epidemie, in società in cui la malnutrizione dilaga e i sistemi sanitari sono al collasso. Un ulteriore elemento è la diffusione delle sette evangeliche neocalviniste, secondo le quali la causa della povertà va ricercata nelle carenze personali o nelle cattive azioni delle streghe. È stato però osservato che le accuse di stregoneria sono più frequenti nelle aree destinate a progetti commerciali e in quelle in cui sono in corso processi di privatizzazione del territorio (come nelle comunità tribali dell’India), quando le accusate possiedono un terreno che può essere confiscato. In Africa, in particolare, le vittime sono donne anziane che vivono da sole sostentandosi con un pezzo di terra, mentre gli accusatori sono membri più giovani delle loro comunità o addirittura delle loro stesse famiglie – in genere sono giovani disoccupati che vedono queste donne anziane come usurpatrici di ciò che dovrebbe appartenere a loro. Questi ultimi possono poi essere manipolati da altri attori che rimangono nell’ombra, a cominciare dai leader locali che spesso cospirano con imprese commerciali.

Esistono poi altri modi in cui le nuove forme dell’accumulazione capitalistica producono violenza contro le donne. Disoccupazione, precarietà e crollo del salario familiare sono tutti elementi cruciali. Privati del reddito, gli uomini sfogano le proprie frustrazioni sulle donne della famiglia, o provano a recuperare i soldi e il potere sociale persi sfruttando i loro corpi e il loro lavoro. È il caso degli «omicidi per la dote» in India, dove uomini della classe media uccidono le proprie mogli se non portano con sé risorse sufficienti, magari allo scopo di sposare un’altra donna e rilevare una seconda dote. Un ulteriore esempio è il traffico sessuale, un elemento chiave nell’espansione dell’industria del sesso, che è gestita prevalentemente da organizzazioni criminali maschili in grado di imporre la schiavitù nella sua forma più crudele.

Qui la micropolitica individuale si mimetizza e si fonde con la macropolitica istituzionale. Per il Capitale così come per gli uomini gettati in condizioni di precarietà, il valore delle donne risiede sempre di più nella forza lavoro a basso costo che possono fornire attraverso la vendita sul mercato del proprio lavoro e dei propri corpi, anziché nel lavoro domestico non retribuito che dovrebbe essere sostenuto da un salario maschile stabile – cosa che il capitalismo contemporaneo vuole progressivamente eliminare o riservare solo a limitati settori della popolazione. Il lavoro femminile domestico, in quanto produzione delle nuove generazioni, non è certo scomparso, ma non è più una condizione sufficiente per l’accettazione sociale. Al contrario, la gravidanza è spesso una condizione che aumenta in modo significativo la vulnerabilità delle donne alla violenza, in quanto molti uomini mal sopportano il peso che comporta. La nuova economia politica favorisce dunque relazioni familiari più violente. Ci si aspetta che le donne non dipendano dagli uomini e che portino a casa dei soldi, ma le stesse donne subiscono abusi se vengono meno ai compiti domestici o se chiedono più potere come riconoscimento dei loro contributi monetari.

Anche la necessità delle donne di uscire di casa, di emigrare, di portare il proprio lavoro riproduttivo in strada (come venditrici, commercianti, lavoratrici del sesso, migranti) al fine di sostenere le proprie famiglie, vede l’insorgere di nuove forme di violenza. In effetti, tutti i dati indicano che l’integrazione delle donne nell’economia globale è un processo violento. È noto che le donne che migrano dall’America Latina prendono contraccettivi sapendo di poter essere stuprate dalla polizia di frontiera ormai militarizzata. Le venditrici ambulanti si scontrano con la polizia che cerca di confiscare i loro beni. Come ha notato Jules Falquet, nella misura in cui le donne passano dal servire un uomo ai servizi sessuali, le restrizioni tradizionali si spezzano, rendendo le donne più vulnerabili agli abusi. La violenza maschile individuale è anche una risposta alle richieste più assertive di autonomia e indipendenza economica da parte delle donne – nonché, più semplicemente, una reazione all’ascesa del femminismo. È questo il tipo di violenza che è esplosa nel massacro dell’École Polytechnique a Montreal il 6 dicembre 1989, quando un uomo entrò in una classe, separò i maschi dalle femmine e aprì il fuoco su queste ultime, urlando «Siete tutte delle fottute femministe» e uccidendone quattordici. La misoginia viene poi aggravata dal razzismo. Negli Stati Uniti – dove dagli anni Ottanta gli omicidi delle donne sono in costante aumento, con oltre tremila donne uccise ogni anno – i casi di omicidio di donne non bianche difficilmente ricevono l’attenzione dei media e più raramente sono risolti rispetto agli omicidi di donne bianche. Lo dimostra il congelamento delle indagini sugli assassinii seriali di donne afroamericane avvenuti nei quartieri poveri di Los Angeles e di altre città. La transfobia intensifica la misoginia.

Tra il 2010 e il 2016, almeno centoundici persone «transgender» e non conformi al genere sono state assassinate negli Stati Uniti, la maggior parte delle quali erano donne trans nere. Secondo la National Coalition of Anti-Violence Programs, ventitré di questi omicidi si sono verificati nel 2016, la più alta cifra mai registrata dall’NCAVP. Anche in Canada la violenza razzializzata è in aumento: decine di donne, perlopiù native americane, sono scomparse per poi essere trovate morte lungo quella che ora viene chiamata The Highway of Tears, «l’autostrada delle lacrime».

Queste forme di violenza sono ovviamente diverse da quelle inflitte alle donne da paramilitari, narcos ed eserciti privati o dalle guardie di sicurezza delle multinazionali. Eppure sono profondamente connesse con queste. Come hanno osservato Sheila Meintjes, Anu Pillay e Meredeth Turshen, ciò che collega la violenza in tempo di guerra alla violenza in tempo di pace è la negazione dell’autonomia femminile, che a sua volta è connessa al controllo sessuale e all’allocazione delle risorse. Nota inoltre Maria Mies che «in tutte queste relazioni produttive, basate sulla violenza e la coercizione, possiamo osservare un’interazione tra gli uomini (padri, fratelli, mariti, protettori, figli), la famiglia patriarcale, lo Stato e le imprese capitaliste». La violenza domestica e quella pubblica (ovvero la violenza dei militari o paramilitari, e la caccia alle streghe), si collegano e rafforzano poi a vicenda. Spesso le donne non denunciano gli abusi subiti per paura di essere respinte dalle loro famiglie o di essere esposte a ulteriore violenza; d’altra parte, la tolleranza istituzionale nei confronti della violenza domestica alimenta una cultura dell’impunità che contribuisce a normalizzare la violenza pubblica inflitta alle donne.

In tutti i casi fin qui elencati si è parlato di violenza fisica. Ma non va ignorata la violenza perpetrata dalla politica economica e sociale e dalla commercializzazione della riproduzione. La povertà derivante dai tagli nei servizi sociali, occupazionali e assistenziali dovrebbe essere considerata in sé una forma di violenza, al pari delle condizioni di lavoro disumane che si trovano, per esempio, nelle maquilas, il corrispettivo odierno delle piantagioni di schiavi. La mancanza di assistenza sanitaria, la negazione del diritto all’aborto, l’aborto forzato di feti femminili, la sterilizzazione delle donne in Africa, India e America Latina in nome del «controllo della popolazione», e non ultimo il «microcredito» che spesso porta alla catastrofe coloro che non posso ripagare i debiti, sono anch’esse forme esemplari di violenza. A questo dobbiamo aggiungere la crescente militarizzazione della vita quotidiana, con la sua conseguente celebrazione di modelli di maschilità aggressivi e misogini. Come ha sostenuto Jules Falquet, il crescente numero di uomini armati e lo sviluppo di una nuova divisione sessuale del lavoro per cui buona parte dei lavori aperti agli uomini (come guardie domestiche private, guardie di sicurezza commerciali, guardie carcerarie, membri di bande e mafie e soldati in eserciti regolari o privati) richiede violenza, svolge un ruolo centrale nel forgiare maschilità sempre più tossiche. Le statistiche mostrano che a uccidere sono spesso uomini che hanno familiarità con e accesso alle armi, e sono abituati a risolvere i conflitti per mezzo della violenza. Negli Stati Uniti, si tratta spesso di poliziotti o veterani delle guerre in Iraq o in Afghanistan. L’alto tasso di violenza contro le donne nell’esercito americano è stato un fattore significativo. Come Frantz Fanon ha sottolineato in riferimento alle autorità francesi il cui compito era torturare i ribelli algerini, la violenza è indivisibile; non puoi praticarla come occupazione quotidiana senza sviluppare tratti di carattere violento e quindi portarla a casa. La costruzione e la diffusione nei media di modelli di femminilità ipersessualizzati ha esasperato il problema, invitando apertamente all’aggressione sessuale e contribuendo a una cultura misogina nella quale le aspirazioni femminili all’autonomia vengono degradate e ridotte allo stato di mera provocazione sessuale.

Data la grande incidenza e l’onnipresenza della violenza con cui le donne devono confrontarsi, è chiaro che anche la resistenza va organizzata su diversi fronti. Le mobilitazioni sono già in atto, e riescono sempre più spesso a evitare i vicoli ciechi – per esempio la proposta di una legislazione più punitiva, utile solo a dare più potere a quelle stesse autorità che, direttamente o indirettamente, sono responsabili del problema. Più efficaci sono le strategie che le donne escogitano quando prendono in mano la situazione. Tattiche particolarmente efficaci sono l’apertura di rifugi gestiti non dalle autorità ma dalle stesse donne che li abitano, l’organizzazione di corsi di autodifesa e la costruzione di manifestazioni ampiamente inclusive come le marce di Take Back the Night (negli anni Settanta) o le marce organizzate dalle donne in India contro lo stupro e gli omicidi per la dote, che spesso sfociano in sit-in nei quartieri dei colpevoli o di fronte alle stazioni di polizia. Negli ultimi anni abbiamo anche assistito alla nascita di campagne contro la caccia alle streghe in Africa e in India, con donne e uomini che vanno di villaggio in villaggio educando le persone sulle cause reali delle malattie e sugli interessi che muovono i tradizionali guaritori maschi, i leader locali e altri accusatori.

In alcune zone del Guatemala, le donne hanno iniziato ad appuntare i nomi dei soldati violenti per poi esporli nei loro villaggi di origine. In ogni caso, la decisione delle donne di reagire, infrangere il loro isolamento e unirsi con altre donne è stata fondamentale per il successo di simili iniziative. Tuttavia, sono strategie che non possono produrre cambiamenti durevoli se non vengono accompagnate da un processo di rivalutazione della posizione sociale delle donne e delle attività riproduttive che contribuiscono alle loro famiglie e comunità. Un simile obiettivo, però, non può essere raggiunto se le donne non acquisiscono le risorse di cui hanno bisogno per essere indipendenti dagli uomini, così da non essere costrette, per garantirsi la sopravvivenza, ad accettare condizioni di lavoro e relazioni familiari degradanti e pericolose.

Silvia Federici femminista, scrittrice, docente e militante. Tra i suoi libri ricordiamo Calibano e la strega (Mimesis 2016) e Revolution at Point Zero. Ha lavorato a lungo in Nigeria, dove ha fondato il Committee for Academic Freedom for Africa, e oggi è professoressa emerita alla Hofstra University.