#BlackLivesMattarella

Dalle «fabbriche dei troll» all’organizzazione del consenso: la percezione dell’opinione dominante al tempo della sua moltiplicabilità

Il 2 agosto il Fatto Quotidiano lancia l’allarme: «La fabbrica di troll per influenzare l’opinione pubblica, tra Russiagate e politica italiana: scoperti 1500 tweet “populisti”». Il giorno dopo il Corriere rincara la dose: «La notte dell’attacco al Quirinale in 400 per l’attacco sull’impeachment». Gli articoli seguono la pubblicazione sul sito americano FiveThirtyEight, di un report (e di 3 milioni di tweet allegati) sulle attività dell’Internet Research Agency, l’agenzia russa che si occuperebbe di iniettare nei social network moltissimi utenti fasulli, slogan, notizie vere e false, col fine di favorire gli interessi di Mosca. L’IRA, ribattezzata «la fabbrica di troll», è al centro di un’indagine in America per le interferenze con la campagna elettorale delle presidenziali 2016, ma l’agenzia svolgerebbe le sue attività sin dal 2013, e avrebbe cercato di influenzare in molti modi il dibattito politico statunitense, ad esempio intervenendo nei gruppi pro-armi, impersonando dei supporter di Trump o utilizzando l’hashtag #BlackLivesMatter,

Ma partiamo dal lato italiano della vicenda: sulla questione dei 400 troll anti-Mattarella non esistono database di tweet pubblici, l’indagine sarebbe nelle mani della procura di Roma, e riguarderebbe appunto 400 account creati in poco tempo da una sola mano nella notte tra 27 e 28 maggio, quando Mattarella rifiuta Paolo Savona come ministro dell’economia. Quella notte gli account cominciano a rilanciare messaggi contro il presidente della Repubblica e l’hashtag #MattarellaDimettiti. Si sa al momento poco altro, e le connessioni documentate con l’IRA corrisponderebbero ad appena una ventina di account, ma sembra ritornare un modello messo in mostra da più parti: l’attivazione di molti account Twitter che rilanciano alcune parole d’ordine con l’obiettivo di influenzare lo scenario politico.

Non ci interessa capire se questo tipo di meccanismo sia stato messo in funzione quella precisa notte, ma piuttosto approfondire di cosa parliamo quando parliamo di fabbriche di troll, e in che senso la narrazione dei mass media sembra non vedere il punto centrale della questione.

Rivolgiamo l’attenzione al caso americano, quello in cui un ricco database pubblico di tweet ha permesso di concretizzare l’analisi dell’intervento «illecito». Chi fornisce i dati è il sito FiveThirtyEight fondato da Nate Silver, uno dei più famosi giornalisti d’America, specialista di datajournalism, cioè di giornalismo basato sull’utilizzo di dati statistici. Il sito ha deciso di condividere i dati forniti da due professori della Clemson University, Darren Linvill e Patrick Warren. Questi ultimi hanno ottenuto quasi 3 milioni di tweet scaricando le interazioni di 2848 utenti già segnalati da Twitter come connessi all’IRA. I due professori hanno rilasciato anche un paper con una loro prima analisi dei dati. È interessante scendere nel dettaglio del loro studio (che è solo il primo, su un database pubblico che sicuramente sarà rimaneggiato molte volte nei prossimi mesi) per capire alcuni meccanismi dell’intervento russo sui social, e per sfatare una narrazione stereotipata di questa dinamica, che tende a costruire un collegamento diretto e banale tra i cosiddetti «populismi», le fake news, l’intervento dei troll.

L’articolo classifica gli utenti che twittano in inglese in 5 categorie: troll di destra, troll di sinistra, aggregatori di news, hashtag gamer e allarmisti. I troll di destra e di sinistra ricalcano, secondo i due studiosi, i comportamenti e gli slogan tipici rispettivamente dell’elettorato di Trump e dell’attivismo politico a sinistra della Clinton (in particolare elettorato di Bernie Sanders e attivisti di Black Lives Matter). Insieme le due categorie ammontano al 57,3% dei tweet nel database. Gli aggregatori di news riportano notizie da fonti considerate attendibili. Gli hashtag gamer hanno un comportamento particolare, riproducendo giochi di parole e forme di ironia, conditi da hashtag abbastanza seguiti. Gli allarmisti infine sono quegli utenti che twittano teorie del complotto e fake news, e sono responsabili di meno dell’1% dei tweet in inglese.

La categoria di troll viene utilizzata dai mass media in maniera spoliticizzante: le notizie di utenti fasulli attivi in rete sono sempre riportate con toni emergenziali.

Una vera e propria analisi dei diversi approcci e dei loro obiettivi è difficile in particolare per gli aggregatori di news e gli hashtag gamer. Per quanto riguarda gli allarmisti, inoltre, il campione è molto ridotto. L’intento delle due tipologie di troll sembra invece più chiaro: amplificare alcuni elementi del dibattito che transitano sui social. Il troll, inteso appunto come un utente che ripete insistentemente uno slogan o uno specifico frame politico, è la categoria più presente nel dibattito, ed è diventato il modello di ciò che si intende con interferenza illecita russa sui social occidentali. Nel mondo «senza frontiere» reticolare risulta abbastanza anacronistica questa idea di «intervento esterno illecito», ma lo specifico tipo di intervento messo in atto ci dice invece qualcosa di importante su funzioni e disfunzioni della comunicazione. Certo la Russia sembra aver speso soldi ed energie nella fabbrica di troll, ma sarebbe sbagliato credere che l’efficacia dell’intervento dipenda direttamente dall’impegno finanziario o di risorse. All’inverso, è il successo di questa tattica a dirci qualcosa sul clima politico della nostra epoca.

Ma cos’è un troll? Secondo Wikipedia un troll nel gergo di internet è «un soggetto che interagisce con gli altri tramite messaggi provocatori irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso e/o del tutto errati, con il solo obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi.» Già dalla definizione si tratta quindi di una parola che sta ad indicare una postura e a squalificare automaticamente i contenuti espressi. Il termine troll sta ad indicare, nella mitologia norrena, creature malvagie con caratteristiche antropomorfe, ma è anche sinonimo (in inglese, verbo to troll) di «muovere un’esca per spingere un pesce ad abboccare». Ecco allora che un troll è chi in rete diffonde messaggi-trappola con cattive intenzioni o sperando di portare caos nella discussione.

La categoria di troll viene utilizzata dai mass media in maniera spoliticizzante: le notizie di utenti fasulli attivi in rete sono sempre riportate con toni emergenziali, e sembra che la semplice ripetizione sia sufficiente per spiegare il successo sociale di alcuni discorsi, ma in realtà ogni strategia si inserisce dentro delle condizioni precise, e ogni buona strategia deve sfruttare quelle condizioni a proprio vantaggio. Come mostra l’articolo di Linvill e Warren, l’intervento della fabbrica in America non si è limitato a messaggi di uno specifico schieramento, ma ha riprodotto discorsi diversi, anche molto distanti tra loro. I due professori arrivano a dire che questo è un sintomo dell’intenzione russa di «dividere» il paese, e così facendo però escludono a priori che ci siano ragioni politiche per questa divisione: un esempio, la differenza di privilegio tra una parte bianca razzista della società, ed una parte nera o latinos, è qualcosa di molto concreto in America ed in tutto l’occidente, non sono certo i troll russi ad esserselo inventati. A questo si aggiungono le vicende delle primarie democratiche del 2016, quando una serie di hacker (anch’essi legati a Mosca) svelarono delle email in cui alcuni dirigenti del Partito Democratico confessavano di aver favorito illecitamente Hillary Clinton contro Bernie Sanders. Con un tempismo non casuale, l’attività dei troll di sinistra ha un’impennata subito prima del leak, probabilmente dovuta al tentativo di diffondere messaggi anti-clintoniani.

Anche qui, sottolineare l’aspetto divisivo dell’intervento russo significa concentrarsi su un elemento minore, dimenticando l’operato di Clinton, la scelta di continuare con la sua candidatura nonostante le accuse, la scelta di Sanders di accettare la sconfitta e non presentarsi come candidato indipendente. Non vogliamo approfondire le diverse strategie politiche degli attori in campo, né portare una critica alle scelte di Sanders; ci interessa piuttosto mostrare che l’intervento russo non può essere letto se non dentro questa cornice che ne determina i limiti ed i linguaggi, e parlare solamente di interferenza significa invisibilizzare moltissimi discorsi – probabilmente i più interessanti per i movimenti di sinistra, antirazzisti ed anticapitalisti. La stessa scelta di denominare «troll» tutti gli utenti che ripetono slogan denota una stigmatizzazione a prescindere di ogni voce non allineata all’ «interesse nazionale», indipendentemente dalle idee politiche particolari.

Un ultimo elemento interessante si osserva considerando cos’è accaduto nella primavera-estate 2017: verso marzo 2017 la maggior parte degli utenti legati all’IRA riduce drasticamente la propria attività, tranne per quanto riguarda i cosiddetti troll di destra, che invece continuano ed anzi in alcuni momenti intensificano il twitting. L’intervento dunque non si è limitato alla campagna elettorale, ma è entrato nell’ecosistema informativo americano per restarci, una cosa che spaventa moltissimo Linvill e Warren. Come biasimarli. Ma ancora una volta i due, e con loro i mass media americani ed internazionali, si concentrano sugli aspetti sbagliati. Mettono l’accento sul fatto che la propaganda viene dall’estero, ma ignorano totalmente le condizioni che rendono efficace quella propaganda. Così facendo trascurano anche la crisi dell’informazione di massa.

Classicamente i mass media operano la selezione delle notizie utilizzando delle categorie descrittive (come lavoratori, giovani, immigrati, imprenditori…), rivendicando un principio di oggettività sociologica che è del tutto illusorio. Una delle categorie descrittive che ha preso piede negli ultimi anni è quella di «popolo della rete» («the internet says…», «the internet thinks…» nel panorama anglofono); si usano queste parole supponendo che le tendenze sociali siano riportate dai cittadini-utenti sui social network, come se internet fosse semplicemente una bacheca in cui vengono comunicate posizioni politiche, idee, mode, che però nascono e si sviluppano sempre da un’altra parte.

Ma il popolo della rete non esiste: è una proiezione di comportamenti molto diversi, perché su internet l’identificazione tra linguaggi e corpi è molto più fluida che offline. In questa narrazione la specificità del web e le proprietà dei linguaggi che lo attraversano, vengono cancellate. Internet è il terreno dove per antonomasia non è vero che «uno vale uno», perché i messaggi circolano senza doversi necessariamente identificare con un soggetto parlante individuale. Proprio per questo la selezione dei temi dovrebbe essere vista come una scelta cruciale, mentre regolarmente il collegamento diretto tra Twitter e il «paese reale» è fatto con estrema leggerezza: perché dovremmo credere che 1500 tweet sono una minaccia per Mattarella e per la Repubblica? E soprattutto, perché ogni «attacco» è svuotato dei suoi contenuti, accomunando ogni critica in un grande polpettone?

Comportamenti come quelli della «fabbrica di troll» riproducono industrialmente questa contraddizione della rete (che è in fondo l’evoluzione di un meccanismo nato al di fuori della rete). La fabbrica interviene su categorie presentate come descrittive (l’opinione della rete, i sondaggi elettorali, le sentiment-analysis sui social network) e le deforma. Nel momento in cui l’interferenza diventa palese, e nasce l’accusa di ingerenza illegittima, si svela un segreto di Pulcinella: tutti quei dati, non sono soltanto fotografie di una situazione, ma influenzano la situazione stessa. Selezionare le informazioni, riportarle e raccontarle, è un’arma politica. L’impalcatura retorica dell’oggettività scricchiola, e mostra la presenza di specifici rapporti di forza nella decisione di ciò che è notizia e ciò che non lo è.

Forse le vicende dell’IRA possono lasciarci qualcosa di positivo, e cioè un approccio francamente parziale e soggettivo all’informazione, un linguaggio che permetta di individuare chiaramente il posizionamento politico da cui si parla.

Descrivere lo scontro in termini di spazio nazionale e ingerenze illegittime è un tentativo di ristabilire questa oggettività perduta, ma è veramente la cosa migliore da fare? Una volta messi in circolazione i peggiori discorsi razzisti e sovranisti, non basta denunciare un intervento organizzato per eliminare quei pensieri dalla circolazione. Il rischio è quello di riprodurre un atteggiamento moralizzante verso la comunicazione, in uno scenario in cui il troll-fascistoide è diventato qualcosa di assolutamente normale, riprodotto continuamente da utenti fasulli e da utenti reali (cioè associati ad un corpo in carne ed ossa).

Questo approccio presenta anche un altro problema: riduce a un fatto «elettorale» i cambiamenti indotti dai nuovi strumenti di informazione. E lo fa richiamandosi una forma comunicativa che non è realmente mai esistita e forse non è concretamente fattibile né auspicabile: una situazione in cui soggetti individuali razionali si confrontano in maniera puramente dialettica attorno a un’informazione «completa».

Consideriamo come ulteriore esempio il caso dell’ «esercito dell’ottimismo» creato da Amazon per difendere l’azienda: decine di account che giustificano e sponsorizzano su Twitter l’operato della multinazionale. Si tratta di una situazione sicuramente legale che rispetta le policy di Twitter (se, come sostenuto da Amazon, tutti gli account sono associati a dei veri dipendenti) e sulla quale non si è scatenata la retorica dell’emergenza; ma nonostante tutto, anche in questo caso vediamo la possibilità che un grosso agglomerato di potere possa influenzare delle narrazioni. Forse allora quello di cui abbiamo bisogno non è la demonizzazione dei nuovi sistemi e «trucchi» della comunicazione, ma della loro comprensione profonda, per poter organizzare i metodi necessari a veicolari altri messaggi. Forse le vicende dell’IRA possono lasciarci qualcosa di positivo, e cioè un approccio francamente parziale e soggettivo all’informazione, un linguaggio che permetta di individuare chiaramente il posizionamento politico da cui si parla. Perché al prossimo utente razzista che spara una fake news sui migranti non ci sia bisogno di rispondere «dici così perché sei un troll di Putin» (eh sì, seguendo la vulgata mediatica si finisce a parlare come uno stereotipo), ma più ovviamente «credi a queste cazzate perché sei razzista». Sembra un dettaglio, ma è una differenza sostanziale.