Al di là della vostra esperienza

Sull’esperienza dell’inumano che risiede nel serial killer

Pubblichiamo un estratto da Tutto era cenere. Sull’uccidere seriale, il libro di Simone Sauza in uscita in questi giorni per Nottetempo, ringraziando l’editore per la disponibilità.

20 marzo 2020 

A volte immagino di uscire di casa, cammino per strada con gli occhi doloranti, e sparo casualmente alle persone che incontro. Alcuni giorni uso una pistola, altri un fucile, mai un’arma automatica. Continuo a camminare e nuovi corpi cadono al mio passaggio; un colpo alla volta, quasi a cercare un ritmo. Avviene tutto nella quiete e nell’indifferenza. Non c’è nessun gusto macabro, né sangue, né urla, né sirene della polizia, solo corpi che cadono nella quiete di un mattino da un cielo che sembra una distesa di polvere, un deserto sospeso nell’atmosfera. Sono pensieri automatici che arrivano tra le lenzuola, quando apro gli occhi e il corpo non risponde, e allora rimango nel letto a lungo, troppo a lungo, in una soglia che non è né dormiveglia né torpore.

Da quando ho cominciato le ricerche per questo libro, ho difficoltà ad alzarmi. Riesco a svegliarmi senza problemi ma poi rimango lì. Per iniziare davvero la giornata ho bisogno di indugiare in questi pensieri ossessivi che danno struttura alla mente, che altrimenti se ne starebbe desta in una forma, per così dire, liquida. Quando poi sono in piedi, mi ci vuole una buona mezz’ora per far diradare il senso di imbarazzo e orrore verso me stesso che mi rimane nella testa. Il tempo prima dell’isolamento è una strada. Il tempo durante l’isolamento è una piazza dove l’assenza di direzione perverte la libertà in agorafobia. Cercare di scrivere un testo sull’omicidio seriale significa lasciare che i volti dei serial killer, i loro discorsi, le frasi e gli sguardi nelle interviste ai genitori delle vittime entrino nello spazio domestico senza possibilità di farli uscire, e che alla lunga rimangano attaccati alle pareti e ai tessuti come il fumo delle sigarette accumulate nel posacenere, finendo per contaminare il sonno e l’immaginazione. 

21 marzo 2020 

“Io sono al di là della vostra esperienza”. La frase è scritta a matita su una pagina di quaderno strappata. La parola “esperienza” è cerchiata così tante volte che alcuni granelli della mina sono ancora sulla carta. La frase appartiene a Richard Ramirez, conosciuto anche come Night Stalker, condannato a morte nell’estate del 1985 per l’omicidio di tredici persone. La pagina di quaderno è tenuta ferma sul tavolo di lavoro da un grosso volume con il simbolo dell’uroboro in copertina e il volto stilizzato del serial killer britannico Ian Brady. Il titolo del libro, scritto da Brady stesso, è The Gates of Janus: una strana scelta per un testo che analizza l’atto di uccidere. L’accostamento è stato casuale, ma da quando li ho visti vicini l’intuizione di un nesso, una sovrapposizione tra l’al di là dell’esperienza della frase di Ramirez e la figura del dio romano bifronte ha cominciato a ronzarmi in testa: ecco qualcosa che può tracciare un filo rosso all’interno di questo lavoro. Intanto, continuare la ricerca è diventato complicato. L’isolamento non permette nemmeno di effettuare prestiti in biblioteca. Questa piccola stanza è diventata tutto il mondo, e questa concentrazione di realtà in uno spazio minimo aumenta la pressione sui corpi che lo abitano. Tutto preme e spinge all’implosione. Piccoli spasmi attraversano la superficie della palpebra. Sul divano del monolocale si accumulano blocchi di fogli spillati; appunti e frasi spezzate coprono i post-it con le vecchie liste della spesa. Dovrei mettere ordine. Le briciole sono ovunque. Le vedo e mi blocco: non riesco a lavorare al libro ma non riesco nemmeno a pulire. 

Il pensiero di legioni di formiche e di blatte che grufolano nelle pareti, sotto le piastrelle del pavimento, nello scarico della doccia, pronte a uscire la notte per nutrirsi della mia negligenza, mi paralizza. Sento le piccole antenne e le piccole zampe che si muovono captando quelle briciole, e il movimento produce un rumore che perfora il silenzio del monolocale ed entra dalle orecchie agli occhi fino allo stomaco facendo salire la nausea. 

Quando Ramirez venne arrestato, parte della città di Los Angeles si riversò per le strade. L’atmosfera era quella di una festa per celebrare un nuovo inizio. 

23 marzo 2020 

Ho trascritto quella frase da un discorso che Ramirez rivolse improvvisamente alla Corte durante uno dei numerosi processi che seguirono al suo arresto: un’accusa carica di odio e risentimento, infarcita di espressioni pseudo-nietzschiane, che terminava con l’invocazione di una legione demoniaca. La ventola aspirafumo ronza nello spazio angusto del monolocale, satura l’aria ed è ormai il suono di questo isolamento. Un rumore simile, forse, a quello dei ventilatori sparati al massimo nelle villette residenziali a nord di Los Angeles nell’estate del 1985, mentre gli studenti preparavano gli esami con un orecchio alle stazioni radio impegnate a pompare nell’etere e nell’immaginario americano Like a Virgin di Madonna e un orecchio ai notiziari che parlavano di Richard Ramirez. All’epoca, quando emersero i primi racconti dei sopravvissuti e i primi identikit, le zone residenziali cominciarono a vivere nell’angoscia di questo boogeyman dall’aspetto avvenente sfigurato dai denti marci e dal volto scavato. Forse a spaventare di più non era tanto il pericolo di vita in quanto tale. L’orrore profondo nasceva dal senso di distruzione improvvisa del proprio status: la proprietà privata, i rapporti di buon vicinato, la tranquillità domestica, un intero orizzonte esistenziale che veniva disintegrato da una minaccia invisibile. Quando Ramirez venne arrestato, parte della città di Los Angeles si riversò per le strade. L’atmosfera era quella di una festa per celebrare un nuovo inizio. 

Ramirez era animato da un odio profondo nei confronti dell’America bianca protestante. Spesso voleva che i familiari delle vittime assistessero alle violenze. Lasciava dei sopravvissuti con lo scopo di marchiarli con una ferita psichica che avrebbe gravato anche sulle generazioni successive. Per lui, ispanico, di origini umili e affascinato da simbologie pentacolari e dalla figura di Satana, quel gesto aveva il senso di una maledizione demoniaca contro quell’America che aveva costruito nel sangue la sua prosperità; qualcosa di simile alle entità spettrali che emergono dalla nebbia di San Antonio Bay in The Fog di John Carpenter per ricordare l’origine oscura del benessere della piccola cittadina.

“Io sono al di là della vostra esperienza”, dunque. Un’affermazione che, dietro la sua banale accezione superomistica, mi sembra significare qualcosa di più. È come se il serial killer si muovesse su una soglia inedita rispetto ai paradigmi della letteratura psicologico-clinica: biologicamente umano, fenomenologicamente alieno. Abita lo stesso pezzo di realtà di ogni individuo, ma lo attraversa con uno sguardo che viene da un altrove. Affermazioni tutte da chiarire e che rischiano di riportare tutto il discorso al punto di partenza, là dove la feticizzazione per questa figura si confonde con l’eccesso di intellettualizzazione. Per ora questo double bind, questo doppio volto, rimane una traccia. 

Da qualche parte, nella nebbia della rete, esistono forum criptati in cui rifluiscono le deiezioni del mondo in superficie. Spazi nascosti dai tanti nomi che nascono e si disgregano nel tempo reticolare senza storia di internet. Negli ultimi tempi giro spesso su questa piattaforma chiamata Atrax, a metà tra Reddit e l’estetica di siti cult degli albori del web come Rotten.com. Sul finire degli anni ’90, internet aveva cominciato a riempirsi di immagini e video shock: materiale pornografico di ogni tipo, presunti video di possessioni e di fenomeni paranormali, oltre a fiumi di gore e cattivo gusto. Rotten.com era uno dei primi siti del genere a ottenere un successo di massa: vi si trovavano immagini senza censura di vittime di incidenti autostradali, autopsie, foto di omicidi prese dai dossier della polizia, fetish e deformità. Sarcasmo e ironia tenevano poi insieme il tutto. Era come se il nichilismo più disperato, covato sotto la miscela di lustrini e repressione degli anni ’80, fosse fuoriuscito dai sotterranei e avesse contaminato i giovani di mezzo mondo. 

Atrax ha dei contenuti simili. In questi giorni cerco conferme e seguo alcuni thread aperti da un utente chiamato zslv, nei quali i commenti sono disabilitati. L’ultimo risale alla notte scorsa. Si intitola Necromorfosi Divina ed è una delirante rilettura dallo stile adolescenziale della mitologia di Giano. Ho trascritto alcuni brani: 

Le stanche mitologie occidentali si sono acquietate nel doppio volto del tempo. Giano il bifronte guardiano del passato e del futuro. Così il mistero della sua origine è perduto; il suo simbolismo solstiziale, soltanto sfiorato da René Guénon. Nel fondo oscuro dell’archeologia mitica c’è Saturno che fugge le armi di Giove, il tentato parricidio che scatena una genesi demonica. Fu Giano ad accogliere il triplice nome di serpente scappato nel territorio del Lazio e a concedergli l’inizio del suo regno saturnino. Secondo le fonti di un culto minore di origine etrusca, il patto venne suggellato dall’unione carnale tra le due divinità, Saturno e Giano, l’astro glaciale che non consente alla vita di riprodursi e il dio della transizione […]. L’orgasmo di una sodomia cosmica scatena la catastrofe. La necromorfosi di Giano venne innescata: il suo rivolgimento, la sua degradazione e il suo divenire l’ombra di un dio. Una piaga si apre; l’inizio del contagio. Giano era diventato un essere dal corpo morente, né propriamente divino, né propriamente umano: il deicidio era stato iscritto nella sua carne, ogni suo atomo era l’urlo di una materia in decomposizione. Solo il sangue versato poteva temporaneamente invertire il processo di decomposizione. Dall’altezza del Gianicolo uno sguardo di morte osserva la città. Ciclicamente era costretto a entrare in un corpo umano e, per sua mano, perdersi nell’uccidere. Ogni vittima attutiva il dolore, fino alla liberazione che lo riportava al suo stato originario, e poi daccapo, in un processo senza fine […]. 

Sulla via di Saturno non c’è rigenerazione senza rapporto con la morte. La ripetizione del sangue è il ritmo con cui il viandante attraversa le porte di Giano. Il dolore, nella società occidentale, è sempre visto come generatore del male. All’origine dell’atto di uccidere c’è invece una forma di possessione. Le porte di Giano sono aperte. 

Il testo si interrompe qui. Di tutta questa roba, dell’unione tra Saturno e Giano, non c’è traccia da nessun’altra parte.

26 marzo 2020 

Nel cuore della notte, l’eco di un cane che abbaia ha la potenza di un’esplosione. L’insonnia è uno stato perturbante di spaesamento dal proprio corpo. Sei costretto a essere vigile, ma in quest’atto manca il soggetto. La domanda risuona nel silenzio: chi mi sta costringendo? La veglia forzata mi appare come l’invasione da parte di un “fuori”, il riconoscere un elemento alieno all’interno di noi stessi; in altre parole, c’è una strana consapevolezza del fatto che il corpo è da sempre abitato da un pronome neutro. Mi chiedo se la pulsione omicida seriale possa avere qualche analogia con questo. Continuo a ripensare a quella specie di stupido racconto su Giano, all’analogia con la possessione. 

Nel riflettere sull’omicidio seriale c’è sempre qualcosa che sfugge alla chiarificazione. Anni di profiling, descrizioni psicologiche, interviste, tassonomie di ogni tipo, nomi di sindromi accumulati nei manuali di psicoterapia mi sembrano evaporare di fronte alla questione originaria di questa particolare forma dell’uccidere: la totale gratuità e assenza di ragione causale da parte di individui che spesso conservano un’anomala normalità, che appaiono più o meno integrati nella vita pubblica. 

Ciò che è difficile accettare è che non esiste una malattia del serial killer. In ambito clinico si accavallano diagnosi di schizofrenia, disturbi borderline, gradi diversi di psicosi. Qualcuno sostiene che si tratti di una combinazione tra fattori genetici e acquisiti. Altri, come lo psichiatra Park Dietz, tra i massimi esperti di Jeffrey Dahmer, ritengono la cattiva genitorialità l’elemento decisivo. Ogni modello esplicativo, tuttavia, fallisce di fronte alla casistica e alla complessità della posta in gioco. Si ritrova costantemente sull’orlo della mera proliferazione del linguaggio. I testi degli esami psichiatrici possono essere una lettura grottesca a volte. Penso alla perizia effettuata nel 2010 sul serial killer portoghese Francisco Leitão, ribattezzato dai media il Re degli Gnomi. Leitão era cresciuto in una famiglia agiata. Fin da bambino aveva la tendenza a costruire narrazioni fantasiose sulle sue origini. Quando i genitori morirono, trasformò la tenuta di famiglia in un castello. Si interessò di esoterismo, ed elaborò una teoria secondo cui ogni essere possiede un doppio negativo, un’ombra che aspetta soltanto il momento giusto per manifestarsi e distruggere la persona; attraverso la magia sessuale, però, sarebbe possibile raggiungere un grado di energia tale da evitare di essere divorati da quest’ombra. La dimora di famiglia diventò un vero e proprio regno. Statue di gnomi erano a guardia della porta d’ingresso. Adolescenti spezzati, persone relegate ai margini della società e freaks si riunivano periodicamente nella tenuta, soggiogati dalla figura carismatica di Leitão. Una piccola setta coinvolta in vicende di sparizioni. 

Nel 2012 Francisco Leitão viene condannato per l’omicidio di tre adolescenti e per abusi sessuali su altri otto. L’esame psichiatrico, nel suo caso, assomiglia più a un generatore automatico di termini clinici che a una diagnosi: 

Il soggetto presenta una struttura di personalità borderline con tratti antisociali, narcisistici, isteriformi, comportamento freddo e distanza affettiva, introversione riflessiva, diffidenza, egocentrismo, con una bassa soglia per le frustrazioni e difficoltà a controllare gli impulsi. 

Nel tempo sono proliferate mitologie e narrazioni cristallizzate della figura del serial killer. Nell’immaginario comune si tratta per lo più di bianchi, americani, maschi; hanno subito abusi nell’infanzia; sono dei solitari. Ma questi non sono altro che meccanismi di difesa collettivi. I serial killer seguono la distribuzione demografica di un paese: sono bianchi, asiatici, ispanici, donne. Possono essere persone conosciute nel vicinato oppure misantropi da cameretta. 

Molti assassini seriali, al di fuori della loro scia di sangue, conducono un’esistenza che definiremmo normale; sono individui capaci di una vita coniugale, di rapporti di amicizia, persino di empatia.

D’altronde, se davvero lo psicologizzare ci permettesse di comprendere senza resti l’esperienza del serial killer, il passaggio sarebbe compiuto. La porta di Giano verrebbe attraversata. Noi stessi diventeremmo dei serial killer. 

Molti assassini seriali, al di fuori della loro scia di sangue, conducono un’esistenza che definiremmo normale; sono individui capaci di una vita coniugale, di rapporti di amicizia, persino di empatia. Peter Sutcliffe era sposato. Aveva una relazione che non presentava particolari anomalie. Ciononostante, ha ucciso tredici donne, infierendo ripetutamente sui cadaveri. John Wayne Gacy aveva svolto attività per il Partito Democratico ed era impegnato nel sociale. I rapporti di buon vicinato e la sua affabilità sono dettagli noti della storia; così come i trentatré adolescenti brutalmente uccisi e occultati nella cantina del suo appartamento. 

Intorno al nodo dell’esperienza si affastellano una serie di campi che di rado vengono toccati quando ci si occupa di questo tema: che tipo di mondo percepisce un serial killer? Cosa sono gli altri all’interno dei suoi schemi percettivi? Che tipo di scarto sancisce con la gente comune? 

C’è un sentimento ambivalente intorno ai serial killer. I prodotti culturali sul tema, come serie tv e docufilm, continuano ancora oggi a essere molto seguiti. Allo stesso tempo, le persone criticano l’eccessiva rappresentazione sui media di queste figure. Fascinazione e aberrazione, d’altronde, hanno sempre costituito due facce della medaglia della storia culturale umana. Più il male con cui ci si confronta è incomprensibile, più esso restituisce un’immagine migliore di se stessi. Perché il senso comune, di fronte all’orrore, è bloccato da una risposta pavloviana: “Io non avrei mai potuto fare ciò che questo mostro ha fatto”.

E mentre il pensiero sorge alla mente, un brivido percorre la schiena; come nella “Zona” di Tarkovskij, che esaudisce il desiderio più nascosto dalla luce della coscienza, si tratta del puro terrore di uno spazio interiore mai pienamente accessibile, quel buco della soggettività che Sant’Agostino descriveva come interior intimo meo

La possessione nominata in quella mitologia perversa parla di un’estraneità aliena al fondo di questi individui, di quell’al di là dell’esperienza di cui diceva Richard Ramirez quando egli stesso si presentava alla Corte come un essere abitato da un demone. La nostra incapacità di comprendere pienamente l’esperienza di un serial killer è analoga all’incapacità di questi individui a comprendere se stessi, cioè all’impressione che hanno di essere abitati da una forza sconosciuta e innominabile che li guida, fuori controllo anche laddove si tratti di un cosiddetto profilo organizzato. 

L’atto di uccidere ristabilisce una differenza: la parodia macabra di un atto affermativo.

Sorge poi una forma di riconoscimento. Nell’atto di uccidere, l’omicida cerca di costruire la propria identità mancante, di colmare questo senso di spossessamento. Ogni serial killer ha temuto di scomparire, di dissolversi nella massa. Nel suo orizzonte c’è la perdita di un mondo in comune, come se la realtà circostante, inspiegabilmente, per qualcosa che ha una potenza più originaria di un trauma infantile, avesse perso tonalità. L’atto di uccidere ristabilisce una differenza: la parodia macabra di un atto affermativo. Questa identità gli viene poi riconosciuta dalla società attraverso l’apparato mediatico-culturale che ne fa, come figura sociale, un serial killer. Prima non era nulla, ora è un mostro: è già qualcosa. 

L’errore si ripete nel voler conoscere ciò che sembra non appartenere a questo mondo, nel voler gettare una luce nel buio in cui lo spettro visibile collassa e si tocca il limite della rappresentazione. Bisogna chiedersi piuttosto se questa forma intima e profonda di estraneità, quest’esperienza dell’inumano che risiede nel serial killer, abbia qualcosa da dire al resto della popolazione. In altri termini, bisogna chiedersi se la possessione possa essere intesa come l’emergere di questa alterità, di questo fondo non-soggettivo al cuore della soggettività che sostiene l’esperienza umana.