Ballare è una forma di ascolto
Jace Clayton vive a New York ma è sempre in giro per il mondo. È noto come musicista con il nome di DJ /rupture, ma è anche uno scrittore, uno studioso e un artista multidisciplinare. È arrivato al successo nel 2001, registrando in modo casalingo un mix (Gold Teeth Thief) in cui mescolava musica da Missy Elliott a Muslimgauze passando per breakcore, ragga e folk arabo. Il mix, caricato su Internet, ha avuto una fortuna inaspettata fino a entrare, tra le altre cose, nella lista dei dischi dell’anno di The Wire.
Da allora Clayton non ha mai smesso di esplorare nuove strade e nuovi mondi nella sua attività di studioso e di musicista, dai mixati di cumbia venduti solo in un taco shop dell’East Village ai plug-in che applicano soluzioni non-occidentali alla musica i cui comandi sono scritti soltanto nell’alfabeto poetico berbero. Nel 2016 ha pubblicato il libro Uproot: Travels in 21st-Century Music and Digital Culture (edito in Italia da EDT con il titolo Remixing. Viaggi nella musica del XXI secolo), summa dei suoi ascolti, dei suoi studi e dei suoi viaggi: un lavoro formidabile, spesso illuminante, sempre estremamente interessante, in grado di esprimere punti di vista radicali e originali sul mondo in cui viviamo e le musiche che lo popolano.
A luglio è venuto a Milano al teatro Parenti per la rassegna Electropark Exchanges, dove ha tenuto un workshop all’interno del Music Innovation Lab ExEx e dove ha presentato il suo spettacolo Julius Eastman Memorial Dinner, dedicato al geniale compositore americano di scuola minimalista, morto nel 1990 in povertà (anche per via della radicalità della sua opera e della sua vita) dopo avere collaborato con alcuni giganti della musica contemporanea. L’ho faticosamente raggiunto via mail nel corso dei suoi infiniti viaggi per parlare un po’ di tutto questo.
ll tuo lavoro è molto intrecciato tra teoria e pratica: sei uno studioso, uno scrittore e un artista. Come si fa a sposare pratica e teoria? Si riesce a non avere un approccio troppo freddo, troppo distante? E come si trova anche il tempo per fare tutto?
Per me si tratta di rendere onore alla mia stessa pluralità. Non mi vedo come diviso tra la ricerca, la scrittura e la produzione artistica – sono tutti aspetti di un tentativo più grande di vivere una vita in cui ascoltare attentamente quello che succede intorno a me, esplorare piaceri estetici e curiosità intellettuali. Come dico nel mio libro Uproot, «ballare è una forma di ascolto». C’è questa grande idea di una divisione tra il corpo e la mente, tra la ricerca e la creazione, ma io non la penso così. Invece di questa idea occidentale della «distanza critica» che presuppone il dominare un soggetto e diventarne un esperto, io cerco di lavorare in una posizione di «intimità critica», avvicinandomi – magari anche in modo un po’ confuso ma molto sanguigno – alle cose che amo.
Cosa ne pensi del concetto di appropriazione culturale? Penso che te lo chiedano spesso. L’idea è molto in voga e ha un senso, ma da un certo punto di vista è anche un limite alla creatività? Tu mi sembri uno che non è molto favorevole alle limitazioni alla creatività, e sostieni che la musica – come forse un po’ tutto quanto – debba circolare liberamente, ma ci sono anche dei meccanismi di potere in atto.
In ogni ambito culturale la questione dell’appropriazione è importante. Ed è connessa a più ampi meccanismi di potere. Per esempio, in un festival musicale o parlando di giornalismo, è sempre bene chiedersi: chi è il capo? Chi sceglie gli artisti? In tutte quelle situazioni o istituzioni che sottolineano la presenza di artisti «diversi», quella diversità (o mancanza di diversità) è presente anche nella squadra organizzativa? Spesso la gente parla di appropriazione musicale ma, per me, è probabilmente meno importante che pensare agli squilibri di potere che stanno in altre parti dell’ecosistema musicale: promoter, agenti, giornalisti, booking, proprietari dei locali e tutto il resto.
Un altro tema importante, e ormai da molti anni di attualità è quello del copyright. Probabilmente non sei molto incline alle regolamentazioni strette, ma alcuni si chiedono come tutelare l’economia degli artisti. Che risposte ti sei dato? Forse dobbiamo smettere di pensare in termini economici e ritornare a guardare alla creatività?
Se si vuole davvero supportare gli artisti e proteggere i loro interessi, dovremmo innanzitutto parlare di affitti e di mercato immobiliare! Il copyright è un cerotto messo su una ferita fatta da una pistola. Per carità, è ottimo quando i musicisti vengono pagati per il loro lavoro, ma le leggi sul copyright tendono ad andare a beneficio di chi è già dalla parte del potere. Molta della musica che amo è informale: canzoni che campionano altre canzoni, musiche originali fatte da ragazzini che non hanno mai sentito parlare di copyright, mixtape… Tutta questa roba esiste al di fuori del regime legale del copyright. La maggior parte della mia musica è fatta di mix non autorizzati! Ma tornando alla domanda: quello di cui i musicisti hanno bisogno è di un’intera cultura che li supporti: istruzione, accademia, servizio sanitario pubblico, salari giusti per le donne, affitti controllati… Queste sono le cose che contano.
In un mondo in continua evoluzione e piuttosto incasinato è facile avere una prospettiva apocalittica sulle cose. Tu però sembri essere di base un ottimista, come mai? Che cosa ti spinge ad avere tutto sommato una visione positiva delle cose e del futuro?
È strano: sono pessimista riguardo al futuro dell’umanità ma ottimista rispetto al futuro della musica. Il mio ottimismo musicale nasce dal fatto che è sempre più facile per la gente fare musica e scoprire musica da tutto il mondo. La musica è del tutto collegata alle mutazioni, ai cambiamenti, le influenze, i furti… Quindi anche in tempi molto caotici come quelli che stiamo vivendo, con l’ascesa di un totalitarismo oligarchico globale, continua a circolare musica grandiosa. Questo stranamente mi dà comunque molta speranza. Le idee circolano molto velocemente nella musica, più del denaro.
Da un lato internet ci dà accesso a mondi come mai nel passato, ma da un altro è anche facile rinchiudersi in quello che possiamo chiamare mainstream, il flusso principale, quello che ci viene dato dall’alto e che arriva a tutti. Parlando di musica, in un mondo fatto di Pitchfork, Spotify, Facebook… sembra quasi che mentre la ricerca è più che mai alla portata di tutti, la voglia di farla sia al minimo storico e tutti finiscano per ascoltare le stesse cose, le stesse «uscite importanti». Quali pensi possano essere dei buoni antidoti a questo approccio e a questa situazione? È una responsabilità anche per il pubblico, in qualche modo.
Questo è molto vero. Nel futuro, tutti ascolteranno soltanto una singola canzone di Drake in repeat per l’eternità. L’apocalisse sarà un sollievo. Come fermare questo processo? Facendo quello che noi stiamo facendo in questo momento: parlando di quale tipo di futuro vogliamo per la musica, poi andare là fuori e costruire le comunità e le tecnologie che possano aiutarci ad avvicinarci a quel futuro. Perché se gli appassionati non si prendono qualche responsabilità, le grandi corporation continueranno a insegnarci a essere sempre più tutti uguali. Cose come Spotify rimuovono il contesto, i metadata e le informazioni dalla musica che diffondono. Non è una bella cosa. Dobbiamo affermare l’importanza del contesto e pensare a nuovi modi di ascoltare e archiviare la musica.
Pensi che esista anche il rischio di un’omologazione artistica, e che tutto finisca per suonare più o meno uguale a tutte le latitudini?
Qui è il linguaggio a essere un nostro alleato. Sì, la musica suona sempre più simile. È un dato di fatto reale: ogni anno nel mondo la musica è sempre più simile, in Uproot parlo di questo scienziato spagnolo che ha analizzato cinquant’anni di musica pop e lo ha confermato! Ma contro questa situazione ci rimane il potere del linguaggio, il rap è un ottimo esempio di questo. Come genere il rap, e specialmente la trap, nel 2018 è un suono completamente globale. Però gran parte della sua identità viene dal rappare nella tua lingua, usando il tuo slang, parlando del tuo ambiente e del posto da dove vieni. Non lo fanno tutti, ma è un modo molto potente per non perdere di vista la dimensione locale.
Categorizzare e archiviare sono probabilmente rimasugli di un approccio nostalgico, conservatore. Io per esempio ho trent’anni, non sessanta, e ho la casa invasa di dischi. Perché faccio fatica a sentire davvero mia una cosa che non possiedo in supporto fisico – anche solo preparandomi a questa intervista ho sentito il bisogno di ordinare dei dischi (la raccolta di Julius Eastman, il tuo Gold Teeth Thief, e sicuramente andrò a caccia di alcune cose di quel pop berbero fortemente impregnato di autotune). Il problema è forse proprio nell’idea stessa di possesso? Pensi anche tu che sia un problema? E ce l’hai anche tu o sei riuscito ad andare oltre, verso una smaterializzazione?
Per essere un dj, non possiedo così tanti dischi. Non sono quel tipo di collezionista. Ma è importante avere accesso a un archivio che si possa controllare in prima persona. Come ho detto prima, aziende come Spotify stanno attivamente provando a distruggere gli archivi musicali. Fa paura. Il mio amico Ghislain Poirier scarica una copia di ogni canzone o video che gli piacciano, sa quanto è instabile internet. Più che pagare per la musica è importante avere delle copie di quello che ti piace alle quali poter accedere, archiviate in posti dove Google o Spotify non le possano cancellare.
Nel tuo Uproot c’è un capitolo ormai quasi leggendario dedicato alla storia interessantissima dell’Auto-Tune. E si parla molto di come viene percepito a seconda dei diversi paesi del mondo. Trovo particolarmente interessante come per alcuni puristi sia qualcosa di inaccettabile, qualcosa che non riescono a reggere. Secondo te come si spiega questo odio?
Gli hater dell’Auto-Tune tendono a percepirlo come qualcosa di povero e plasticoso che degrada o rimpiazza la presenza di anima nella musica.
Ma pensi che sia tutto sommato normale «odiare» alcuni elementi in musica? Non credi che un ascoltatore «maturo» dovrebbe essere in grado di superare queste idiosincrasie e apprezzare quello che c’è di interessante nelle novità?
La gente spesso ascolta sempre meno cose nuove, con il passare degli anni. Credo sia importante essere ascoltatori immaturi. Amo il cambiamento e la novità nella musica. Nuovi suoni, nuove idee. Non mi piace la nostalgia in musica: credo che la musica sia fatta per il presente, e debba essere qualcosa di attivo. Sicuramente va benissimo non apprezzare certi elementi o certi generi, ma bisognerebbe provare ad ascoltare con le orecchie aperte, con uno spirito aperto. Nessun suono e nessun genere sono neutri. Molta gente parla di come odia l’Auto-Tune per evitare di dire che odiano le novità, è vero. Quindi penso sia importante provare davvero a pensare o a spiegare che cosa rende un suono o uno stile interessante (o terribile), e non ripetere soltanto dei cliché, come quello che «l’auto-tune è una brutta voce robotica».
Sei praticamente un avventuriero, un viaggiatore della musica, mosso da una fame insaziabile. Secondo te qual è il fine ultimo di tutta questa ricerca, di tutta questa voglia di scoprire: solo passione o c’è altro? È soltanto una «soddisfazione personale» o attraverso la divulgazione si può arrivare a qualche risultato su scala più ampia?
Penso che il mio libro sia la migliore risposta a questa domanda!
Intendi che possiamo trovare la risposta nel tuo libro o che fare un libro come questo possa essere la risposta? In questo senso credo che il libro contenga molte lezioni per noi ascoltatori.
Intendo che ho scritto il libro perché avevo delle idee, delle intuizioni e delle storie da condividere, che le mie esperienze e i miei pensieri non sono solo per me o per il mio piacere personale, ma parte di una conversazione più ampia che riguarda la cultura, il potere, la memoria, la tecnologia, i corpi, un sacco di cose… L’apprezzamento della musica comincia con il piacere personale, ma diventa davvero importante quando sfocia in discussioni, conversazioni, collaborazioni. Quindi lavoro sia come musicista (e collaborando con altri musicisti) che scrivendo (si scrive per imparare).
Hai deciso di ridare attenzione all’opera di Julius Eastman, vuoi parlarci di questo compositore non conosciuto quanto meriterebbe? Che cosa ti ha colpito della sua opera e, forse, della sua vita? Stiamo parlando di una persona che ha avuto una importante carriera accademica, ha suonato in giro per il mondo, lavorato con Arthur Russell, Meredith Monk, Pierre Boulez… e che è morto in povertà assoluta, addirittura con le sue partiture poste sotto sequestro e cancellate dalle librerie pubbliche.
Quando ho sentito per la prima volta la sua musica sono rimasto scioccato – perché era bellissima, e non l’avevo mai sentito nominare prima, pur conoscendo bene la musica della New York degli anni Settanta e Ottanta. Era incredibile: una persona che realizzava composizioni fantastiche, e che era praticamente stato cancellato dalla storia. Ho deciso di realizzare il Julius Eastman Memorial Dinner per portare attenzione al suo lavoro, ma non ripresentandolo meramente con una normale performance di musica classica o con un articolo nostalgico sulla sua biografia. Il lavoro di Eastman sfida la storiografia classica in modo profondo e in grado di mettere a disagio. Eastman era una persona problematica che realizzava arte problematica, e ho voluto rendere onore anche alla sua irrequietezza.
Tra i titoli dei suoi lavori troviamo «Nigger Faggot», «Dirty Nigger», «Evil Nigger», «Crazy Nigger” e «Gay Guerrilla». Nel suo lavoro c’è un elemento di radicalità che pur essendo passati quarant’anni sembra purtroppo più attuale e necessario che mai, sia in America che nel nostro paese.
I titoli dei suoi brani sono a loro volta delle opere d’arte concettuali. Sfidano chi può nominarli o metterli per iscritto, dove possono essere messi in scena, e drammatizzano le identità percepite dei musicisti che li suonano. Non si tratta di affermare un’identità – che sia l’identificarsi come italiani, o gay, o qualsiasi altra cosa – si tratta di mettere in discussione l’idea di uno spazio neutro di ascolto. Le convenzioni su come si intitolavano le opere a quel tempo erano piuttosto autoreferenziali e conservatrici: «Music for 18 Musicians», cose così. In questo senso le sue preoccupazioni sono molto contemporanee.