Altre storie dalla fine del mondo
Quattro anni fa abbiamo aperto la newsletter MEDUSA, in collaborazione con Not, per scrivere di Antropocene, dell’impronta dell’essere umano sulla Terra, di cambiamenti climatici e culturali. Partivamo da qualche passione comune – Werner Herzog, Luigi Meneghello – e da tanti link e consigli di lettura che ci scambiavamo in quei mesi.
Ora abbiamo scritto un libro, MEDUSA. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo). Non è una raccolta dei numeri della newsletter, anzi, è vero il contrario: negli anni abbiamo usato la newsletter come laboratorio per tentare di capire come costruire il libro che sapevamo sin da subito di voler scrivere insieme. Dall’ottobre 2017 a oggi MEDUSA è stato il posto dove abbiamo potuto sperimentare modi di raccontare natura e società, letteratura e ambiente. Quando abbiamo iniziato, ci sembrava che in Italia, nel nostro panorama culturale, si parlasse troppo poco di crisi ecologica e climatica e che, quando se ne parlava, se ne parlava ricorrendo al linguaggio tecnico, o prescrittivo, oppure ancora in termini spesso riduttivi. Dal numero zero di MEDUSA, in questi quattro anni è cambiato il mondo; com’è ovvio, è cambiata anche la sua fine, e le storie dalla fine.
Mentre scrivevamo, abbiamo assistito alla più grande protesta ambientalista di sempre e alla prima pandemia del secolo. Nel frattempo la newsletter ha raccolto una comunità di lettori attenti che ci ha portato a scoprire e conoscere libri e persone, e ci ha spinto più di una volta a cambiare idea sulle cose. Dopo quasi cento numeri di MEDUSA abbiamo finalmente capito che tutto quello che avevamo scritto lì (e altrove, su libri e riviste) era connesso in un racconto più ampio; così abbiamo raccolto tutte le tessere, le abbiamo riordinate, e dopo averne scartata qualcuna abbiamo provato a completare il mosaico aggiungendo molte pagine nuove. Alla fine è uscito fuori questo libro.
Abbiamo cercato di mantenere anche nel libro lo spirito proteiforme della newsletter, è venuto fuori un saggio narrativo ricco di storie e citazioni, divagatorio ma, ci sembra, al tempo stesso anche lineare, piuttosto compatto.
Naturalmente ci sono tante cose che avremmo voluto aggiungere al libro, – altre storie, idee, citazioni – e che abbiamo dovuto limare via per mantenere una qualche coerenza narrativa. Cose che avremmo raccontato, e invece. Ecco qui, allora, una manciata di altre storie dalla fine del mondo che non ce l’hanno fatta a entrare nel libro.
Nonostante sia uno dei filosofi che abbiamo letto con più interesse, e a volte convinzione, arrivati alla fine del libro ci siamo accorti di non avere dato spazio ad Andreas Malm: il discorso aveva seguito altri fili, e andava bene così (almeno lo abbiamo aggiunto in bibliografia per rimediare).
Andreas Malm è un ricercatore di Human Ecology all’Università di Lund, attivo ormai da più di un decennio. Negli anni Malm è passato dalla pura dissertazione teorica alla chiamata alle armi (in senso molto lato). La conseguenza logica di The Progress of This Storm – il suo saggio del 2017, ne parlammo anche sul Tascabile – è stata l’arringa in difesa al sabotaggio delle macchine dell’economia carbonfossile argomentata nel suo ultimo pamphlet, How to Blow Up a Pipeline.
Lì Malm ricostruisce la parabola dei movimenti ecologisti attivi ai tempi del primo Summit della Terra, dai primi anni Novanta fino agli anni delle Cop (Conference of the Parties) in giro per il mondo, le Kyoto e le Parigi, all’egemonia pre-pandemica di Extinction Rebellion e Fridays For Future: gli scioperi sono serviti a qualcosa, ma hanno fallito nell’obiettivo più importante, la riduzione delle emissioni globali di gas serra. Ecco allora lo scatto nella proposta di Malm: il pacifismo strategico, adottato come metodo esclusivo di protesta, girerà sempre a vuoto: è l’ora della diversificazione, del boicottaggio, della «non violenza strategica». Ferire le cose, non le persone. Un messaggio da tenere in considerazione ma problematico per diversi motivi, troppi per approfondirli in questa sede.
Come ogni lotta comunque, la non violenza strategica genera racconti, la sua mitologia. Malm racconta la storia di Jessica Reznicek e Ruby Montoya, due attiviste del Movimento dei lavoratori cattolici, condannate a 110 anni di prigione per aver incendiato alcuni tratti del Dakota Access, bloccando la costruzione dell’oleodotto per diversi mesi. Ci ha fatto venire in mente quella notizia di qualche anno fa, segnalataci da un nostro lettore, Marcello.
I Valve Turners sono un gruppo di attivisti che, a volte anche dall’alto di un’età media piuttosto alta, sacrificano la libertà per un atto dimostrativo: spesso i Valve Turners vengono proprio dal Movimento dei lavoratori cattolici. Come suggerisce il nome di battaglia, quello che fanno è chiudere delle grandi valvole grazie a una sorta di timone. «Per lunghi minuti ha girato con facilità, poi ha iniziato a tremare.» Ormai più di tre anni fa, questi giovanotti hanno interrotto il 70% delle importazioni USA di petrolio canadese. Poi hanno avvisato le autorità.
Molto spesso i Valve Turners sono bianchi, laureati, nessuno di loro può essere definito povero. Vanno in chiesa; tra di loro ci sono dei nonni. Non vivono in zone alluvionate o infestate. Non sono insomma le vittime designate dei cambiamenti climatici che ogni giorno aggiornano la nostra idea di pianeta: ed è proprio questo che li ha spinti a mettere in gioco la sicura routine delle loro vite, il senso di responsabilità.
Non siamo riusciti a parlare, poi, di Andrea Zanzotto, un poeta che abbiamo a cuore, che ha vissuto e sofferto il conflitto tra storia e natura, il passaggio dall’antica civiltà contadina ai neon della modernità. Avremmo voluto citare almeno una delle sue poesie più belle, Sì, ancora la neve, che inizia con una nevicata, e un bambino che guarda il panorama. Il lettore si aspetta uno slancio bucolico, ma il bambino è indifferente davanti alla meraviglia degli alberi che si imbiancano:
«Ti piace essere venuto a questo mondo?»
Bamb.: «Sì, perché c’è la STANDA.»
O avremmo voluto raccontare un documentario che abbiamo scovato negli archivi della RAI, una ripresa di Andrea Zanzotto che passeggia per i suoi luoghi, Pieve di Soligo, Cadore… A San Pietro di Feletto, l’antica Pieve, nella chiesa battesimale, Zanzotto racconta alcuni affreschi del XIII e XIV secolo, dipinti da anonimi locali. Quello che lo interessa di più è il Cristo della domenica, malamente collocato dietro un asse di legno che sostiene il soffitto della chiesa. Cristo ha le braccia aperte, in segno di resa, ed è circondato da decine di strumenti di lavoro artigianale che fluttuano a mezz’aria attorno a lui, come se qualcuno glieli avesse lanciati contro. Ce li siamo segnati alcuni – una brocca, una botte, dei dadi, un fuso, una cesta di panni, una zappa, due falci di dimensioni diverse, una vanga, una forca, un rastrello, un aratro, un calamaio, uno specchio, un pettine, una tenaglia, un martello, un’incudine, una trivella, una forbice, delle scarpe, un coltello, una balestra, una bilancia, dei cesti – ma ce ne sono diversi altri.
Il monito è didascalico, fatto per esser compreso dagli artigiani a cui si rivolge. Contadini, maniscalchi, carpentieri, falegnami, locandieri, macellai, calzolai: ricordatevi di santificare le feste, ricordatevi che di domenica non si lavora, a meno che non vogliate far sanguinare il Cristo. Zanzotto guarda e racconta l’affresco, e in fondo sembra leggerci più che altro un amorevole catalogo dei mestieri, una cartolina della vita quotidiana di un tempo perduto.
Il rischio che il libro diventasse un’enciclopedia era reale. In questi anni abbiamo raccontato – anche brevemente, nei cubetti – un po’ tutte le coordinate del mondo, compresa l’Australia, già tormentata dagli incendi prima dei roghi spaventosi di due anni fa. Circa il 5% della superficie terrestre australiana è colpita da incendi ogni anno: tra l’ottobre del 2019 e il gennaio seguente, tra la primavera e l’estate australiana, hanno bruciato 8 milioni di ettari di terreno, il doppio degli incendi del 2019 in Siberia e in Amazzonia sommati, e pari all’80% di tutte le foreste italiane.
Ci sono poche «scoperte» cruciali quanto la gestione sensata del fuoco da parte dell’uomo. Con il fuoco tra le mani abbiamo cambiato per sempre il pianeta in cui viviamo. Che bello essere umani, gli unici ad avere capito il fuoco. Un’altra verità controintuitiva di questa storia, però, nasce dal mondo animale: esistono dei rapaci piromani. Bob White, vigile nei Northern Territory, ha dichiarato di avere visto dei rapaci raccogliere delle ramaglie e scaricarle sul versante di un incendio, alimentandolo. Nathan Ferguson è un vigile del fuoco con più di quindici anni di esperienza e nella sua vita ha testimoniato a decine di incendi boschivi propagarsi. Non ha dubbi: ha visto più di una volta esemplari di nibbio e altri rapaci propagare incendi per stanare le prede. C’è chi non gli crede, ma Nathan ha promesso che la prossima volta che si trova vestito da pompiere per cercare di abbattere una muraglia di fiamme che avanza verso di lui, cercherà di fare una foto.
In effetti le foto ci permettono di vedere pezzi di realtà che nel passato potevano sembrare pezzi di leggenda. Due anni prima del disastro australiano, la California (come ogni anno, ormai) venne colpita da grossi incendi; il più grande prese il nome di Thomas Fire, oggi gode anche di una pagina Wikipedia.
Si è esteso su una superficie che ha superato i centomila ettari (i campi da calcio non arrivano a un ettaro pieno). Tra le tante foto e immagini impressionanti, avrete quasi sicuramente visto anche l’immancabile video che ha commosso il web: quello dell’autista che è sceso dalla macchina per salvare un coniglio dalle fiamme. Un eroe o un idiota? Secondo Slate, LiveScience e decine di esperti, potrebbe aver fatto più danni che altro: «se vedete un animale selvatico che si aggira attorno a un incendio, la cosa migliore che potete fare è lasciarlo in pace».
Forse è un trucco della nostra prospettiva, un riflesso distorto dal nostro lavoro, ma la nostra sensazione è che quattro anni fa – quando abbiamo iniziato – eravamo noi ad andare verso le notizie. Con il tempo, insieme alla consapevolezza rispetto all’emergenza climatica, è aumentata anche la copertura mediatica. Anche nel nostro paese. Ci troviamo di fronte a uno scenario che continua a mutare forma, e la scrittura di MEDUSA non può non tenerne conto. Insomma, siamo cambiati negli anni e continueremo a cambiare.