Akira 1988-2018
In quel pozzo tossico di citazionismo, nostalgia, e utilizzo coatto d’immaginario che è Ready Player One, a un certo punto uno dei personaggi utilizza un mezzo di locomozione moddato con una skin presa dalla moto di Tetsuo. Non solo: arriva anche a reintepretare la famosa sgommata spettacolare che, nel corso degli anni, è diventata un richiamo ricorrente quasi ovunque. Il motivo di tanta devozione è semplice: Akira, sebbene sia ormai stato rimasticato dalla cultura nerd, resta un fondamento immaginifico che nessuna limatura pop riesce a disinnescare. Forse è l’anime per eccellenza insieme a Ghost In The Shell di Mamoru Oshii, immediatamente riconoscibile quando si parla di animazione giapponese, che salta fuori in ogni discorso sul tema; oltre l’archeologia del fanatico, l’adattamento animato del manga di Katsuhiro Ōtomo (che lo scorso aprile è anche tornato nelle sale con un nuovo doppiaggio) è una visione obbligata per comprendere un titanico cambiamento nel mondo dell’intrattenimento, e non solo.
Katsuhiro Ōtomo sicuramente non immaginava che Akira sarebbe diventato il primo manga ad essere pubblicato integralmente negli USA, ma nella sua formazione la mitologia della nuova Hollywood degli anni Sessanta era già presente. La visione di Easy Rider lo mise in contatto per la prima volta con la demolizione culturale attuata dalla figura del ribelle senza scopo, il mito del viaggio di formazione, il concetto di clan. E Akira è uno dei manifesti per eccellenza della ribellione giovanile, e per una larghissima parte degli appassionati un imprint anarchico, destabilizzante e mostruoso, grazie alla sua rielaborazione cyberpunk del movimento culturale dei bōsōzoku, i famosi teppisti in moto onnipresenti in quasi tutta l’epica giovanile animata e a fumetti.
La «cosa» che rende unico questo anime è l’essere stato il rito di passaggio per molti scapestrati verso il futuro deflagrato e mostruoso che in Blade Runner veniva mostrato come incombente ma per nulla partecipativo; le esigenze narrative erano diverse, la base era hard boiled, ma di quel mondo sincretico strapieno di possibilità si aveva solo un assaggio superficiale che ti faceva desiderare di andare a fondo. Conoscere quella sottocultura, trasfigurarti in essa. E in Akira abbiamo questo: un anime anarcoide, un racconto di formazione cyberpunk, e il primo bombardamento sinaptico che ha deformato i neuroni di tanti, creando una fame concreta verso l’animazione giapponese. E, in alcuni casi, anche verso la droga.
La fondazione di Akira come immaginario ed esperienza nacque con una scelta assolutamente folle da parte di Otomo: realizzare l’adattamento animato di una serie a fumetti ancora in corso, e di cui non conosceva ancora il finale (leggende dicono che gli venne suggerito da Jodorowsky). Forte del successo di Domu (in Italia tradotto come Domu – sogni di bambini), manga horror bellissimo che condivide con Akira tematiche come l’oscuro potenziale del fanciullo in una società spezzata e famelica, Otomo si trova in un momento di produttività straordinaria, dove riesce a realizzare circa 20 tavole a settimana in quasi totale autonomia, come testimonia questa intervista con Takehiko Inoue.
In ogni caso, forte di un budget assurdo (frutto di un’unione di forze pazzesca tra l’editore Kodansha, Bandai, Laserdisc Corporation e altre compagnie) e in piena mania di grandezza, il giovane autore si ritrova con un fondo di circa 1 miliardo di yen da spendere per comprimere una saga di oltre 2000 pagine in 2 ore di animazione.
Il risultato è un’opera dalla narrativa incasinata, ma il cui immaginario continua da trent’anni a modificare le percezioni di tutti gli adolescenti che vivono (e hanno vissuto) «l’esperienza Akira» come rito di passaggio da fruitori occasionali di cultura giapponese a rimasti irrecuperabili con un account su Crunchyroll, ma non solo: si tratta di uno dei primi manifesti di larga fruizione in cui viene presentato un ideale di resistenza e lotta attraverso la destrutturazione del kouha, il bullo giapponese, l’ideale di mascolinità ostentata per distruggere ogni incasellamento, creando spazi di libertà che, nel caso di Akira, si sviluppano attorno a un gigantesco cratere che ha annichilito la città di Tokyo nel luglio del 1988.
Tetsuo e Kaneda, ovvero le due estreme declinazioni del kouha, hanno legittimato e riposizionato nella cultura popolare il movimento dei bōsōzoku rendendolo mitologico: le risse senza scopo, una sessualità monodimensionale, la costruzione della propria identità ricomponendo il proprio aspetto con dei look assurdi che pervertono il concetto di divisa (sul tema c’è un bel documentario, Godspeed you! Black Emperor del 1973, il cui titolo rimanda pure al noto gruppo post rock).
Kaneda, eroe archetipico che utilizza una violenza considerata come «purificatrice» dai precetti del clan giapponese, opposta alla società annichilente, viene utilizzato da Otomo come pretesto per ampliare e ridefinire il suddito/fratello surrogato Tetsuo.
L’intento parodico delle due figure viene pervertito totalmente nell’incubo di carne e metallo mutante della conclusione (al punto che molti rivedono in Tetsuo di Shinya Tsukamoto dei parallelismi/tributi non dichiarati ad Akira), l’eterno secondo co-dipendente, che nella debolezza coltiva un degradante desiderio di rivalsa epica. La cultura degli yakuza movies, con il concetto cardine di «lealtà» particolarmente caro al confucianesimo, unita alla sensibilità mutante di Otomo, sembrano quasi avvisaglie del movimento New Weird trasferito su schermo.
Seguendo la definizione di Jeff Vandermeer (dall’introduzione all’antologia The New Weird del 2008), ci troviamo in effetti dinanzi a «una narrazione urbana, una fiction immaginaria che sovverte il fantastico tradizionale, che predilige modelli del mondo reale come rampa di lancio per creare scenari che combinino sci-fi e fantasy (…). Il New Weird ha una qualità viscerale di cattura del presente, che spesso usa elementi surreali oppure di horror trasgressivo per il suo tono, stile e rappresentazione degli eventi». Questi elementi sono tutti presenti in Akira, edulcorati dallo spettacolo visivo tirato su da Otomo.
Vista oggi, la critica all’ideale corporativo giapponese potrebbe assumere l’aspetto di un sottotesto blando; ma è la sua estrema semplicità – unita alla volontà immaginifica e folle di Otomo – a rendere Akira un insieme di iconografie da rubare per costruire piccole rivoluzioni, radendo al suolo le avvisaglie nostalgiche di certe narrazioni postmoderne (vedi il futuro di Blade Runner).
Il mondo di Akira è una delle prime forme animate di cancellazione dei confini tra passato e presente, sia in termini culturali (l’Occidente che viene inglobato dall’Oriente, e viceversa) che in termini di pura schizofrenia, dove il concetto di eterno presente inizia a mostrare le sue mostruose conseguenze; la vicenda incorpora quattro giganteschi significanti storici destrutturati: l’asse corporativo-militaresca degli anni Trenta del Novecento, l’atomica su Hiroshima e Nagasaki nel 1945, i movimenti studenteschi contro il trattato di mutua cooperazione con gli USA negli anni Sessanta e le olimpiadi di Tokyo del 1964.
La figura del Colonnello, dell’industria spietata e fuori controllo, il fantasma della contaminazione nucleare incarnato dagli spettrali bambini che sono tutti bombe potenziali, e il concetto «if the kids are united» infestano tutta la quintessenza postmoderna di Neo Tokyo, immagine distopica famigerata della città mutuata da un anime precedente prodotto da Otomo, insieme al contrasto tra un passato da distruggere e un palese intento utopico (che troviamo soprattutto nel finale).
E poi c’è l’animazione di Akira: che, be’, resta un elemento straordinario ancora oggi. Se all’epoca negli anime l’uso limitato dei frame era consuetudine, Otomo dona alla sua creatura una fluidità mostruosa realizzando più di 160.000 immagini. Unita ad un uso sapientissimo della CGI, dialoghi adattati ai movimenti della bocca dei personaggi (pazzesco per il 1988) e una colonna sonora incredibile, l’esperienza-Akira è qualcosa che conserva ancora oggi una carica immaginaria quasi immutata. La scena della trasformazione di Tetsuo, l’estensione oscena del suo braccio, oppure la mappatura del suo schema mentale sono scene ancora oggi ineguagliate, piene di intuizioni rubate da tutti.
L’utilizzo del lens flare a dare «corpo» alla velocità delle corse in moto, per fare un esempio, è la base dello sviluppo del «bullet time» reso famigerato da Matrix (che, ricordiamolo, non sarebbe mai esistito senza Akira). Le botte sensoriali di Neo Tokyo, le sue luci abbaglianti e quelle che sembrano morire da un momento all’altro, sono uno snodo culturale tanto quanto il visual futurism di Syd Mead (altra fonte di Otomo per il design della moto di Kaneda, ispirata dal lavoro dell’artista statunitense per Tron). E che dire della scena di Tetsuo che si risveglia, con i giocattoli mostruosi? Altro bagaglio traumatico incredibile. Peccato che ad Otomo all’epoca non sia piaciuta questa seconda parte di Akira, dicendo che l’animazione non era all’altezza della prima, ma pare ci abbia ripensato.
La colonna sonora poi è un mostro a sé: conosciuta come «symphonic suite», fu composta dal collettivo Geinoh Yamashirogumi, fondato dal musicista e scienziato Tsutomu Ōhashi. Impressionato dal loro album del 1986 Ecophony Rimme (una rivisitazione ambient tribale e a tratti oscurissima del ciclo universale di nascita-morte-rinascita filtrato da una rilettura musicale misticheggiante), Otomo commissiona al collettivo di comporre l’OST del film lasciandogli libertà totale, a patto che Yamashirogumi e soci si attenessero a due «movimenti» di concept, uno di sfrenata violenza baccanale e una sorta di requiem finale; il risultato è un sound indimenticabile, che riprende le intuizioni di Echophony e le rielabora creando un secondo livello d’immersione nel film.
La colonna sonora parte nel momento in cui nel bar Kaneda sceglie un cd, il jukebox lo piazza sul lettore, e quando si preparano a partire in moto inizia il suo tema. Insieme alla traccia «Requiem» si hanno praticamente tutti i movimenti di tono del film: praticamente lo si potrebbe «vedere» ad occhi chiusi.
Narrazione frammentaria e convulsa esplosa per favorire l’azione, editing schizoide in funzione del concetto di flusso, il movimento caratterizzato da un frequente «stop & go» per massimizzarne l’impatto: tutti questi elementi sono la quintessenza di un primo approccio all’iperrealtà. In Simulacri e Impostura, Jean Baudrillard la definisce come «la generazione di modelli di realtà senza origine o attinenze con il reale»; il concetto di simulazione, tanto caro alla fantascienza, è in Akira disarticolato nella sua costruzione di frammenti di reale che costruiscono un «imperativo sensoriale» allucinatorio, un’amplificazione e una distruzione dei confini tra verità e immaginario. Basti vedere la scena della battaglia iniziale contro la gang dei clown: il tizio con il tubo salta sulla moto del boss, lo colpisce, il boss assorbe l’urto e gli molla una testata. Il corpo del tizio resta sospeso mentre attorno a lui la velocità della corso rimane invariata. Un’azione così non si era mai vista.
La stessa Neo Tokyo è una contaminazione oscena di futurismo e le peggiori esarcebazioni del capitalismo. In Akira il reale è in costante riproduzione, che perde di significato ad ogni sua rappresentazione. L’elemento allucinatorio del film è tutto qui, in due parole prese a caso da Otomo e messe su una giacca di pelle rossa ad incorniciare una pillola: Good for health, bad for education. Non è presente nell’anime ma, volenti o nolenti, è rimasta nella storia come se fosse la tagline invisibile del film.
Il superamento del presente e dei limiti umani attraverso l’utilizzo di droghe non sono proprio materia da cultura pop, ma grazie ad Akira oggi ne possiamo parlare anche mentre ci si gasa per un film di fantascienza e mutazioni. La frase in sé non significa nulla: è come quelle scritte terrificanti presenti sulle magliette vendute nelle fiere di paese. Invece riesce ad inquadrare perfettamente la portata di questo film, del suo sottotesto di anarchia acerba, della storia come fantasma.
L’utilizzo degli stimolanti che porta Tetsuo alla rovina, contrapposti ad una versione somministrata ai bambini per limitare i loro poteri, rivelano la duplice natura dell’opera: rivelatoria e distruttiva insieme, Akira resta cultura pop senza aver raggiunto la corruzione e la perdita di significato del simulacro. La visione, come la re-re-re-visione, è un’esperienza sempre pura, mediata solo dallo spettatore.
Akira consegna all’immaginario di una generazione la capacità di edificare dalle rovine e il potenziale magmatico che agisce sotto di esse. La visione di un futuro mostruoso per il quale combattere.