Antropologia estrema

Lusso, bikers e merda: conversazione con Tereza Kuldova dell’Extreme Anthropology Research Network

Tereza Kuldova è una ricercatrice (e curatrice di moda) nata in Repubblica Ceca ma residente a Oslo, in Norvegia. Ha scritto un libro intitolato Luxury Indian Fashion – A Social Critique (Bloomsbury, 2016), è curatrice assieme a Mathew A. Varghese del volume Urban Utopias: Excess and Expulsion in Neoliberal Asia (Palgrave, 2017), ma soprattutto è la fondatrice dell’Extreme Anthropology Research Network, una rete di antropologi, sociologi, criminologi e artisti che dall’inizio del 2017 sta portando avanti un peculiare percorso di «antropologia estrema». Hanno anche una rivista ufficiale – chiamata guarda caso Journal of Extreme Anthropology – il cui primo numero è fresco di stampa, uno speciale succulento dal titolo: Tesi sulle feci: incontri con l’abietto (il secondo, dal titolo Mascolinità estreme, è previsto per il prossimo marzo e prende spunto da una conferenza appena tenuta a Vienna). Ho contattato Tereza per farmi spiegare cos’è esattamente questa antropologia estrema, ma anche per farmi dire qualcosa sul suo percorso accademico, e lei per prima cosa mi ha raccontato che la sua vicenda personale «è un esempio del potere della serendipity. A quindici anni ho iniziato a studiare norvegese un po’ per caso, a sedici mi sono messa in contatto con Thomas Hylland Eriksen pensando che fosse un giovane ricercatore (mentre invece è una superstar dell’antropologia), e poi ho vinto una borsa di studio per studenti che vogliono studiare in Norvegia. Ma questo solo grazie a Gesù».

Grazie a Gesù?
Non fraintendermi, sono un’atea convinta. Ma l’unica altra ragazza più qualificata di me improvvisamente è entrata in una setta religiosa, e a quanto pare Gesù le ha detto che non doveva viaggiare. E quindi a viaggiare sono stata io. Arrivata a Oslo ho scelto un po’ casualmente di studiare l’hindi: è stata una mossa azzeccata, grazie agli insegnamenti di Claus Peter Zoller – un linguista sorprendente che ha documentato la lingua dardica indus kohistani –  ho sviluppato la mia passione non solo per l’hindi ma per tutta la cultura indiana.

A proposito di India: perché hai scelto di studiarne proprio la moda e l’industria del lusso?
Ci sono arrivata passando per un argomento completamente diverso. Mi ero imbattuta in un libro di Ashutosh Varshney, Ethnic Conflict and Civic Life: Hindus and Muslims in India, che parlava dei conflitti tra hindu e musulmani in India, e che però citava anche il caso di Lucknow, la capitale dello stato indiano di Uttar Pradesh. Ora: Lucknow è una città estremamente multiculturale, ma è anche famosa per essere da sempre sorprendente pacifica, e questo mi colpiva perché la maggior parte dei ricercatori è interessata perlopiù ai conflitti, anziché a chiedersi perché e in quali condizioni c’è armonia.

Nel caso di Lucknow, molto dipendeva da una mitica età dell’oro in cui la città era governata dallo sciita Nawab di Awadh (1722-1856), che riuscì a integrare con successo diversi segmenti di popolazione grazie a riti, celebrazioni e a una particolare organizzazione dell’economia locale. Questa poggiava in particolar modo sul settore artigianale e su un ricamo unico tipico di Lucknow, il chikankari. Il punto fondamentale è che la sua produzione comprende molte professioni diverse: sarti, tagliatori di stoffa, tipografi, lavandai, tintori, ricamatori, commercianti, esportatori e così via. In questo modo, il settore artigianale ha creato reti di dipendenza che attraversano divisioni di casta, genere, classe, religione e la località stessa. A loro volta, queste reti di dipendenza economica creano ponti tra le comunità e impediscono lotte interne. Per certi versi è molto semplice: combattere non conviene agli affari. Al tempo stesso, queste relazioni materiali ed economiche non sarebbero state sufficienti senza una sovrastruttura ideologica: la mitica narrazione sull’armonia comunitaria condivisa da molti abitanti.

Il cortometraggio Fashion India: Spectacular Capitalism girato da Tereza Kuldova nel 2013

Mi piace il retrogusto  weberiano della tua precisazione finale. Ma se non sbaglio il libro che hai pubblicato per Bloomsbury, Luxury Indian Fashion – A Social Critique, si concentra su un tema più contemporaneo e conflittuale…
Quando sono stata a Lucknow, ho notato che sempre più designer di lusso provenienti da Delhi o Mumbai, andavano lì per produrre i propri ricami. E questo processo mi ha portato a pormi molte domande sui rapporti di classe, sull’estetica del potere e anche sulle relazioni di genere. Per rispondere a queste domande, ho quindi deciso di adottare una metodologia del tipo «segui la merce»: e cioè dalla sua produzione al consumo, dai villaggi impoveriti alle sfilate di moda e ai guardaroba delle élite.

Vedi, in India l’industria della moda è un fenomeno piuttosto nuovo: considera che la prima fashion week si è svolta nel 2000. La figura del designer era qualcosa di inedito, e fino agli anni Novanta c’erano soltanto artigiani, tessitori e sarti. L’analisi della relazione di potere tra designer e artigiani costituisce il nucleo del libro. Quello che in particolare mi interessava era come gli artigiani venissero rappresentati come una massa indistinta di corpi qualificati ma non organizzati, tradizionali e non innovativi; mentre al contrario, i designer venivano raccontati come la quintessenza dell’individuo geniale e creativo. In effetti, creatività e individualità vengono negate alle masse grazie a un’ideologia che li mantiene di fatto in povertà.

A un certo punto hai spostato le tue ricerche dall’India all’Europa, e da un élite a una sottocultura. Parlo ovviamente del tuo progetto sull’estetica degli Hells Angels scandinavi. Da noi non sono forse famosissimi, ma nel Nord Europa sono considerati una vera organizzazione criminale, rimasta famigerata per via di episodi come la sanguinosa Grande Guerra Biker del Nord
Intorno al 2014 ho iniziato a interessarmi ai diritti sulla proprietà intellettuale nell’industria della moda. In quel periodo stavo aiutando la mia amica Lill-Ann Chepstow-Lusty (una delle fotografe più talentuose che conosca) per la mostra For the Love of Freedom, in cui aveva invitato gli Hells Angels per elaborare criticamente il tema della libertà e dei suoi limiti. Era una mostra profondamente controversa, che suscitò forti ostilità e accuse di normalizzazione di un’organizzazione criminale, c’è stata addirittura un’interrogazione parlamentare. Durante un’intervista, il fotografo Marcel Leliënhof – un esperto di Hells Angels che per diversi anni ne ha seguito e fotografato la sezione norvegese – mi ha rivelato che gli Hells Angels sono estremamente protettivi nei confronti della Death’s Head, il loro simbolo iconico. È un marchio registrato negli Stati Uniti già dal 1973 e diverse società di moda, come ad esempio Alexander McQueen, sono state denunciate per violazione del diritto d’autore.

Non ne avevo la minima idea, mi sembra assurdo!
Sì, infatti! Prima di tutto ho trovato estremamente interessante che una banda di motociclisti che si autodefinisce fuorilegge ricorra proprio alla legge per difendere il proprio marchio. A questo va aggiunto che gli Hells Angels sono diventati un brand simbolo degli Stati Uniti grazie alla protezione della legge stessa. Non ho potuto che pensare all’intrinseco feticismo che caratterizza le leggi che regolano i marchi commerciali. Poi ho trovato affascinante le reazioni passionali che gli Hells Angels sono in grado di scatenare, sia tra i sostenitori che tra gli oppositori: sembrano tutti in  missione religiosa per combattere il male assoluto. Il fatto che un gruppo sociale possa suscitare sentimenti così ambivalenti è ciò che mi ha fatto decidere di studiare ulteriormente la subcultura dei «motociclisti fuorilegge».

Tereza Kuldova e la Death’s Head (foto di Lill-Ann Chepstow-Lusty)

Leggendo della tua ricerca, le prime cose che mi sono venute in mente sono la pseudo-etnografia che sugli Hells Angles portò avanti Hunter Thompson, e il concerto di Altamont in cui sempre gli Hells Angels misero la parola fine alle utopie hippie. Anche i biker europei sono così violenti e pericolosi?
La maggior parte dei racconti sulle bande di bikers che circolano su media, libri, documentari e spettacoli televisivi, provengono dal cosiddetto giornalismo d’inchiesta degli anni Cinquanta e Sessanta. Questo genere di articoli era sempre un miscuglio tra fatti e finzione di cui era piuttosto difficile stabilire il grado di verità. Ovviamente sono le stesse gang di motociclisti a insistere molto sulla loro fama violenta; ma al tempo stesso si costruiscono una reputazione positiva, ad esempio attraverso attività caritatevoli e di sostegno alla comunità. In questo caso, una reputazione negativa è altrettanto buona quanto una reputazione positiva, perché in genere aiuta a rafforzare il brand del club stesso. Ma non si dovrebbe essere del tutto cinici sulle attività di beneficenza dei biker: spesso sono guidate da una reale preoccupazione per le persone in difficoltà, e il miglioramento della reputazione della gang è più che altro un bonus.

Ma nella tua esperienza personale come si sono comportati gli Hells Angels?
Mi sono trovata in situazioni più pericolose tra l’élite indiana che tra i motociclisti. Il rischio c’è sempre, e infatti alcuni tra i motociclisti sono orgogliosi del loro aspetto intimidatorio e della reputazione violenta. Però finché tratti le persone con rispetto e sei onesto rispetto a quello che stai facendo, raramente ti trovi in difficoltà. Anche essere un ricercatrice donna in questi contesti ha i suoi vantaggi. Tra gli Hells Angels ho anche incontrato un sorprendente rispetto per gli accademici: sono chiaramente più apprezzati dei giornalisti per le loro opinioni equilibrate e perché non tentano di spettacolarizzare un determinato gruppo per aumentare le vendite di qualche libro o giornale.

Sono curioso di sapere se, tra la ricerca sulla moda di lusso in India e quella sugli Hells Angels, trovi dei punti di contatto.
In effetti ci sono delle similitudini interessanti. Prendiamo per esempio il ruolo della filantropia, della carità e della beneficenza: non solo come produzione di valore in quello che viene chiamato «capitalismo con volto umano», ma anche come forma di potere che riproduce (e a volte aumenta) le disuguaglianze. La beneficenza come forma di potere sembra prosperare solo in determinate condizioni: per esempio in luoghi in cui lo Stato viene percepito come debole (perché incapace di fornire giustizia e sicurezza sociale) e nei posti in cui disuguaglianza e povertà sono in aumento massiccio.

Spesso filantropi superstar come Bill Gates o, in India, Ratan Tata sono celebrati e salutati come gli unici possibili salvatori dai segmenti ricchi della società, mentre i più poveri dipendono dalla carità e dalla benevolenza delle reti semi-criminali o addirittura criminali che offrono una protezione che lo Stato non è più in grado di fornire. Non ho dubbi che la continua neoliberalizzazione del welfare state, assieme all’attuale pseudo-politica portata avanti da sinistra come da destra,  contribuisca notevolmente all’aumento del «filantrocapitalismo».

Va bene, ma a livello estetico? Voglio dire: ci sono similitudini tra come l’élite indiana e i biker europei si rapportano allo stile?
Diciamo che c’è anche una certa estetica del potere che fa da sfondo a questi processi, presente nelle sfilate di moda come nella produzione dei fashion designer indiani e tra le bande di motociclisti: vale a dire una certa estetica neofeudale (nel caso indiano ho parlato di royal chic) che rielabora forme di potere regali e feudali, estetizzandole. Sono relazioni di potere che si fondano sull’idea del sublime: il terrore, le spettacolari ostentazioni di forza che inducono un senso di soggezione nell’osservatore… È anche il caso dei bikers che coltivano la loro immagine pubblica come violenti selvaggi terrificanti, proprio per poter apparire potenti e attraenti. Questa estetica del potere fondata sul sublime sembra proliferare nel neoliberismo contemporaneo.

Spesso filantropi superstar come Bill Gates o, in India, Ratan Tata sono celebrati e salutati come gli unici possibili salvatori dai segmenti ricchi della società, mentre i più poveri dipendono dalla carità e dalla benevolenza delle reti semi-criminali o addirittura criminali.

Passiamo alla tua ultima iniziativa. Noi ci siamo conosciuti grazie all’Extreme Anthropology Research Network che hai fondato all’inizio del 2017. Da dove ti è venuta l’idea?
Nei miei vari progetti ho lavorato con persone stimolanti provenienti dalle discipline più disparate e con interessi di ricerca diversissimi, mentre spesso in ambito accademico si rimane rinchiusi nel proprio piccolo campo di competenza. Quindi l’idea è stata di mettere in contatto accademici interessanti, e ricercatori che forse non si sarebbero mai incontrati anche se in un modo o nell’altro lavorano tutti su temi «estremi». Credo sia tutto partito dalla voglia di riprodurre quei momenti di incontro altamente produttivi avvenuti durante il mio lavoro e incoraggiare altri ricercatori a muoversi oltre i propri confini disciplinari.

Quali sono gli altri obbiettivi di questa rete di ricercatori?
Di questi tempi si parla molto di interdisciplinarietà, ma non è quello che abbiamo in mente. È la volontà di pensare attraverso casi diversi ma accomunati dall’essere… «estremi», appunto. Può essere davvero qualsiasi cosa: dalla violenza estrema al lusso estremo, passando per l’estrema disuguaglianza o povertà. Temi troppo spesso compartimentati, anziché essere considerati tutti assieme. Sono convinta che ci sia una disperata necessità di accademici sufficientemente audaci di pensare al grande quadro, invece di specializzarsi ulteriormente su campi sempre più ristretti. Questo è qualcosa che vorrei stimolare attraverso il network e le conferenze che stiamo progettando.

Forse è troppo personale, ma siccome hai fondato una rete di ricerca interamente dedicata all’estremo, mi viene spontaneo chiederti quale posto occupa «l’estremo» nella tua vita…
Nessuno in particolare, direi. Quello che è interessante da pensare non è sempre altrettanto interessante da vivere. Anzi, una certa distanza dagli argomenti di ricerca è più produttiva della fede antropologica nell’immersione nel campo o nel cosiddetto going native. In altre parole, non è necessario essere il nostro oggetto di ricerca o cercare di essergli più simile possibile per arrivare a dargli senso e comprenderlo. Negli ultimi decenni è proliferato questo atteggiamento estremamente anti-intellettuale, essenzialista e pericoloso che se non sei una donna/lesbica/nera e così via, non puoi legittimamente dire niente sulle donne/lesbiche/nere. Mentre io penso che quello di cui c’è realmente bisogno sia la conoscenza metodologia approfondita, la formazione disciplinare, la capacità di osservazione, l’abilità di analizzare fonti diverse, delle competenze sociali e l’essere in grado di pensare in modo critico. Possedendo questo genere di formazione, sono piuttosto convinta di poter dire qualcosa sul mondo sociale dei motociclisti maschi che loro stessi non sarebbero in grado di dire.

Il primo numero del Journal of Extreme Anthropology

Quali autori (dentro o fuori l’università) possono ispirare i giovani ricercatori interessati a campo di studi dell’antropologia estrema?
L’antropologia ha sempre trattato temi pericolosi, devianti, misteriosi, violenti e così via. Tra i miei preferiti ci sono Loïc Wacquant sulla boxe, la disuguaglianza urbana e lo stato penale, o anche Martin Sanchez-Jankowski, uno tra i più acuti sociologi esperti in gang criminali. Lui fa parte del nostro network e stiamo preparando assieme un volume collettaneo su gang e club di motociclisti. Ho apprezzato molto il lavoro di Steve Hall e Simon Winlow, due criminologi del nostro network che hanno recentemente pubblicato un libro brillante sull’estrema destra inglese, The Rise of the Right. Poi ci sono le ricerche sui mercati illeciti globali, come quella di Carolyn R. Nordstrom sul traffico di diamanti, droghe e armi, o quella Nancy Sheper-Hughes sul traffico illegale di organi. E non dimentichiamo l’opera di Philippe Bourgois e Jeffrey Schonberg su senzatetto e tossicodipendenza.

In Sensuous Scholarship, un libro pionieristico uscito ormai vent’anni fa, Paul Stoller affronta la questione dalla dimensione politica della rappresentazione antropologica usando come riferimento la Ciné-Ethnography di Jean Rouch e il Théâtre de la Cruauté di Antonin Artaud. Per questa tradizione, le immagini e le esperienze corporee sono fondamentali per provocare il pubblico e destabilizzare l’anestesia sensoriale della società contemporanea. Pensi valga anche per l’antropologia estrema?
La questione della rappresentazione è sempre complessa e non ho una risposta definitiva al riguardo. Però posso offrirti un aneddoto dal mio lavoro sul campo, dove la discrepanza tra esperienza reale e la sua rappresentazione video mi ha davvero colpito. Quando ero ancora a Lucknow, ho partecipato alle celebrazioni di lutto dell’ultimo giorno del mese sciita del Muharram. A un certo punto, dentro un prestigioso palazzo per le cerimonie, mi sono trovata schiacciata in mezzo a un’enorme massa di uomini. Appena conclusasi la preghiera del mawlānā, alcuni uomini si sono alzati e dopo essersi tolti la maglietta hanno iniziato ad auto-flagellarsi con fasci di coltelli, mentre altri si tagliavano freneticamente la fronte con delle spade.

L’atmosfera era estatica da una parte e sorprendentemente rilassata e pacifica dall’altra: quello che mi sconvolgeva è proprio che non ci fosse niente di scioccante. Dopo un po’ gli uomini si sono spruzzati le ferite con dell’acqua alle rose e hanno continuato il rituale, alcuni con un senso di sollievo sul volto e altri addirittura scherzando. Ho registrato qualche video e riguardandolo qualche giorno dopo sono rimasta colpita da come appariva ai miei occhi: un sacco di sangue, espressioni di dolore ed estasi… Era tutto molto strano, surreale in modo brutale, quasi l’opposto di quello che avevo sperimentato dal vivo. Ed è questo per me il problema di qualsiasi rappresentazione mediata.

Vale lo stesso per la scrittura? Dopo la svolta postmoderna degli anni Ottanta, in etnografia si parla molto di retorica, autorialità e riflessività. Un esempio sul potere della scrittura è proprio Loïc Wacquant, di cui parlavi poco fa: non si definirebbe mai un postmoderno, ma i suoi testi sono scritti magnificamente, con un vocabolario eccezionale e una capacità di mettere in mostra lucidamente la dimensione carnale dell’esistenza.
Anche per la scrittura è estremamente difficile «rappresentare» con precisione. Sono convinta che il nostro obiettivo sia un’analisi sociale solida piuttosto che una rappresentazione accurata. Anche perché c’è sempre una domanda in agguato: accurata secondo chi? E chi ha l’autorità per dirlo? Si dovrebbe mettere in discussione il dettato intrinseco dell’etnografia, dove il successo è spesso misurato dal grado in cui la popolazione studiata si ritrova nel testo. Forse non è questo il punto di un’analisi antropologica.

Nessuna casa editrice era disposta a investire sulle stampe in alta qualità di un soggetto così sgradevole come «la merda».

Il riferimento ad Artaud non era casuale. Il suo Recherche de la Fécalité  potrebbe essere un buon sottotitolo per il primo numero del Journal of Extreme Anthropology, la rivista ufficiale del network di ricerca che hai fondato. Il titolo del primo volume è Theses on Faeces: Encounters with the Abject, ovvero «Tesi sulle feci: incontri con l’abietto». Perché avete scelto un argomento del genere? Che ovviamente mi esalta!
In effetti sarebbe un ottimo sottotitolo! Comunque: all’inizio volevamo fare un libro illustrato, accademico e patinato assieme, con le fotografie sovradimensionate di un altro progetto di Lill-Ann Chepstow-Lusty. Un giorno le è venuta questa idea di fotografare feci nei luoghi più disparati per oltre un anno. Considera che è arrivata ad essiccarle sul suo balcone, colorale con vernice dorata e spargerle in giro….

All’inizio pensavo che la pubblicazione del volume sarebbe stata una sorta di hobby, ma poi ho incontrato diversi accademici che sembravano avere qualcosa da dire sul tema. Nessuna casa editrice era disposta a investire sulle stampe in alta qualità di un soggetto così sgradevole come «la merda». Nello stesso periodo stavo ragionando su come organizzare il nostro network di ricercatori, e ho pensato che unire le due cose non fosse un’idea malvagia. Inoltre, a differenza di tutte quelle pubblicazioni costose e a numero limitato, Journal of Extreme Anthropology sarà open-access e liberamente consultabile da tutti, e questo credo sia la cosa più importante. Ma saremo anche in grado di stampare copie fisiche della rivista a chi ne farà richiesta.

Puoi dirmi qualcosa in più sul primo numero della rivista?
Come prima cosa abbiamo pubblicato degli articoli in anteprima: uno breve ma emblematico di Slavoj Žižek su servizi igienici e ideologia (un suo classico), un brillante saggio di Arya Rina sull’abbietto, e anche degli estratti del libro di Florian Werner, Dark Matter: The History of Shit. E ora stiamo pubblicando un po’ alla volta tutti gli altri: un articolo di Jojada Verrips sull’arte escrementale, uno di Fred Luks sui discorsi cazzari, un saggio di Robert Pfaller sugli escrementi come equivalente universale per la comprensione, uno di Sebastian Averill sul rapporto tra coprofilia e Slavoj Žižek, un mio scritto sull’irresistibile potere dell’abietto, e infine uno dello psicanalista Karl Stockreiter su un paziente con una speciale relazione con gli escrementi. Che dire, ci sono un bel po’ di cose interessanti!

Dal Journal of Extreme Anthropology

Io ho adorato Dark Matter: The History of Shit di Florian Werner. Tratta davvero moltissimi temi, tra cui il «piacere crescente nella trasgressione escrementale» degli scrittori contemporanei. Lasciando da parte l’elemento scatologico, sono convinto che questo argomento possa essere esteso ai ricercatori che indagano l’estremo e la trasgressione. Qual è il piacere di fare ricerche in questo campo?
Forse si potrebbe dire che è una forma di ricerca sublime. Mi riferisco alla definizione del sublime di Edmund Burke: per lui è possibile provare piacere per qualcosa di minaccioso, trasgressivo e terrorizzante, se osservato da una certa distanza di sicurezza, da una posizione dove non siamo veramente minacciati, ma dove possiamo contemplare e in qualche modo identificarci con il terrore e sentirci elevati e potenziati. Qualcosa di molto diverso dall’esperienza diretta del terrore che ci traumatizza dandoci pochissimo piacere.

Cosa avete in serbo per i prossimi numeri del Journal of Extreme Anthropology?
Stiamo già lavorando al secondo numero, che si occuperà di mascolinità e virilità estrema. Ho anche curato un numero speciale per studenti in collaborazione con i miei allievi di antropologia museale, una specie di catalogo di una mostra intitolato Artists’ Waste, Wasted Artists: non raccoglie soltanto opere fallimentari di artisti storici viennesi, ma analizza criticamente il mondo dell’arte contemporanea. Ancora per il 2018 stiamo pensando a un volume speciale su disuguaglianza estrema, ricchezza e povertà, ma siamo sempre aperti a nuove proposte.

E per quanto riguarda, invece, le tue ricerche? Qual è il nuovo capitolo dopo élite indiane e biker fuorilegge?
Al momento sono ancora impegnata per due anni con i biker, sto pensando di scrivere un libro breve dal titolo How Do Outlaws Win Friends and Influence People («Come i criminali si fanno nuovi amici e influenzano la società», o qualcosa del genere)  per approfondire come sia possibile che continui a crescere il numero di persone che supportano, ammirano e si affiliano alle gang di motociclisti come gli Hells Angels. E poi mi farò guidare dalla serendipity, come al solito.