Ballare nel Metaverso
Internet per come lo conosciamo è sempre stato accompagnato da una peculiare litania di ipotesi e visioni ad alta definizione rispetto al suo futuro prossimo: la più recente ed accreditata di queste sostiene che, in un domani luminoso, sconfinato e 3D, secondo le profezie gli esseri digitali abitanti della rete interagiranno sempre più attraverso forme di collettività DIWO – do it with others, innalzando la qualità della user experience a livelli sempre più coinvolgenti e partecipando direttamente ad attività di creazione, condivisione, decisione, apprendimento e commercio. Le tecnologie gaming stanno diventando l’infrastruttura fondamentale per la realizzazione di questi auspici: quell’ecosistema di mondi virtuali in eXtended Reality che tutti ormai chiamiamo Metaverso sembra destinato ad essere plasmato principalmente dagli interessi di grandi aziende e mercati di massa, che vedono però nella partecipazione attiva uno degli asset economici principali di questa dimensione.
Prima e dopo la pandemia, ambienti virtuali avanzati sono emersi come luoghi chiave per esperienze sociali e culturali che strutturano e facilitano conversazioni, progetti creativi, sforzi collettivi e scambi commerciali; in particolare, l’industria dei videogiochi si è dimostrata all’avanguardia in questa sfera, avendo trascorso decenni a sviluppare, prototipare e rendere operative le tecnologie necessarie per la creazione di esperienze ibride IRL e URL che coinvolgono interazioni corporee e con avatar. Alcune recenti proposte ipermediali apparse in questi ambienti sembrano costringere alla rivalutazione dell’essenza stessa dello stare online, unitamente alla ricontestualizzazione dei concetti di realtà, presenza, simulazione.
Crew estemporanee di avatar – che accedendo all’ambiente perdono la propria individualità per essere rivestiti da skins standardizzate – vengono coinvolte in balli di gruppo (con coreografie prese da librerie mocap, videoclip, TikTok, e dalla danza contemporanea).
La ricerca artistica internazionale ha sempre sviluppato simulazioni, mondi alternativi e fantastici, con obiettivi molto diversi, sperimentando allo stesso ritmo dell’evoluzione della tecnosfera e riflettendo sulle implicazioni estetiche e politiche che questa comporta. L’avvento del Metaverso rappresenta l’ultima frontiera di questo sviluppo e un cambiamento fondamentale nell’odierna nozione di presenza digitale, verso l’interconnessione massiva, l’interoperabilità universale e la sincronicità persistente: con la creazione e il popolamento di ambienti virtuali, i sandbox games e gli open world games, così come le online 3D collaboration platforms (Unity, Mozilla Hubs, Unreal Engine) e gli MMO (Massively Multiplayer Online game) accolgono sempre più spesso esperienze comunitarie e performative, immersive, aumentate: perfetti palchi e piazze virtuali.
Società leader come Epic e Roblox hanno esplicitamente delineato una visione in cui il Metaverso sarà guidato soprattutto dai contenuti creati dagli utenti stessi.
Per chi non lo sapesse, Roblox è un popolare MMO che consente di giocare, ma anche creare e condividere contenuti in mappe virtuali, collettivamente. Lanciato nel 2006, Roblox è diventato rapidamente uno dei giochi più popolari al mondo, con milioni di utenti attivi ogni giorno, i quali possono creare ambienti e attività annesse di tutti i generi, dalle avventure ai giochi di ruolo, dai simulatori alle coreografie di massa, utilizzando gli strumenti forniti da Roblox Studio, un software gratuito di sviluppo.
A febbraio 2022, Gucci ha presentato l’evento “Achille Lauro Superstar” sulla piattaforma, registrando circa 3,49 milioni di visite totali: Achille Lauro è stato protagonista di questo evento virtuale durato circa una settimana, durante il quale gli utenti hanno potuto partecipare a una serie di sfide come la creazione di look ispirati al cantante o la ricerca di oggetti nascosti nella mappa, personalizzando i propri avatar con abiti e accessori esclusivi del brand. Durante l’evento sono stati organizzati anche concerti virtuali di Achille Lauro, durante i quali è stato possibile assistere alle sue performance in tempo reale e interagire con lui tramite chat.
Qualche settimana dopo, lo spettacolo “Dance Dance Dance” (d’ora in poi DDD) di Kamilia Kard veniva selezionato per partecipare alle terza edizione di Residenze Digitali, format nato nel 2020 con l’intento di stimolare gli artisti delle performing arts all’esplorazione dello spazio digitale, come ulteriore o diversa declinazione della loro ricerca autoriale. Da questa esperienza, anche grazie al supporto di partners quali Romaeuropa Festival e Lavanderia a Vapore, insieme al tutoraggio di Laura Gemini, Anna Maria Monteverdi e di chi scrive, è nata la forma attuale del progetto, ora intitolato “Toxic Garden – dance dance dance” (da qui TG). In una mappa “tossica” creata ad hoc dall’artista, crew estemporanee di avatar – che accedendo all’ambiente perdono la propria individualità per essere rivestiti da skins standardizzate – vengono coinvolte in balli di gruppo (con coreografie prese da librerie mocap, videoclip, TikTok, e dalla danza contemporanea), automaticamente sincronizzate ai movimenti dell’avatar KKlovesU4E. TG sembra allora essere un case study perfetto per immergersi nel colorato universo delle esperienze performative in ambiente virtuale, magari tentando di capirne qualcosa di più.
Frequentato soprattutto da teen e preadolescenti, Roblox è uno strumento importante di esperienza del sé, per una generazione che non ha ancora le idee chiare sul proprio io.
Federica Patti: Ho avuto il piacere di fare da cavia durante la creazione di TG fin dal 2020, agli albori del suo sviluppo. Indubbiamente la danza è un elemento centrale nell’esperienza social proposta da Roblox, insieme alla musica e alla customizzazione dei propri alter ego blocky. Dopo gli storici interventi di Second Front, Eva e Franco Mattes e Gazira Babeli su Second Life, mentre continuano a proliferare eventi musicali, fashion e di marketing su svariate piattaforme – da Fortnite a Decentraland, passando per Spatial e Minecraft – come sei arrivata a conoscere e scegliere questa piattaforma come set per la performance?
Kamilia Kard: Ho cominciato a frequentare Roblox e a studiarlo con attenzione durante la pandemia: frequentato soprattutto da teen e preadolescenti, Roblox è uno strumento importante di esperienza del sé, per una generazione che – nella maggior parte dei casi – non ha ancora le idee chiare sul proprio io; dietro la facciata di una piattaforma di sviluppo di videogame, si cela uno spazio molto aperto e frequentato per la comunicazione e lo sviluppo di relazioni interpersonali. Durante la ricerca ho osservato un gruppo di preadolescenti alle prese con la ricerca dell’ outfit giusto, dello slang giusto, delle mappe giuste, delle sottoculture giuste. Proprio queste diventavano un contenitore di molti elementi sia estetici che comportamentali per il proprio avatar, con impatti e conseguenze importanti sull’esperienza di gioco. Ho prestato particolare attenzione alle conseguenze negative di queste vicende, notando come le relazioni difficili potessero diventare tossiche a tal punto da far si che uno o più giocatori abbandonassero la mappa, o il server.
La rete è un luogo in cui molte persone sperimentano il sé, sfaccettandolo su diversi livelli: lasciarsi andare a comportamenti manipolatori o subirli è molto facile. Il mio lavoro nasce da un’idea forte di unione tra ricerca pratica e ricerca teorica: il corpo e il comportamento umano – e le loro declinazioni – sono spesso centrali nella mia indagine. TG è un po’ un punto di inizio e allo stesso tempo di arrivo di una serie di riflessioni che ho fatto sulle relazioni interpersonali che nascono o si sviluppano online e offline. Ho pensato alle relazioni tossiche come una serie di piante velenose che compongono un giardino: come se un io vegetale, un residuo ancestrale, vivesse in noi e si manifestasse nella sua accezione negativa sotto questo comportamento o forma. Queste riflessioni, unite alle mie indagini su Roblox, mi hanno spinto a scegliere la piattaforma per la costruzione di un ambiente virtuale in cui le piante velenose diventano il soggetto principale, estetizzato ed enfatizzato della mappa di gioco sviluppata.
FP: Ciò che mi ha colpito subito del concept di questo lavoro è il forte focus sulla centralità dell’atto performativo virtuale digitale per la creazione sia dell’opera d’arte che delle relazioni per il consolidamento della community. Si potrebbe dire che, su Roblox e su internet in generale, I play therefore I am: l’azione, l’interazione, la relazione in una dinamica esperienziale comunitaria sono costituenti l’essenza stessa dello stare online.
KK: Sai, il titolo della performance partecipativa deriva dall’omonimo romanzo di Haruki Murakami, nel quale la danza è l’unica azione possibile per assecondare il flusso ineluttabile del tempo che trascina l’essere umano. “Devi danzare. Danzare senza mai fermarti. Non devi chiederti perché. Non devi pensare a cosa significa. Il significato non importa, non c’entra. Se ti metti a pensare a queste cose, i tuoi piedi si bloccheranno. E una volta che saranno bloccati, io non potrò più fare niente per te. Tutti i tuoi collegamenti si interromperanno. Finiranno per sempre. E tu potrai vivere solo in questo mondo”. Come nella vita, nel testo di Murakami e online nella coreografia della performance, il ciclo della danza fa emergere problematiche legate ai rapporti interpersonali, talvolta complicati. Le relazioni umane sono corredate da sentimenti e sensazioni che non si possono sempre controllare, ad ogni modo bisogna affrontarle senza smettere mai di ballare.
In giochi multiplayer come Roblox, Fortnite, Fall Guys, dove la componente comunicativa è molto elevata, le emotes – ovvero le piccole animazioni dell’avatar – servono a far comprendere meglio lo stato d’animo del giocatore. Grazie a queste, l’avatar dell’utente ha la possibilità di esprimersi attraverso una gestualità e una mimica più complessa, come una piccola danza celebrativa se si raggiungono dei risultati soddisfacenti al gioco, le spalle ricurve in caso di delusione; animazioni più ordinarie come il pollice su, la mano che saluta ecc. Inoltre, ho notato che far ballare un avatar è una cosa che viene quasi naturale. Questa spontaneità nasce un po’ dalla diffusione di librerie di animazioni di movimenti composte per lo più da passi di danza o di lotta (come Mixamo di Adobe, o librerie amatoriali open source) e un po’ da una sorta di liberazione del movimento, un lasciarsi andare che si esprime attraverso il doppio digitale e la danza.
Applicazioni social come Zepeto si basano sulla configurazione dell’avatar e la messa in scena dello stesso corredata quasi sempre da una gestualità o da un piccolo balletto che molto spesso è tratto da coreografie note ai teenagers come quelle dei gruppi K-Pop – Black Pink, BTS e molte altri. L’associazione tra avatar, comunicazione e danza è una combinazione vincente, unisce la testualità di una chat alla espressività del corpo – seppur digitale e molte volte stilizzato – che avviene in tempo reale. Su molte mappe di Roblox questa specie di formula è molto utilizzata: mi viene in mente TTD3 – del gruppo Emote.Co – una delle più famose e frequentate da teen e pre-teen, un vero luogo di incontro e condivisione caratterizzato da una grafica molto semplice in cui gli avatar si incontrano per conoscersi e formare dei piccoli gruppi di ballo. La danza trova molte applicazioni anche in contesti virtuali come le room di VRChat, o in videogiochi basati sul movimento fisico del corpo del giocatore come Just Dance. Nella sperimentazione di tutte queste realtà, da giocatrice, animatrice 3D, user e avatar ho deciso di lavorare sulla danza, il trait-d’union tra sentimento, videogioco, arte performativa e comunicazione.
FP: Avatàr deriva dal sanscrito avatāra; nel brahmanesimo e nell’induismo, indica la discesa di una divinità sulla terra, e in particolare ciascuna delle 10 incarnazioni del dio Visnù. Per estensione, quindi: reincarnazione, ritorno, trasformazione. Daimon, ombra, doppio, doppelganger, fenomeno, copia: in ambiente digitale, è l’alter ego di uno user, rappresentazione virtuale di un’entità fisica, naturale o non, di una persona o di un sistema complesso. In Roblox, e in generale nella maggior parte dei metaversi contemporanei, la customizzazione del proprio avatar è una delle funzionalità principali e accattivanti, al centro di un ampio mercato in espansione. Ma in TG hai scelto di impedire questa funzione naturale di gioco, assegnando ai partecipanti delle skins predefinite, randomiche, da te disegnate. Come mai?
In una società dove le persone possono vedersi quotidianamente trasformate in animali, vegetali, forme geometriche e via dicendo, cosa significhi customizzare un avatar diventa una questione che apre molte parentesi sul tema dell’auto-rappresentazione.
KK: Gli avatar di TG sono ispirati alle sette piante velenose che compongono il giardino: cicuta, ricino, digitale purpurea, mughetto, tasso comune, stramonio e belladonna. Una volta che il giocatore entra nella mappa, perde la propria skin customizzata per assumere in maniera randomica quella di una pianta tossica. La consapevolezza di una corporeità digitale è un passaggio fondamentale nella pratica del sé online: secondo Merleau-Ponty il corpo è il portale attraverso il quale vengono esperite le percezioni e in tal senso condizione necessaria per l’esperienza. Applicato al doppio digitale e all’avatar, questo assioma fa comprendere il ruolo centrale della corporeità digitale nelle esperienze online. Di conseguenza, la costruzione di un avatar è un passaggio fondamentale per un utente che vive in maniera costante e quotidiana ambienti di socializzazione online come Roblox o Second Life.
Già tra fine anni 90 e inizio 2000, Sherry Turkle e Richard Bartle hanno osservato e ipotizzato una classificazione di come gli utenti si rappresentano mediante avatar, riassunta in quattro macro categorie di customizzazione: realistico, ideale, role-playing e fantastico. A volte chiedo ai miei studenti i loro pacchetti avatar – l’insieme qui-e-ora delle auto-rappresentazioni online in vari ambienti e piattaforme – per analizzarli insieme: nel corso di queste esercitazioni, è emerso che soprattutto le prime due categorie non tengono conto di una serie di aspetti identitari esistenti, tra cui le questioni di genere e anche di interspecie. Perché se mi rappresento verde con i capelli come foglie e un’apparenza efebica sono un avatar fantastico o ideale? Perché la definizione di avatar-persona – quando l’utente vive in primissima persona quello che accade al suo avatar – si applica prevalentemente agli avatar realistici? In una società dove le persone possono vedersi quotidianamente trasformate in animali, vegetali, forme geometriche e via dicendo, cosa significhi customizzare un avatar diventa una questione che apre molte parentesi sul tema dell’auto-rappresentazione.
Allo stesso tempo, se uso un albero o un fiore o un animale come avatar e lo faccio muovere nello spazio virtuale come un essere umano, sto umanizzando la specie originaria: per esempio, su VRChat molti avatar animali riconoscibili come quadrupedi, non si muovono nello spazio su quattro zampe ma su due, in humanoid mode; se voglio assumere le sembianze di un fiore, per riuscire ad animarlo devo dotare lo stelo di gambe (seppur stilizzate), trasformare le foglie in braccia e riconoscere dei punti della loro armatura come bacino e mento perché la programmazione della deambulazione, in molti casi, è vincolata allo scheletro digitale dell’umanoide. Nulla di nuovo: associare le caratteristiche e l’intelligenza umana ad animali, vegetali e tecnologie è un’ attitude persistente, datata e duratura dell’indole umana; idem per le emozioni e conseguentemente per le espressioni del volto o la gestualità del corpo.
Nel tentativo di abolire barriere di genere e specie ho creato i miei avatar come degli ibridi tra umano e pianta velenosa, che senza possibilità di scelta vengono assegnati in maniera randomica al visitatore. La parte umana non ha connotazioni di genere definite ed è priva di una espressività facciale. Durante lo studio di character design ho scelto di utilizzare la tipica anatomia blocky di Roblox – nonostante ci sia la possibilità di creare avatar più arrotondati e realistici – per posizionare l’estetica dei personaggi della mappa in una sfera tradizionale e originale del gioco, e contemporaneamente veicolare attraverso un mood visivo più dolce, cute, un messaggio serio come le relazioni tossiche, creando un contrasto tra la rappresentazione e il contenuto.
FP: TG si configura come digital performance, spettacolo mediale dal vivo in cui la tecnologia in scena è essenziale; operazione artistica, sistema complesso in atto in cui le tecnologie svolgono un ruolo da protagonista, in cui per definizione soprattutto nel mezzo, nelle sue funzionalità, esecuzione e fruizione si esprime la liveness dell’opera. Il lavoro è stato presentato in molti contesti istituzionali dell’arte e del teatro: come stanno reagendo i partecipanti/user/spettatori a questo tipo di spettacolo? Ultimamente poi ti è stato chiesto di prevederne anche una versione in fruizione semi ibrida, ovvero con la possibilità per il pubblico di osservare la performance proiettata all’interno di spazi teatrali IRL. Questa dinamica favorisce la comprensione del lavoro da parte dello spettatore?
KK: Dopo il debutto ho avuto numerose occasioni e inviti a presentare TG sia online su Roblox sia con fruizione in forma ibrida – a teatro e contemporaneamente online; da entrambe le esperienze ho ricavato delle osservazioni interessanti. Quando la performance si svolge esclusivamente online, ho modo di relazionarmi di più con le persone sia attraverso la corporeità digitale sia in forma scritta: la comunicazione è più attiva da parte mia, così anche la mia libertà di movimento dentro allo spazio: non sono io al centro dello spettacolo, è lo spettatore stesso che oltre a essere performer è anche il main gaze della performance. In questa modalità, ogni performer-avatar, connettendosi dal proprio dispositivo e giocando in prima persona, ha il proprio sguardo soggettivo sull’esperienza; si crea una decentralizzazione della prospettiva a discapito dell’illusione del punto di vista unico e sovrano dell’artista.
Questa forma di libertà mi ha permesso di guardare in maniera più approfondita il comportamento diverso dei partecipanti durante la parte coreografica e individuale-esplorativa: c’è stato chi ha amato il controllo della parte coreografica e il suo ambiente più contenuto, c’è chi invece ha preferito sentirsi libero di giocare, correre e esplorare nel giardino; ci sono stati trolls e chi ha continuato a morire appositamente per poter cambiare skin perchè non soddisfatto di quella assegnatagli randomicamente al primo colpo; ci sono stati avatar riuniti per formare un corpo unico di danza, chi saltava a destra e sinistra e via dicendo.
Nella performance ibrida i punti di vista decentralizzati rimangono: gli spettatori entrano in TG utilizzando i loro devices seduti sugli spalti del teatro, a cui si affianca la mia visione che corrisponde alla proiezione centrale sul palco. In questa forma, il binomio performer e spettatore – che già esiste nella forma solo online – diventa più riconoscibile ed è amplificato grazie al dispositivo del teatro. Dalla mia postazione in teatro è stato interessante notare come le persone confrontassero la loro esperienza con quella degli altri spettatori-performer e con la mia, il dialogo e lo scambio è stato spalmato su più livelli: da una parte giocando con il loro avatar e relazionandosi con l’ambiente, la danza e gli avatar degli altri nel Metaverso; allo stesso tempo confrontandosi a voce e sbirciando le performance di chi gli era seduto accanto o di fronte. Inoltre, hanno guardato la mia proiezione immersi nella musica: le persone che non hanno voluto o potuto giocare si univano ad altre, formando dei piccoli cluster rappresentati da un unico avatar, seguendo la mia regia sullo schermo del teatro.
All’interno del mio giardino online, lo scambio filosofico lascia il posto alla danza: un linguaggio allo stesso tempo aggregante e conoscitivo, per il raggiungimento della conoscenza del sé, e veicolo per condividere esperienze e sensazioni comuni.
Decentralizzazione in singole bolle del punto di vista, formazione di piccoli gruppi (cluster), riunificazione della prospettiva centrale nel dispositivo fisico del teatro, amplificazione della dicotomia spettatore-attore sono alcuni elementi che ci offrono una rappresentazione artistico-performativa di quella struttura sociale che Benjamin H. Bratton definisce “la catasta” (the stack). Infatti in questo tipo di esperienza i confini materiali si sovrappongono a quelli digitali in maniera del tutto naturale: la persona umana è presente nello spettacolo sia come persona in carne ed ossa, sia come avatar, esso è attore e visualizzatore sia sugli spalti che nel Metaverso. Nella rappresentazione a teatro, il mio ruolo non si limita ad attivare ciò che è stato precedentemente programmato e codificato, ma diviene regia attiva dal punto di vista cinematografico, in dialogo con ciò che avviene in scena e online in tempo reale. Mi piacerebbe avere almeno cinque dispositivi accessibili tra il pubblico in futuro, per poter cambiare la proiezione della mia camera-avatar con quella di una di quei devices, così da dinamicizzare la regia, ristabilendo la pluralità nella condivisione dell’ esperienza.
FP: Rispetto all’esperienza in virtuale, la scenografia spaziale che hai modellato riecheggia un giardino velenoso, metafora delle relazioni tossiche umane. In TG, nella prima parte dell’esperienza, lo spettatore viene invitato a farsi esploratore dello spazio – come avviene in molti open world games, Assassin’s Creed e GTA per esempio, e nei lavori di artisti come David O’Reilly. Come sei arrivata a questa scelta e a quella di concentrati su sette piante emblematiche?
KK: Come ho accennato prima, ho immaginato le relazioni umane come un giardino di piante velenose. Quando ho cominciato a lavorare a TG avevo semplicemente un’intuizione che ancora doveva prendere forma: volevo costruire un refugium securum e una comunità, un locus dove poter agire e interagire con gli altri utenti attraverso un filo conduttore fondamentale che indagava le nocività delle relazioni tossiche. Vista la delicatezza del tema, ho cercato un approccio del tutto positivo, costruttivo, immaginando che la componente ludico/comunicativa potesse aiutarmi in questo senso. Così, ha cominciato a formarsi nella mia testa l’idea del giardino: un ambiente già caro a Epicuro, un luogo dove le sensazioni umane erano studiate in un contesto che restituiva l’uomo alla natura, senza porvisi al di sopra. Solo che all’interno del mio giardino online, lo scambio filosofico, tramite principale per raggiungere lo stare bene, lascia il posto alla danza: un linguaggio allo stesso tempo aggregante e conoscitivo, per il raggiungimento della conoscenza del sé, e veicolo per condividere esperienze e sensazioni comuni.
Considerando la società in cui viviamo come una struttura regolata da una moltitudine concatenata di dispositivi, in senso lato, potremmo definire TG un dispositivo in grado di favorire la condivisione delle proprie esperienze all’interno di un ambiente regolato e programmato a priori, e dove si manifesta un confronto con le esperienze altrui circa il tema delle relazioni tossiche – espresso attraverso l’interfaccia grafica dei passi di danza. Il soggetto di TG emerge attraverso l’incontro con gli altri avatar e lo scontro con ciò che è caricato sulla mappa: il giardino colpisce infatti per i suoi colori molto accesi e le coltivazioni esagerate, paragonabili ad architetture, di piante velenose.
Ogni pianta ha un’area ben definita e, associata, una richiesta di interazione, a volte di facile lettura, implicita nella struttura della pianta a volte più celata: una sperimentazione diretta con l’ambiente per la comprensione dell’azione richiesta. Quando ci troviamo di fronte all’area della cicuta, capiamo immediatamente che siamo di fronte a un parcour per via della disposizione dei fiori delle foglie, l’animazione etc.; mentre quando girovaghiamo nell’area del mughetto dobbiamo entrare all’interno di una pozzanghera per capire che questa azione ti fa cambiare il colore della skin. Di fatto, essendo in una piattaforma gaming, l’utente medio tenterà comunque di cercare una mission all’interno di questa mappa e in maniera più generale nel gioco.
FP: Per comporre l’esperienza, oltre alla creazione degli ambienti, hai modellato i movimenti e le interazioni fra avatar utilizzando diversi sistemi, dalla motion capture all’AI. Il risultato si condensa attorno alla virtualizzazione di passi di danza come singole unità di sentimento, attitudini e atteggiamenti legati alle relazioni tossiche. Essendo un’esperienza incentrata sulla danza, TG ha una forte connotazione anche dal punto di vista musicale. Come e con chi hai composto la coreografia e le musiche originali dello spettacolo?
Ogni area di Toxic Garden ha un’anima sonora, un suono differente associato alla pianta che, durante gli spostamenti, si interseca con il suono della pianta contigua.
KK: Durante il periodo di residenza alla Lavanderia a Vapore di Collegno (22 – 24 settembre 2022) ho lavorato con quattro danzatrici del Balletto Teatro di Torino e della Fondazione Egri: Federica Rignanese, Francesca Picca Piccon, Aurora Mecca e Giada Zilio per creare i passi di danza che compongono la coreografia di DDD. Accompagnate da Chiara Organtini, le ragazze sono subito entrate in sintonia con il progetto, ragionando ed estrapolando ripetizioni di comportamenti ed emozioni che si provano durante il coinvolgimento – attivo e passivo – in una relazione manipolatoria o tossica; di qui la scelta di affrontare le emozioni in maniera ultra analitica. Riflettendo su questi pattern comportamentali, sono emerse parole chiave, diventate poi trigger per la composizione del singolo passo.
Riflettendo sui comportamenti tossici dell’essere umano e ispirandosi alle difese delle piante velenose, abbiamo immaginato una coreografia in grado di parlare, avvertire e in qualche modo reagire agli atteggiamenti manipolatori. Al di fuori della performance, questi gesti restano a disposizione sulla mappa, nel menù dei passi di danza, e possono essere utilizzati dai visitatori come unità singole di espressione: un pacchetto di emotes originali che consente a ciascuno di dare vita a una propria personale coreografia di passi ed emozioni. La coreografia che guida i movimenti degli avatar è l’insieme ragionato di questi passi, per formare la narrazione sui generis di una relazione manipolatoria.
Sul piano tecnico, i passi sono stati ripresi con una camera e poi elaborati da un’intelligenza artificiale che li ha trasformati in animazioni 3D. Per riuscire bene nella cattura dati dei video, le danzatrici dovevano muoversi dentro un’area specifica, evitare determinati movimenti, essere vestite in un modo specifico che aiutasse l’occhio della macchina a leggere i loro gesti in maniera più fluida. Uno dei riscontri più interessanti che ho avuto dalle danzatrici è che tutti i limiti imposti dalla AI – per esempio, non fare giri troppo complessi con il corpo, non cercare troppo le profondità con i movimenti delle gambe e delle braccia e via dicendo – hanno in realtà dato loro modo di mettere alla prova la loro creatività e autorialità. Dal canto suo, l’intelligenza artificiale ha contribuito all’assetto coreografico fornendo talvolta delle interpretazioni particolari (aggiungendo dei piccoli scatti o delle rotazioni di arti al passo originale, oppure inserendo degli slittamenti delle gambe etc.) storpiando i singoli passi. Di nuovo: un’ ispirazione di partenza in ambito vegetale si traduce in corpo umano e in movimento, che a sua volta viene poi rivisto da un programma; un passaggio fluido, naturale tra vegetali, umani, avatar e intelligenza artificiale.
La musica di TG è del musicista Rafael Bresciani che si è ispirato alla coreografia sviluppata durante la residenza, è stata composta dopo la danza in questo specifico caso. La traccia omonima accompagna la performance in un loop continuo interrotto da momenti bruschi e sonoramente graffianti (il colpo delle relazioni tossiche) e da partizioni più dolci e melodiche – quasi oniriche (la fase piacevole delle relazioni). Riecheggiando la fascinazione delle piante, il sound design della mappa esplorativa è di Cristina Angeloro: ogni area di TG ha un’anima sonora, un suono differente associato alla pianta che, durante gli spostamenti, si interseca con il suono dell’area/pianta contigua, formando delle piccole relazioni musicali temporanee, quasi impercettibili.