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I deserti di Herzog tra apocalisse e cliché

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Apocalisse nel deserto è un documentario sui giorni infernali che visse il Kuwait al termine della guerra del Golfo. Werner Herzog lo girò nell’estate del 1991 e nel gennaio del 1992; mostra la desolazione che le truppe irachene lasciarono ritirandosi dai territori occupati: accanto ai pozzi di petrolio in fiamme, la sabbia è tinta di nero e pennacchi densi di fumo si alzano tra le gru che tentano di sedare il fuoco. Pochi edifici nel deserto, qualche rudere, qualche stanza per la tortura con strumenti abbandonati, mentre la sofferenza stringe ancora le gole delle vittime.

Herzog la considera un’opera di fantascienza: nessun nome e nessun luogo viene mai citato, è un racconto senza valore informativo, che trascende la ricostruzione degli eventi; si potrebbe trattare delle rovine di qualsiasi guerra in qualsiasi paese. In una delle interviste raccolte in Incontri alla fine del mondo, Herzog spiega il film così: «Si svolge come se l’intero pianeta fosse in fiamme e dal momento che si sente musica per tutto il film, definisco Apocalisse nel deserto un requiem per un pianeta inabitabile, che noi stessi abbiamo distrutto».

Come per la giungla di Aguirre o il Rio delle Amazzoni di Fitzcarraldo, i paesaggi dei film di Herzog sono quasi sempre riflessi di panorami interiori, indagine psicologica, intima, tracciato dell’animo umano che emerge nella natura che abitiamo. E il deserto è uno dei paesaggi che più ha inquietato e incantato Herzog, negli anni. «Ha qualcosa di molto primordiale, misterioso e sensuale», racconta nella stessa raccolta di interviste. «Non è solo un paesaggio, è un modo di vivere. La solitudine è la cosa più opprimente. Tutto è come sprofondato nel silenzio. Il periodo che ho trascorso nel deserto fa parte di una ricerca che per me non è ancora esaurita.»
Negli ultimi anni le uscite di film di Herzog sono sempre più numerose, e si alternano inevitabilmente capolavori, film sciatti, lampi di ispirazione, film su commissione. Così anche la sua non ancora esaurita ricerca dello spirito del deserto si può trasformare a volte in un racconto con la profondità dei trafiletti della Lonely Planet.

Prendiamo Queen Of The Desert, film sulla vita di Gertrude Bell, del 2015. Gertrude Bell è stata uno di quei personaggi pionieristici, bulimici di avventure e ricchi di privilegi che il Regno Unito sfornava duecento anni fa: nata nel 1868 da una famiglia di industriali dell’Inghilterra del nord, fu archeologa, cartografa, linguista, abile alpinista e agente segreto britannico.

Volontaria per la Croce Rossa durante la Guerra mondiale, nipote dell’ambasciatore inglese in Persia, nel 1915 divenne la prima donna della storia a lavorare per l’intelligence inglese negli anni in cui, con la caduta dell’impero ottomano, la riorganizzazione del Vicino e Medio Oriente divenne una sciarada impossibile, giocata tra l’orgoglio di leader arabi sempre più forti e la residuale spavalderia colonialista di un impero britannico in smantellamento.

La leggenda racconta Bell dama elegante ma amica dei beduini, donna forte e decisa. Nel deserto si conquistò il soprannome di Khatun, titolo onorifico equivalente a nobildonna, regina. Imparò il persiano, il turco e l’arabo ed ebbe un ruolo di primo piano nella costituzione dei nuovi regni di Transgiordania e Iraq, e nella definizione dei loro confini. Dimenticata a lungo, venne goffamente riesumata durante l’intervento americano contro il regime di Saddam come figura di «internazionalista», esportatrice di democrazia.

La vita di Gertrude Bell era insomma, almeno in teoria, un tassello perfetto da inserire nel mosaico di vite fuori dall’ordinario che Herzog ha costruito in cinquant’anni con le sue storie di megalomani, visionari, reietti o semplici pazzi.

Le riprese di Queen Of The Desert sono state rimandate di mesi e poi di anni, con cambi di location, tagli al cast e i timori di una sovrapposizione con un biopic alternativo annunciato da Ridley Scott con Angelina Jolie nella parte di Bell – poi silenziosamente smaterializzato nel nulla. Nel 2015 il film di Herzog è stato finalmente presentato al Berlin Film Festival, accolto da critiche impietose. Due anni dopo è stato stancamente distribuito negli Stati Uniti, e su Rotten Tomatoes colleziona oggi il punteggio di 17/100.

Nella primissima scena i potenti dell’impero britannico, cartina sul tavolo, si scervellano per dare un ordine politico al Medio Oriente. Robert Pattinson, nei panni di Lawrence d’Arabia, porta sul capo la kefiah avvolta dall’egal con la naturalezza di un invitato dell’ultimo minuto a una festa di carnevale. Accanto a lui Christopher Fulford fa una cattiva imitazione di Winston Churchill col sigaro in bocca. Torniamo indietro di qualche anno, e Nicole Kidman interpreta la giovanissima Bell alle prese con i suoi primi conflitti con l’alta società britannica. Agli spettatori viene chiesto di scambiare Kidman cinquantenne per una donna con poco più della metà dei suoi anni, una sospensione dell’incredulità faticosa da sostenere per tutte e due le ore del film – intollerabile durante i surreali scontri tardo-adolescenziali con il padre.

I primi quaranta minuti sono puro melò durante il quale Bell viene travolta dalla passione per il segretario dell’ambasciata inglese a Teheran, James Franco – Henry Cadogan. Durante le fughe d’amore tra i due e le prime scampagnate nel deserto, Bell inizia a conoscere il fascino da cartolina del vasto mondo pan-arabo, misterioso eppure mai insidioso, ricco di fascino e tesori. «L’oriente è come un sogno infinito», scrive sognante sul proprio diario, «che splendidi colori», le scappa di dire durante la sua prima visita in un sūq.

Poi Henry Cadogan muore e Gertrude Bell decide di andare alla ricerca di sé stessa esplorando il deserto. Lì, tra beduini e dromedari, la sera beve sempre due tazze di té, una per lei e una «per l’uomo che vive nel suo cuore», mentre gli incessanti vocalizzi arabeggianti della colonna sonora sottolineano continuamente il fatto che sì, siamo proprio nel deserto (ci spostiamo tra Amman, Petra, Damasco e un po’ di varia Mesopotamia).

Terminata la visione ho cercato inutilmente un’intervista in cui Herzog risolvesse l’enigma dietro a una scrittura così insolitamente pigra. L’unica scena del film in cui lo stesso Herzog sembra divertirsi davvero sono i dieci secondi di primi piani di cammelli che grugniscono, bevono, sbavano e ruttano durante una pausa ristoro di Bell e dei suoi nel deserto. Forse Herzog è incapace di scrivere film con donne nel ruolo da protagonista (per assurdo che sembri, questo era il primo). Forse, più semplicemente, questa volta gli è uscito fuori un film orribile.

Alla fine di Queen Of The Desert, mi è tornata in mente una delle sue prime cose: Fata Morgana (1971). Un film senza trama, sperimentale e allucinato, fin troppo indecifrabile, lento e ossessivo. Ho deciso di rivederlo subito dopo Queen Of The Desert per scacciare il ricordo della sua fotografia da Club Med.

Girato anche questo principalmente nel deserto, nel Sahara meridionale, e poi nelle Canarie, in Kenya, Tanzania e Guinea, Fata Morgana è diviso in tre movimenti: Creazione, Paradiso, Età dell’oro. È un film ridicolo per quanto è pretenzioso, ma come in una liturgia vudù, il fastidio per questo scaccia il disgusto che ho provato per Queen Of The Desert.

Fuori campo vengono letti brani attinti o ispirati a Popol Vuh, «il libro della comunità», raccolta di leggende sacre degli indios guatemaltechi. Il deserto e la natura sono spaventosi e magnifici: dune infinite, qualche oasi, capannoni e fabbriche dismesse accanto a piccoli insediamenti umani, carcasse di aerei e di animali, discariche, pozzi di petrolio in fiamme, altre dune. Un bambino tiene fermo tra le mani un cucciolo di volpe albina, delle ragazze giocano fuori da alcune capanne di fango. Le immagini scorrono veloci, accelerate, il montaggio è allucinato. Ciclicamente tornano a risuonare So long Marianne, e That’s no way to say goodbye di Leonard Cohen, dove probabilmente l’addio che viene evocato è quello alla civiltà, oltre che al senso e al linguaggio. «Questo paesaggio non ha alcun significato», dice a un certo punto la voce narrante.

Nell’ultimo anno sono usciti due nuovi film di Herzog, Meeting Gorbachev e Family Romance, LLC. Uno, Fireball, è stato annunciato e un altro, Fordlandia, è in pre-produzione. Un quinto sta cercando distribuzione: Nomad, un documentario su Bruce Chatwin che nel Regno Unito è stato acquistato dalla BBC.

Herzog e Chatwin si sono conosciuti, Cobra Verde è ispirato al romanzo Il viceré di Ouidah di Chatwin, che venne invitato ad assistere alle riprese del film. In Che ci faccio qui? Chatwin riassume così quello che ha pensato di Herzog in quei giorni: «Scoprii in lui un compendio di contraddizioni: tremendamente coriaceo ma vulnerabile, affettuoso e distaccato, austero e sensuale, piuttosto insofferente delle tensioni della vita quotidiana ma quanto mai efficiente nelle situazioni d’emergenza».