Austria radicale
La denazificazione dell’Austria non è mai avvenuta. E dal 2013 Sebastian Kurz trama e ordisce una violenta virata a destra della sua nazione. Risale ai tempi in cui era ministro degli Affari Esteri la chiusura dei confini a est, d’accordo con i vicini balcanici, giusto un anno prima della «crisi dei migranti» che aveva causato lo sdegno della cancelliera Merkel e il plauso di una cospicua fetta di popolazione austriaca. Tanto che nel 2017, a capo del partito democristiano ÖPV (Österreichische Volkspareti – Partito Popolare Austriaco), ha vinto le elezioni diventando, a trentadue anni, il leader democratico più giovane al mondo. In occasione del primo mandato Kurz scelse di allearsi al FPÖ (Freiheitliche Partei Österreichs – Partito della Libertà Austriaco) partito notoriamente nazionalista la cui fondazione nel 1956 vantava tra gli «ideali» la venuta di un pangermanesimo. Il primo governo Kurz comprendeva sei ministeri su quattordici affidati a esponenti del FPÖ ovvero: ministro degli Interni, degli Esteri e della Difesa e l’allora leader della destra populista Heinz-Christian Strache è stato nominato vicecancelliere. Il Time all’epoca titolava gli articoli su Kurz definendolo l’uomo che ha fatto diventare mainstream l’estrema destra. Sono aberranti, infatti, alcune delle leggi e normative patriottarde entrate in vigore durante la sua legislatura, come per esempio i sussidi di importi diversi in base alla nazionalità del richiedente, l’assegno familiare decurtato se non viene attestata una sufficiente conoscenza del tedesco. Riporta Il Post che Reinhold Mitterlehner, ex vicecancelliere ed ex leader di ÖVP, ha dichiarato: «Siamo su una via problematica che porta da una democrazia liberale a una democrazia autoritaria», menzionando politiche «disumane e ciniche», oltre che mancanza di rispetto per gli organi e l’indipendenza di magistratura, media e democrazia parlamentare. Il secondo mandato di Kurz, vinto nonostante i vari scandali in cui era stato coinvolto il governo e la sua conseguente caduta determinata dall’Ibizagate, prevede una nuova alleanza. La FPÖ, in seguito a Streiche che promette appalti in cambio di denaro a un sedicente oligarca russo, ha infatti perso parecchi punti agli occhi dell’opinione pubblica, per cui Kurz ha optato per una coalizione con i Verdi. Ad oggi il cancelliere in carica è indagato per falsa testimonianza riguardo all’Affare Ibiza e compare come co-protagonista di alcuni scandali «minori» insieme al Ministro delle Finanze Gernot Blümel. Il suo partito, pur avendo perso credibilità, rimane in testa rispetto ai socialisti del SPÖ (Sozialdemokratische Partei Österreichs – Partito Socialdemocratico D’Austria). E questo è ciò che è accaduto solo negli ultimi anni.
Da ben prima di Kurz, i più geniali esponenti della cultura austriaca, con la loro opera, ci hanno messo in guardia dal sostrato nazionalista, catto-bigotto e reazionario che continua imperituro a germogliare al di là delle Alpi. A partire dal capostipite della letteratura mitteleuropea del Novecento Musil con il suo L’Uomo senza Qualità, ci sono poi le esilaranti invettive di Thomas Bernhard raccolte nel volume I miei Premi, in cui l’autore immancabilmente si lanciava durante la ricezione di prestigiosi premi letterari consegnatigli da — a detta sua — ignorantissimi ministri della Cultura (per un godimento massimo consigliamo la versione letta da Elia Schilton per il programma Ad Alta Voce). O da uno qualsiasi dei film di Ulrich Seidl, ma in particolare Im Keller, film documentario che riprende le attività che gli austriaci amano praticare nel segreto delle loro cantine, tra cui l’evergreen: bere birra e grappa mentre intonano, nostalgici, inni nazisti circondati da drappi e stendardi di croci uncinate, ritratto del Führer e croci celtiche.
In questa sede, però, abbiamo scelto di concentrarti su tre autrici donne. Una, Ingeborg Bachmann, la cui multiforme opera è continuo oggetto di studi in tutto il mondo. Un’altra, Elfriede Jelinek, controverso e malcagato Premio Nobel, che ad oggi continua a portare avanti un implacabile attivismo politico attraverso i suoi scritti. La terza, Marianne Fritz, si spera futura grande riscoperta, recentemente pubblicata per la prima volta in inglese e in italiano, autrice di uno tra i più ambiziosi progetti di letteratura sociale.
Ma partiamo da Laura Boella, che sceglie una parola-ombrello sotto cui raggruppare cinque diverse autrici: «le imperdonabili» dell’omonimo saggio sono Milena Jesenská, Etty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann e Cristina Campo. Imperdonabile è la loro «estraneità al contesto, l’inclassificabilità, la dissidenza dal gioco delle forze». Seguiamo il suo esempio e scegliamo la nostra parola: Austria, è chiaro. Sotto ci mettiamo — di nuovo lei — Ingeborg Bachmann, Marianne Fritz, Elfriede Jelinek. Imperdonabili e austriache contemporaneamente. A cominciare da Bachmann, che è stata scelta perché è in lei, vent’anni più anziana, che individuiamo un punto di partenza della letteratura austriaca senza cui non sarebbero state possibili l’opera di Fritz e quella di Jelinek, per tratteggiare una linea che unisce tre delle scrittrici più radicali e infaticabili della letteratura europea e austriaca.
Bachmann vive la guerra e vive il senso di colpa che accomuna tutti i figli e le figlie dei carnefici — putativi o effettivi che fossero — e che incomberà su Austria e Germania per ancora molti anni a venire. Si innamora di Paul Celan, ebreo rumeno scampato alla cattura nazista che perde entrambi i genitori nel campo di concentramento di Michajlovka, in Ucraina. All’università si laurea con una tesi in filosofia su — ovvero contro — Martin Heidegger. Fu allieva di Victor Kraft, membro del Circolo di Vienna, un ritrovo di filosofi e scienziati neopositivisti che si sciolse dopo l’assassinio del fondatore da parte di un fanatico nazista. Visse in varie città dell’Austria, principalmente a Vienna, in Germania, in Svizzera e a Roma. Rifacendoci al capitolo dedicatole da Boella, sottolineamo qui alcuni punti nella scrittura di Bachmann che ci sono utili a tracciare un disegno di continuità tra le tre autrici. Come molti altri suoi contemporanei, Bachmann si interroga sulla possibilità della letteratura dopo il Nazifascismo; fu Adorno, poi più volte ripreso e parafrasato, il primo a esternare il problema: «La critica della cultura si trova dinanzi all’ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie: scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è diventato impossibile scrivere poesie oggi». Per Bachmann, «il cui contesto fondamentale della sua opera è costituito dalla storia europea, austriaca e tedesca in particolare, dal nazismo e dalla guerra, dallo smarrimento e dalla confusione spirituale di un’epoca priva di riferimenti, abbandonata alle frasi fatte, ai ruoli burocratici e agli stereotipi della cultura massificata» è possibile scrivere all’alba della Seconda Guerra Mondiale solo nella misura in cui all’esperienza globale si aggiunga «schiettamente la propria». Bachmann è alla ricerca di un posto all’interno della storia dell’Europa del dopoguerra, ora che, come afferma lei stessa, «l’io non è più nella storia, ma è la storia oggi a essere nell’io» e lo cerca attraverso la scrittura, che è forma di esperienza del mondo e di conoscenza. L’originalità del suo modo di intendere il rapporto tra singolarità e storia, tra vissuto e letteratura deriva dallo scollamento drastico che è avvenuto tra esperienza e parola nel mondo a lei contemporaneo. Non è un caso infatti che Bachmann si sia appassionata a Wittgenstein, che si domandi costantemente cosa è dicibile e cosa è indicibile, che si interroghi sulle sorti della lingua tedesca, ora frantumata insieme alle macerie di guerra. Scrive Boella: «i suoi scritti in prosa […] portarono coraggiosamente avanti una ricerca sul linguaggio come forma di esperienza. In essi le forme di comunicazione tipiche di una società di massa — telefono, lettere, interviste, dialoghi, stereotipi linguistici — hanno un posto centrale come forme problematiche della narrazione».
In questo condensato dell’analisi di Boella troviamo due punti che collegano Bachmann con le autrici successive e che ritroviamo rispettivamente in Jelinek e in Fritz: la concezione del linguaggio come esperienza e l’idea della storia che è entrata dentro all’io.
Secondo Bachmann il fascismo si è annidato, a partire dal ’45, nella famiglia, nella sessualità tra uomo e donna e nella repressione e violenza esercitata sui figli, e sebbene Elfriede Jelinek nel colloquio «Germanesimo come metafora» dica di non avere, a livello letterario, molti punti in comune con Bachmann, «che è una scrittrice della discrezione, della reticenza, mentre io scrivo usando registri molti più accesi: la mia letteratura è una letteratura del contrasto, della polemica, del sarcasmo…», dal punto di vista teorico però si dice «sicuramente sulla sua stessa linea», sostenendo di avere «solo radicalizzato ciò che Ingeborg Bachmann aveva già formulato negli anni Sessanta, senza aver del resto trovato un movimento femminista realmente funzionante».
Lo smascheramento della violenza nelle relazioni uomo-donna Jelinek lo attua in Le amanti (1975) la cui prefazione si chiude così: «se qualcuno ha un destino, è un uomo. se qualcuno riceve un destino, è una donna. Disgraziatamente qui la vita passa, solo il lavoro resta. Qualche volta una delle donne cerca di unirsi alla vita che passa e di chiacchierare un po’ con lei. Ma spesso la vita se ne va via in macchina, troppo veloce per la bicicletta. Arrivederci!»
Le amanti è un romanzo che non prevede maiuscole, e se questo in italiano ha un effetto tipograficamente elegante, in tedesco risulta molto più straniante e sovversivo per il lettore abituato a vedere con la maiuscola anche i nomi comuni. La brutalità del linguaggio del romanzo rispecchia la brutalità dei rapporti. La narrazione alterna il racconto della vita di brigitte a quello della vita di paula. Entrambe operaie in una fabbrica di corsetti e reggiseni, brigitte vuole sposare heinz e salire la scala sociale, paula vuole diventare sarta e sposare il belloccio del paese. Entrambe si illudono che sposando l’uomo che vogliono, uscendo finalmente dal nucleo familiare, riusciranno ad affermarsi nella società e come individui. Invece transitano da un contesto di sopruso all’altro. I modelli di sopraffazione vissuti e appresi nella famiglia di origine si replicano nella nuova: la ragazza abusata da un padre alcolizzato diventa moglie abusata da un marito alcolizzato e a seguire madre abusata di un figlio abusato. Così si perpetra un ciclo ininterrotto di sofferenze e colpe trasmesse di generazione in generazione. Sulla stessa linea si pone Gli esclusi, di cinque anni successivo, che già nelle prime pagine sferza una critica affilatissima alla società (e alla classe politica) austriaca e asserisce: «Anna è una carnefice. La vittima è sempre migliore perché è innocente. Tuttavia, in questo periodo i carnefici innocenti sono ancora molto numerosi».
Come Le amanti anche Gli esclusi si avvale di una lingua cruda e di alcuni accorgimenti pensati per suscitare nel lettore un senso di oppressione, maligna incombenza e perentorietà. L’uso degli aggettivi è ridotto al minimo, il ritmo è serrato, il punto di vista è un oscillante io/noi non apertamente situato, il tempo è presente. Gli esclusi del titolo sono quattro adolescenti, due borghesi, un’aristocratica decaduta e un proletario, colmi di rabbia nei confronti del mondo in cui stanno per diventare adulti. Schiacciati da una società in cui il peso della ricostruzione materiale e morale di un paese colpevole grava sui più giovani, rigettano violentemente un modello di vita a cui non voglio appartenere e sfogano tutto il loro disprezzo, tutta la la loro ferocia, sui mediocri, su chi si conforma.
Elfriede Jelinek, premio Nobel a 58 anni, si inserisce nella ricca schiera dei Nestbeschmützer («insozzatori di nido») della tradizione letteraria austriaca. Come Fritz, anche lei non accetta nessun compromesso e lo sperimentalismo della sua lingua è tale che alcune opere viaggiano sul filo dell’intraducibilità. L’innovazione della sua scrittura non sta solo nella creazione di neologismi, nell’arrangiamento sintattico a mo’ di partitura musicale, nella deliberata violazione delle soffocanti regole grammaticali tedesche e nello smembramento lessicale portato all’estremo (il tedesco è una lingua ricca di parole composite formate dall’unione di più sostantivi con preposizioni o preposizioni e verbi), Jelinek ha anche preso la tecnica dadaista di montaggio applicata alla letteratura e l’ha sviluppata in funzione delle sue esigenze artistico-politiche. Quello che aveva fatto Bachmann con il telefono, le lettere, le interviste inserite nella prosa, l’autrice premio Nobel lo fa in maniera molto, molto più violenta. Già a partire dal suo esordio, bukolit, scritto nel 1968, l’autrice mischia e accosta diversi linguaggi — quello pubblicitario ai proverbi tradizionali, per esempio — e proseguendo con la sua produzione raffina la sua cifra stilistica.
Nuvole. Casa. è un monologo teatrale scritto nel 1988 in cui Jelinek usa i versi di Hölderlin, le citazioni dall’idealismo tedesco di Hegel e Fichte, alcuni brani da Heiddeger e dai comunicati della Rote Armee Fraktion per attestare, alla luce dei rimandi filosofici, culturali e letterari, l’intrinseco nazionalismo germanico.
Bambiland, del 2004, usa la stessa strategia per denunciare l’invasione americana in Iraq. Lo fa montando insieme il linguaggio giornalistico dei reportage trasmessi dalla tv statunitense, in particolare quello della CNN, a I persiani di Eschilo, la prima tragedia scritta sul tema della guerra, insieme a riflessioni proprie.
In ogni suo scritto l’autrice cerca di decostruire le strutture di potere antidemocratiche e coercitive presenti nella società contemporanea attraverso una lingua che metta in luce se stessa per quello che è: uno strumento dell’esperienza, modulabile in funzione del messaggio che vuole veicolare, ma mai neutrale, mai innocente.
Marianne Fritz, che ad oggi è pressoché sconosciuta anche nelle aree germanofone, esordisce nel 1978 con Il peso delle cose, un libro — il primo di una serie — davvero difficile da classificare. Si apre con l’irruenta Wilhelmine che ci mette indirettamente al corrente delle perdite subite dalla sua migliore amica Berta a causa della guerra. Sono morti tutti: il promesso sposo Rudolf e i quattro prestanti fratelli, Berta è rimasta sola, incinta, con il padre becchino. Wilhemine racconta tutto ciò a Wilhelm, compagno di Rudolf che ritorna dal fronte per mantenere la promessa fatta all’amico e prendersi cura di Berta. Quella che era cominciata come una satira crudele si trasforma in una tragedia spietata, il sorriso stupito con cui si leggeva l’inizio della storia diventa una smorfia di costernato orrore. Con una narrazione concentrica Fritz tramortisce il lettore, raccontando le conseguenze del trauma che è stata la guerra e concentrandole tutte nel personaggio di Berta, una donna che fatica a adattarsi al ruolo di madre e moglie, consumata dalle circostanze che gravano su di lei e dall’ipocrisia imperante nella società post-bellica.
«Il peso delle cose» vince il premio Walser, uno dei più prestigiosi di lingua tedesca, ma è un unicum, per brevità, nella produzione letteraria di Fritz. A seguire infatti si dedica al progetto che la impegnerà per tutta la vita. Die Festung (La fortezza) è il tentativo di riscrivere la storia dell’Austria a partire dalle vite dei suoi abitanti. Il primo volume si intitola Das Kind der Gewalt und die Sterni der Romani (Il figlio della violenza e la stella dei Rom), è un romanzo storico ambientato nel 1921 che narra le insurrezioni accesesi in un villaggio dopo che una donna rom abbandona sulla soglia di casa del proprietario terriero locale il figlio avuto a seguito di uno stupro perpetrato dall’uomo. Il secondo volume del progetto è diviso a sua volta in due tomi per un totale di circa 3400 pagine e si intitola Dessen Sprache du nicht verstehst (la cui lingua tu non capisci). Racconta la storia, ambientata allo scoppio della prima guerra mondiale, di una famiglia proletaria, la famiglia Null (zero) che vive a Nirgendwo (nessunluogo) e si scontra duramente con la storia nazionale. Johannes, il maggiore dei figli, muore al fronte e gli è così negata la possibilità di avere una storia personale. Nel corso della narrazione, i membri della famiglia vengono elevati a oggetti storici a cui sono attribuite qualità archetipiche e mitologiche. La loro salvezza è possibile attraverso una redenzione, attraverso la metamorfosi da sgraziati animali in uomini. In questo modo il romanzo si arricchisce di un ulteriore strato narrativo-utopico nel quale è possibile che l’uomo si salvi dalla distruzione operata dal potere della storia, che Fritz identifica nella triade «Gott, Kaiser und Vaterland» (Dio, Imperatore e Patria).
Già a partire da questi due tentativi è evidente la volontà in Fritz di scrivere una controstoria, la storia delle «piccole persone» schiacciate dai meccanismi del patriarcato. Volontà che si cristallizza nell’invenzione di una lingua propria che si rifiuta di seguire le regole grammaticali del tedesco. Dessen Sprache du nicht verstehst è scritto senza verbi ausiliari e articoli, senza la preposizione per costruire le infinitive, senza seguire la rigida successione e la relativa interpunzione che impone la sintassi tedesca. L’estremismo linguistico di Fritz è un riflesso del suo tentativo contenutistico di far cadere, di dimostrare nulle e decrepite tutte le relazioni di potere e dominio vigenti nella società austriaca.
La condizione di paria letteraria in cui vive non inibisce l’autrice nel perseguire i suoi obiettivi artistico-letterari, e Fritz decide di disintegrare qualsiasi idea preconcetta anche a riguardo della forma romanzo. Prosegue il suo progetto con un ulteriore azzardo: la trilogia mammut di Naturgemäß (secondo natura), volume uno, due e tre, per un totale di circa 7000 pagine, in cui rompe qualsiasi convenzione letteraria e tipografica. Definita come una controstoria e una controtopografia dell’Austria, Naturgemäß cerca di superare il tentativo intrapreso con Die Festung e riscrivere la storia nazionale dalla fondazione al presente. Ha ripreso alcuni personaggi e ambientazioni da Dessen Sprache du nicht verstehst e ci ha inserito dentro mappe, grafici, font diversi — alcune pagine vanno addirittura girate per essere lette. La trama, anzi le trame sono molteplici e si incastrano tra loro senza seguire una logica in senso stretto, la distinzione tra verità e finzione non c’è, la narrazione non è lineare, ma tutto gira intorno alla fortezza di Przemyśl, che è realmente esistita. A seguito della pubblicazione, avvenuta in dodici volumi ma comunque avvenuta, Fritz fu tacciata di grafomania e megalomania; tuttavia l’autrice aveva un obiettivo preciso mentre scriveva Naturgemäß: Fritz considerava la vita come una ferita che difficilmente guarisce, scrivendo cercava di capire come può un’unica mente umana elaborare l’orrore che è stato il nazifascismo. La sua opera omnia è il tentativo di comprendere, di rimarginare lo squarcio che la storia ha inflitto a tutti noi.
Data la vastità e complessità della produzione e la caratura artistica delle protagoniste ci sarebbe ancora molto da scrivere, ma qui ci limitiamo ricordare, sul finale, sperando che riecheggi ancora qualche istante a lettura conclusa, come tutte e tre le autrici siano accomunate anche da una generale misinterpretazione da parte del pubblico e della critica. Bachmann, per motivi cronologici la più rivalutata delle tre, in vita ha subìto uno scrutinio personale — aspetto fisico, relazioni sentimentali, scelte di stile — che sembrava mirasse a sminuire sistematicamente la sua rilevanza come scrittrice e intellettuale. Jelinek, nonostante il Nobel, soffre tutt’ora lo stigma di «scrittrice erotica» con cui è conosciuta soprattutto fuori dal mondo germanofono. Fritz, pur avendo vissuto solo grazie alla vittoria costante di premi e borse di studio — in media una all’anno per ventitré anni— continua a navigare sola oltre le Colonne d’Ercole del mondo letterario.