Amico delle guardie
Negli ultimi giorni l’agenda mediatica è stata completamente monopolizzata dalla figura di Cesare Battisti, costruito come una specie di mostro e valvola di sfogo delle frustrazioni sociali, e dall’elogio delle forze dell’ordine che l’hanno catturato, mettendo a disposizione il materiale umano per quello sfogo. Al di fuori del caso in sé (su cui hanno già scritto altri) c’è una questione importante che emerge da questa vicenda, una questione che vediamo nei panni del ministro dell’Interno sulla pista dell’aeroporto di Ciampino con l’aria seria e la divisa della polizia di Stato: il mutamento del rapporto tra istituzioni democratiche e forze di polizia, la loro progressiva fusione in una cosa sola.
Le riflessioni sull’abitudine di Salvini di andare in giro vestito da poliziotto non sono una novità, ma finora si sono soffermate solo sulla superficie della questione – le motivazioni elettorali, estetiche, di costruzione del consenso, di affermazione securtaria che gli fanno indossare quella divisa. Non hanno toccato il vero significato dell’operazione, che si può capire se si ribalta la prospettiva e si osserva il rapporto tra Salvini (e quindi il governo) e la polizia dal punto di vista di quest’ultima.
La polizia ha sempre goduto di ampie coperture istituzionali, ma il fatto che adesso queste siano passate da essere qualcosa di segreto a qualcosa di ostentato l’ha portata a sbilanciarsi, ad alzare i toni. Per fare un esempio da nulla: nel giro di un anno l’account Twitter è passato da un registro comunicativo freddo e professionale a uno emotivo. Sull’arresto di Cesare Battisti, ha scritto: «dietro questo momento ci sono giorni e notti di chi non ha mollato mai, di chi ha trascurato affetti e famiglie avendo presente il dolore di quanti ancora soffrono per le sue vittime.» Sembra di leggere un po’ di Salvini, sotto ti aspetti di trovare la foto di un tiramisù.
Un altro esempio è la pagina ufficiale della Polizia Penitenziaria, che sulla cattura di Cesare Battisti ha fatto una raffica di post e persino un Facebook Live per documentare in diretta la presa in consegna al momento del suo arrivo in carcere. Per non parlare poi del mondo delle pagine Facebook informali dei fan della polizia, con decine di migliaia (a volte centinaia) di like e contenuti che vanno dall’apologia ai poster dei martiri in stile Hezbollah, le quali sul caso Battisti si sono scatenate.
Ormai i governanti hanno conquistato un così grande discredito che il disprezzo che attirano su di sé ha superato quello per la polizia – e questa ne è consapevole.
Questo cambiamento comunicativo riguarda primariamente il modo in cui la polizia si percepisce e si racconta all’esterno, ed è l’altra faccia della medaglia del cambiamento nel modo in cui i governanti ci si rapportano, sempre più preoccupati dall’inseguirne il consenso. È una relazione che è stata ben espressa dal Comitato Invisibile (la cui opera omnia verrà presto pubblicata da NERO nella collana Not) nel loro Tutti odiano la polizia: «Stiamo assistendo a una grande trasformazione del rapporto tra governo e polizia. Per molto tempo le forze dell’ordine sono state come marionette idiote, disprezzate ma brutalmente brandite contro le popolazioni irrequiete (…) Ma ormai i governanti hanno conquistato un così grande discredito che il disprezzo che attirano su di sé ha superato quello per la polizia – e questa ne è consapevole.»
Come conseguenza di questa consapevolezza, la polizia diventa cosciente di essere – di essere sempre stata, in realtà, ma di essere particolarmente in questa contingenza storica – uno dei dispositivi che assicurano la sopravvivenza dell’ordine politico esistente; sente insomma di avere il coltello dalla parte del manico.
Non è una consapevolezza di classe ma di corpo, ovviamente. E quindi – per dirla ancora col Comitato Invisibile – i governanti «non hanno altra scelta che accorgere al capezzale del più piccolo sbirro graffiatosi in qualche manifestazione e cedere a tutti i capricci della corporazione.» È in questo senso che vanno interpretati la divisa della polizia indossata da Salvini, gli innumerevoli discorsi sui nostri coraggiosi poliziotti che rischiano la vita per 1000 euro al mese, sui poveri poliziotti che non hanno nemmeno la benzina per le volanti, persino su Pasolini che aveva capito e stava coi poliziotti perché figli di operai.
Ma c’è anche una dimensione più profonda. Salvini indossa la divisa della polizia di Stato per ingraziarsela e il semplice fatto che debba ingraziarsela testimonia che questo nuovo rapporto di forza non si è ancora solidificato in un ordine permanente – che da esso non è ancora nato un nuovo ordine politico che lo rispecchi.
Permane infatti all’interno della polizia una divisione in due tendenze: quella classica che si vede come corpo neutrale semplicemente garante dell’ordine sociale per conto del potere politico – impegnata a proteggere e servire, come dice il motto; quella che «chiami quando ti entrano i ladri in casa», come dice la vulgata con cui si replica a qualsiasi critica alla polizia – e che vede anche con un certo fastidio il suo accumulare potere. E poi un’altra tendenza, espressione diretta dei mutati rapporti di forze, cioè quella che spinge per l’autonomia.
C’è solo un altro modo per risolvere la tensione, ed è quello per cui Salvini si mette sempre quella divisa: che la politica si faccia polizia.
È la tensione sottesa a tutti i colpi di stato e a tutti i regimi militari della storia: in cui la forza garante dell’ordine sociale in quanto tenutaria del monopolio della violenza, dopo aver preso coscienza del suo ruolo e del suo potere, taglia fuori la politica e si fa essa stessa politica. C’è solo un altro modo per risolvere la tensione, ed è quello per cui Salvini si mette sempre quella divisa: che la politica si faccia polizia. Ovvero l’ascesa di una politica che raccolga e porti avanti in modo esplicito gli interessi corporativi della polizia.
Non è che a Salvini servano i voti dei poliziotti, che dal punto di vista elettorale sono una percentuale trascurabile per l’ottenimento del consenso formale delle urne. Semmai si trova in una situazione simile a quella dei sultani ottomani nei confronti del corpo dei giannizzeri. Anch’essi operavano come una forza di polizia e anch’essi erano una minoranza (non superarono mai le 67.000 unità), eppure con la minaccia costante del colpo di stato riuscirono non solo a ottenere frequenti donativi economici ma proprio a tenere in ostaggio il potere politico – trasformandosi in una burocrazia, impedendo la riorganizzazione delle forze armate dell’impero, arrivando a rapire e uccidere il sultano.
Oggi, nella crisi dell’ordine democratico occidentale e quindi anche dei suoi sistemi di legittimazione, la stabilità e la sicurezza dello Stato tende a riposare sempre più sulle spalle degli apparati che detengono il monopolio della violenza. I giannizzeri stanno accumulando potere e il sultano di turno ci tiene a compiacerli. È per questo che questa tensione sta diventando sempre più presente e rilevante nella politica contemporanea – in Occidente, perché fuori dalla metropoli capitalistica essa è sempre stata presente.
E qui torniamo alla questione della «Darkest Timeline» – l’idea che da qualche anno a questa parte il mondo sia finito su una linea temporale alternativa perché altrimenti non si spiegandole assurdità che stanno succedendo. Nel pezzo in cui ne parlavo, pochi giorni fa, spiegavo che la timeline non è impazzita, semmai si è corretta: è l’ordinamento che abbiamo dato per scontato e considerato normale fino ad oggi a essere stato un’anomalia storica, il frutto di un compromesso che non poteva durare e di cui, del resto, per la maggior parte abbiamo potuto godere solo noi occidentali.
Il processo in cui la politica corteggia la polizia nel timore che questa la tagli fuori – con la polizia che riceve sempre più armamenti materiali che si traducono in sempre più armamenti ideologici, in una danza che sta dietro alla crescente militarizzazione della nostra società – è da questo punto di vista perfettamente normale. È solo un altro aspetto del riassorbirsi di quell’anomalia: l’ordine democratico scompare e le istituzioni repressive possono finalmente gettare la maschera di suoi tutori. Se domani la polizia sparasse sulla folla in rivolta ci indigneremmo, probabilmente; ma cosa ci sarebbe di strano? Cos’è cambiato, nella struttura dei rapporti tra polizia e governo, dai tempi di Bava Beccaris?