Appunti dal sottosuolo

Strategie per raccontare il mondo a partire dai suoi abissi più spettrali

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Il centro di Roma può essere un posto plumbeo e funereo, soprattutto alcune sere d’inverno senza luce, quando ci si ritrova a camminare e a perdersi tra le stradine che collegano le mete turistiche, le vie strette che si intrecciano dietro piazza Navona, dietro Campo de’ Fiori, tra i palazzoni barocchi e i portoni chiusi di accademie, ministeri e chiese. Da bambino, in gita al centro la domenica, mi piazzavo spesso davanti a qualche cantiere in mezzo alla via, e mi stupivo che quei buchi, sollevando l’asfalto e i sampietrini, potessero davvero mostrare il suolo umido, il fango. In una zona così fitta di case, una zona per di più con pochissimi alberi, mi aspettavo fosse più naturale trovare, sotto la strada, altro asfalto e altri sampietrini, e non ghiaia e tufo come se fossimo in campagna. Almeno in parte, la vista di quel terreno mi riconnetteva a qualcosa di meno tetro, di più familiare, mi calmava. Non mi avrebbe certo fatto la stessa impressione se avessi saputo già da piccolo dell’esistenza di quella città nascosta sotto la città, della rete non solo di resti archeologici, ville e terme sepolte, ma di ipogei, sepolcri, catacombe e gallerie di cava custoditi nel sottosuolo, spesso ormai irraggiungibili.

In Qualcosa di scritto Emanuele Trevi racconta del suo apprendistato di giovane scrittore al Fondo Pier Paolo Pasolini sotto l’egida e il controllo bisbetico di Laura Betti. In una pagina apparentemente slegata dal resto, a metà libro, svela la natura occulta, la cupezza di quel pezzo del centro di Roma, dove Betti viveva, e riconduce l’aspetto malinconico di quelle strade al mondo sotterraneo sopra cui sono state costruite. Merita di essere citato per intero, mentre immagina di accompagnare il lettore all’interno di quei palazzoni che non sono altro, scrive, che «sontuose botole degli Inferi»:

Nella penombra dell’androne, distinguete la fila delle cassette postali, la porta dell’ascensore, la prima rampa delle scale. Ma c’è sempre, anche se non ci fate caso, una porticina malmessa, chiusa da un lucchetto. Se vi fosse permesso aprire questa porta, trovereste un’altra scala, molto più stretta e buia di quella che conduce ai piani superiori. Niente di strano: è l’accesso alle cantine, ricavate dalle fondamenta. Nessuno lo può negare, ma quelle cantine, per profonde che siano, non sono che il livello superiore di un mondo sotterraneo senza fine – pozzo, imbuto, labirinto di tenebre eterne. Catacombe, gallerie, magazzini e cripte fanno spazio, via via che si scende di livello, a immense grotte, spesso occupate da laghi, fredde e informi masse d’acqua che non hanno mai conosciuto esseri viventi – se non forse qualche ratto che ha perso la strada, e viene a morire stremato sui loro bordi di pietra aguzza. E ancora più sotto? Chi sarà mai in grado di immaginare le forme del Nulla, che sono innumerevoli e nello stesso tempo tutte simili a un’unica sterminata ombra? Da laggiù, da quel groviglio di oscurità e privazione salgono miasmi così potenti da raggiungere il mondo dei vivi, così sottili e insidiosi da penetrare i muri, infilarsi nei tessuti, stendere invisibili pellicole sui cibi, sulle piante, sui tessuti. Nei vecchi palazzi di Roma, si sente sempre qualche rumore inspiegabile, c’è sempre qualche diceria macabra che si tramanda tra gli inquilini, e gli animali domestici, capaci di vedere ed ascoltare cose che ci sono nascoste fin dall’infanzia, trascorrono la vita in lunghissime guerre contro nemici inconcepibili, innominabili.

The Subsiding of the Waters of the Deluge, Thomas Cole

Mi è tornato in mente Trevi leggendo Underland, di Robert Macfarlane, uscito in Italia da poco. È una raccolta di esplorazioni delle profondità della terra, di grotte, gole, caverne e altri luoghi affascinanti e terribili, «quel tipo di posti che non è possibile sopportare a lungo». Macfarlane è uno scrittore e un critico letterario, speleologo e alpinista amatoriale. Negli anni è riuscito a creare (con Luoghi selvaggiLe antiche vie e Montagne della mente prima di quest’ultimo) una rielaborazione della figura dell’intellettuale-viaggiatore a metà tra Chatwin e Sebald, con un personale magma narrativo capace di tenere insieme le esperienze dei suoi tanti viaggi nei luoghi selvaggi del pianeta e le parole di poeti, romanzieri, scrittori, scienziati – in Underland cita o incontra geologi, archeologi, fisici, biologi, glaciologi, climatologi –, aggiungendo poi le vite dei pionieri dell’esplorazione e qualche racconto storico. È un blend che ha avuto un grande successo in Inghilterra, dove Macfarlane è stato però anche criticato per il suo citazionismo instancabile. La rubrica satirica di John Crace sul Guardian, per esempio, ha coniato il termine Macfarlish definendolo come: «il processo in cui elogi altri autori per cercare di rendere il tuo libro migliore per associazione».

Riassumere Underland non è semplice. Macfarlane va alla ricerca di una paleontologia dell’Antropocene, di tracce naturali e umane dell’epoca contemporanea «in cui noi stessi siamo diventati sedimenti, strati geologici, fantasmi». Posso elencare i posti che visita nei reportage che compongono il libro: le miniere di Mendip Hills e Boulby, i boschi di Epping Forest, i fiumi carsici e le terre cave tra Italia e Slovenia, e poi il Nord Europa fatto di ghiacci, fiordi, geyser e caverne in Norvegia, Groenlandia, Finlandia. Sono luoghi che Macfarlane sembra capace di coprire da un giorno all’altro, con un veloce tratto di matita sulla mappa, con la semplicità con cui queste cose avvengono nei cartoni animati. In realtà Underland nasce da dieci anni di lavoro e viaggi.

Posso dire poi che è un libro fatto di apparizioni ed epifanie, quel tipo di rivelazioni che sbocciano quando si cerca di trovare una forza che ricongiunge gli elementi vitali del mondo. Per esempio, durante un’escursione fuori Londra assieme al micologo Merlin Sheldrake, Macfarlane capisce, o quantomeno sembra intuire, contemplandoli, che la connessione mutualistica di piante, alberi e funghi crea un superorganismo sotterraneo, che costituisce poi l’anima della foresta, e che anche il legno, o persino le rocce, i pezzi apparentemente immobili della natura, insomma, si muovono secondo tempi geologici proprio come fossero strani animali, sgusciando via come fossero blob, seguendo le loro incomprensibili ragioni:

Il legno vivo, se dispone del tempo necessario, si comporta come un fluido lento. Come l’alite nell’oscurità delle miniere di Boulby, come la calcite che avevo visto sotto le Mendip Hills e come il ghiaccio di ghiacciai che si trascina sopra il fondo di terra o di roccia, anche il legno vivo, con il tempo, scorre.

Per il resto, Underland è un libro troppo denso per poterlo raccontare in poche righe. Non sarebbe neanche interessante farlo: il gusto della lettura di un’opera del genere sta proprio nell’immersione prima graduale e poi totale nelle atmosfere e nei percorsi (prima che vi sentiate soffocare, magari, e lo riponiate per qualche giorno).

A Parigi visita il sottosopra cittadino – «ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone», scriveva Calvino, Macfarlane visita le vestigia di quel deserto–, la rete sotterranea di cunicoli e gallerie che si intrecciano sotto le strade. Cita Victor Hugo, nei Miserabili: «Parigi ha sotto di sé un’altra Parigi, la quale ha le sue vie, i suoi vicoli ciechi, le sue arterie e la sua circolazione». Racconta:

Gran parte dell’Île-de-France poggia su calcare luteziano accumulatosi principalmente durante l’Eocene, quando la regione era da circa 5 milioni di anni un’area di baie tranquille e di lagune di acqua salata. La vita marina vi prosperava e vi deperiva in abbondanza, depositandosi sul fondo sotto forma di limo destinato infine a comprimersi e a trasformarsi in roccia. Il calcare luteziano è un materiale da costruzione eccellente: toni dal grigio caldo al giallo caramello, resistente e tagliabile con facilità in blocchi e lastre dai bordi precisi. (…) Parigi fu costruita con il suo stesso sottosuolo, strappato blocco a blocco alla roccia e poi tirato su (…) Il risultato residuo di oltre 600 anni di attività estrattiva è che sotto il settore meridionale della città di sopra possiamo trovare la sua immagine negativa: una rete di 320 chilometri di gallerie, vani e camere, organizzata in tre principali regioni che complessivamente si estendono sotto nove arrondissement.

Le attività di estrazione continuarono per anni, nella rete delle cosiddette vides de carrières, i vuoti di cava, finché Luigi XVI, preoccupato dalla stabilità di alcune zone della città che avevano iniziato a cedere inghiottite dalle voragini nel suolo, regolamentò e mise in sicurezza le gallerie sotterranee. I vuoti di cava vennero riconvertiti in depositi. Poi, nel XIX secolo, in campi di funghi, che prosperavano in quei luoghi umidi e bui: fino a duemila coltivatori arrivarono a lavorare lì sotto. Prima, però, a fine Settecento, queste spelonche vennero utilizzate per riporre i resti di sei milioni di cadaveri provenienti dalle tombe e dai cimiteri della città che, ormai affollati oltre ogni limite, non riuscivano più a ospitare i parigini morti. Macfarlane la racconta come una straordinaria impresa civile:

Fu organizzata una macabra e ritualizzata linea di produzione comprendente scavatori, pulitori, impalatori, carrettieri, portatori e sorveglianti. Notte dopo notte, anno dopo anno, i carri funebri carichi di ossa riesumate, coperti da pesanti drappi neri, preceduti da tedofori e seguiti da preti che cantavano la Messa per i defunti, percorsero al rumore degli zoccoli le vie che portavano dai cimiteri a Tombe-Issorie, dove andavano a disfarsi del carico. Nelle gallerie gli operai ordinavano i resti dei defunti dividendoli in base al tipo di ossa in mucchi e cataste salvaspazio.

Dalla disposizione di queste ossa emergeva una forma minore di arte popolare: fitte schiere di femori biancheggianti separate da file di teschi, tutti con le orbite rivolte verso l’esterno.