All Signs Point to Rome, Diane

Cronache di vita di Dorothea Ïesj S.P.U.

La Mattina del Quinto Anniversario è il primo episodio di un romanzo sonoro sci-fi incentrato sul viaggio della studiosa Dorothea Ïesj verso la città di Baku. Attingendo al controverso regno dell’archeoacustica, il lavoro racconta un futuro immaginario in cui il suono viene estratto e recuperato da oggetti e custodito nelle città, nel sottosuolo e nella materia. Prodotto e presentato in occasione della mostra collettiva Waves Between Us, curata da Alison Karasyk, Camille Regli e Katie Simpson per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, il lavoro può essere ascoltato sul sito della mostra.

L’archeoacustica

Il 30 Aprile del 2000, 12,8 milioni di persone si sintonizzano su Fox per assistere al nuovo episodio di The X-Files, Hollywood A.D. In una scena ambientata nelle catacombe di una chiesa, esaminando alcuni antichi vasellami, l’agente Scully racconta al collega Mulder la storia della cosiddetta Ciotola di Lazzaro: nel momento in cui Gesù Cristo compie il miracolo, facendo ritornare Lazzaro in vita, un’anziana zia del morto stava lavorando l’argilla fresca per ottenerne una ciotola. Leggenda vuole che le parole di Cristo – o meglio, le vibrazioni prodotte dal suono della sua voce – si siano impresse in questa materia duttile: con impresse facciamo riferimento a una vera e propria impressione fisica, simile al processo di incisione di una registrazione fonografica. Mulder porta il vaso al collega Dr. Charles “Chuck” Burks, uno scienziato esperto ma nient’affatto scettico nei confronti dei fenomeni paranormali. Chuck sottopone il reperto a un’analisi sonora dalla quale emergono voci che parlano aramaico. Nell’amalgama di suoni ricavati, insieme a una voce maschile che esorta Lazzaro a risorgere – a questo punto prevedibile –, spunta fuori anche un frammento della canzone dei Beatles I am the Walrus.
L’episodio è a sua volta oggetto di un altro programma televisivo, MythBusters, show d’intrattenimento e divulgazione scientifica nel quale si dimostrano o confutano leggende metropolitane e ambigue credenze diffuse. Tra queste, viene messa alla prova anche la possibilità di recuperare suoni incisi nella materia, impiegando strumenti estremamente avanzati. La possibilità non è stata confermata. Quello dell’archeoacustica è un universo ibrido tra la ricerca archeologica riconosciuta e un fantasioso sottobosco di teorie pseudo-scientifiche riconducibili a pubblicazioni indipendenti e siti web dal design talmente inattuale da sfiorare essi stessi l’ambito dell’archeologia.

Self-recording

«All signs point to Rome, Diane…»: nell’iconica serie televisiva Twin Peaks (1991), ideata da David Lynch e Mark Frost, l’agente Dave Cooper registra di continuo, tramite dittafono portatile, brevi messaggi vocali indirizzati alla sua assistente Diane. Cooper si riferisce a una persona invisibile, un alter-ego ricorrente, attivato dal registratore, chiuso nel pugno della mano. La fantomatica Diane ci fa ripartire, appunto, dall’idea di phantasma, di presenza nell’assenza, della eco, e dal fatto che registrarsi – soprattutto come fenomeno praticato da se stessi per se stessi – non ha pubblico. Non ci sono lettori, spettatori, non c’è scena.

Perché? Perché l’esigenza di sottrarre materiale al flusso dei pensieri? Perché non basta scriverli? Perché la voce? Perché questa necessità di editarsi verbalmente, musicalmente, poeticamente? Perché parlare a noi stessi non è la stessa cosa che autoregistrarsi? Perché questa fuoriuscita immagazzinata?
Potremmo azzardare che autoregistrarsi è una postura, ma che è essenzialmente impossibile. Che non vi è mai un auto della registrazione. E si ritorna all’eco, alla paradossale pluralità dell’autonomo, e al legame indissolubile tra solitudine e tecnologia.

Non vi è solitudine senza tecnologia – e per tecnologia vedi Kant, Husserl, Heidegger e compagnia… è il problema arcinoto del gatto di Schrödinger: fin quando non entro nella stanza non saprò mai se il gatto è vivo o morto. Ovvero: senza un modo per tracciare, codificare, trascrivere un pensiero non vi è pensiero, non vi è linguaggio.

E nel dominio dell’archeoacustica, dato che una qualsiasi membrana stimolata da una vibrazione è teoricamente in grado di inscriversi su di una superficie solidalmente soffice, si cerca di recuperare suoni sparsi e dimenticati, trascritti per caso nei vasi dell’antichità. Già nel 1902, Charles Sanders Peirce scrisse: «Concedete alla scienza un centinaio d’anni per sviluppare e perfezionare le progressioni geometriche e ci si potrebbe aspettare che questa sarà in grado di scoprire che le onde sonore della voce di Aristotele si sono, in qualche modo, registrate da sé».

Au Clair De La Lune

Nel 1877, il panorama dei media cambia radicalmente grazie all’invenzione del fonografo, strumento che si impone sul mercato come primo, rivoluzionario dispositivo di riproduzione di musica registrata. Eppure la parabola del fonografo cominciava da un’altra parte: il suo inventore, Thomas Alva Edison, era convinto che le telecomunicazioni sarebbero state il playground del fonografo, grazie al quale si sarebbero potuti registrare messaggi, riascoltarli ed eventualmente incidere messaggi di risposta automatica. Suona familiare?

La funzione inizialmente prefigurata da Edison somiglia molto alle note vocali che scambiamo tramite i sistemi di messaggistica istantanea installati sui nostri smartphone – Whatsapp, Facebook Messenger e applicazioni simili. La nostra generazione non ha grande confidenza con le segreterie telefoniche, ma probabilmente si potrebbe pensare di inserire la segreteria telefonica, nelle sue diverse evoluzioni, in questa genealogia di sviluppi rispetto alla semplice idea alla base del fonografo: effettuare una registrazione della propria voce per comunicare qualcosa. Ora, andiamo a contraddirci: se è vero che la nascita della registrazione, storicamente, si assimila all’invenzione del fonografo, la prima registrazione conosciuta della voce umana risale al 1857. Il primo apparecchio a poter registrare suoni è il fonautografo, inventato dal parigino Édouard-Léon Scott de Martinville, seguendo la morfologia dell’orecchio umano. Ma Scott de Martinville non riesce a sviluppare la sua invenzione tanto da poter riprodurre i suoni registrati, così si apre la strada al successo di Edison. Nel 2008, un team della Berkley University decifra uno dei primi fonoautogramma, rendendoci possibile l’ascolto di alcuni secondi di registrazione risalenti all’8 Aprile del 1860, nei quali una voce non identificabile intona la canzone popolare francese Au Clair De La Lune.

Voice Confrontation

Vi siete mai chiesti perché ascoltare il suono della nostra voce possa provocare un certo turbamento? Pare che questo fenomeno, che il mondo anglosassone chiama voice confrontation, interessi il 95% delle persone. Mentre i suoni emessi da altri si trasmettono tramite l’aria, i suoni emessi da noi stessi per si trasmettono anche attraverso le ossa e i tessuti, dalla laringe alla coclea, che è l’organo sensitivo dell’orecchio. Inoltre, la posizione delle orecchie ci permette di sentire maggiormente le frequenze gravi, che in quanto onde lunghe riescono a superare l’ostacolo rappresentato dalla testa e arrivare alle orecchie. Questo fa sì che la nostra voce registrata ci sembri irrimediabilmente acuta. La nostra voce, letteralmente, tradisce le nostre aspettative – potremmo aprire una lunga parentesi sul motivo della nostra idiosincrasia per le voci particolarmente acute, ma non è questa la sede (spoiler: secondo le teoriche a cui facciamo riferimento, Anne Carson e Adriana Cavarero, è una questione di misoginia). La psicologia ci offre un ulteriore appiglio, affermando che l’ascolto della nostra voce ci riveli dei «segnali extra-linguistici» che non potremmo percepire in altro modo, segnali che lasciano intuire i nostri livelli d’ansia, le indecisioni, la tristezza, la rabbia e così via. Per farla breve, il suono della nostra voce ci fa sentire improvvisamente molto più trasparenti di quel che pensavamo. E la laringe vocale è un organo estremamente complesso da controllare, a causa del primato nel rapporto tra nervi e fibre muscolari, il più alto nell’intero corpo umano. E come possiamo rapportarci all’ascolto di qualcosa che solitamente percepiamo solo nel momento in cui esercitiamo un certo controllo su di essa – cioè mentre la emettiamo?

Voci registrate

Message in a bottle: nell’estate del 1986, Radio Radicale, nata a Roma una decina di anni prima per iniziativa di un gruppo di militanti del partito, rischia la chiusura per mancanza di finanziamenti: un rischio che viene comunicato subito prima della sospensione di tutte le trasmissioni. Così i centralini registrarono migliaia di telefonate della durata di un minuto, mandate in onda senza alcuna selezione: nonostante l’obiettivo dell’iniziativa fosse quello di raccogliere opinioni sulla radio, le persone finirono, letteralmente, per occupare questo libero spazio d’espressione, registrando migliaia di messaggi relativi agli argomenti più disparati – spesso senza alcuna concessione al politicamente corretto. Così nasce il programma Radio Parolaccia, il cui format intende rispondere alla necessità emersa. Ça va sans dire, il programma viene chiuso dalla magistratura per vilipendio, ma quel che colpisce, ai fini del discorso, è la potenza che può scatenarsi a fronte dell’apertura di uno spazio di comunicazione di questo tipo.

Sapete chi utilizzava un registratore, oltre a Dave Cooper? Langston Hughes, Sylvia Plath, William S. Burroughs, Kathy Acker, Audre Lorde e Pierre Guyotat. E poi, Carla Lonzi. Carla Lonzi, con quel suo magnetofono che forse avete avuto occasione di scorgere in alcune fotografie iconiche, ha messo alla prova il sistema dell’arte a lei coevo, provando a dilatare le possibilità generative del fare arte fino a schiantarsi contro i limiti costitutivi di quello stesso sistema, irrimediabilmente maschile, irrimediabilmente prono al riprodursi di quella “graziosità” che tanto piaceva al suo compagno Piero Consagra – che, in quanto artista maschio, ne aveva evidentemente bisogno – quanto, in lei, generava una nausea profonda. Lei voleva scrivere autenticamente: allora, forse, ricorre al registratore come se di quella graziosità non potesse rimanere traccia su nastro, non senza suonare del tutto fittizia, posticcia. Sputtanarli tutti, tanto i graziosi quanto gli artisti bisognosi di grazia: il registratore diventa il medium necessario a scrivere autenticamente. Ovviamente, scegliendo di registrare i dialoghi che intratteneva con artisti come Lucio Fontana, Carla Accardi, lo stesso Consagra, e poi Fabro, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Lonzi fissa su nastro anche la sua voce.

«Il registratore», scrive Francesco Ventrella in Carla Lonzi e la disfatta della critica d’arte, «innesca una pratica d’ascolto e riascolto che è anche un modo di rivedere se stessa fuori dal ruolo di spettratrice che le era stato conferito dal sistema dell’arte». Carla Lonzi, registrandosi, si autorappresenta due volte: su nastro e poi sulla carta. «Rendere operante la mia presenza in un modo diverso», scrive Carla nel 1978.

Utopia

Giugno 2016. Frieze pubblica «Home Alone – On art, architecture, and domestic effects of digitalization», di Ana Texeira Pinto. L’articolo si apre con la descrizione di un classico paragrafetto scritto in caratteri molto, molto piccoli. Si tratta del manuale di un elettrodomestico, le Smart TV della Samsung: prestando attenzione a quei caratteri molto piccoli, si legge una clausola apparentemente irrilevante secondo la quale, abilitando il riconoscimento vocale del dispositivo, accettiamo che le nostre parole verranno «captate e trasmesse a terzi», ivi comprese conversazioni personali tenute davanti al televisore, nel lasso di tempo di uno spot pubblicitario. «Più la tecnologia diventa onnipresente», scrive Pinto, «meno la sua presenza è evidente; la sua invisibilità, tuttavia, rende trasparenti noi, i suoi utenti». L’articolo rincara la dose di inquietudine domotica facendo appello al saggio «Renotopia», scritto l’anno precedente da McKenzie Wark, che quattro anni dopo avrebbe pubblicato un libro per decretare – provocatoriamente, ma non troppo – la fine del capitalismo e l’ascesa di una nuova nuova classe dominante fondata sul possesso dei dati. L’intuizione proposta in «Renotopia» dalla studiosa di teoria dei media, è che la grande utopia socialista si sia infine imprevedibilmente concretizzata nell’infrastruttura dei servizi, ad oggi per lo più nelle mani di soggetti privati. «Oggi l’utopia vive nel tuo bagno e nella tua cucina», si legge nel saggio. «Sono luoghi creati a partire dalle più grandi utopie mai realizzate: l’acqua corrente e le fognature, per non parlare di gas ed elettricità. La più grande utopia socialista che sia mai stata costruita è l’infrastruttura dei servizi. […] Tuttavia, mentre scrivo, ai cittadini Baltimora viene interrotta la fornitura d’acqua. È un memorandum di come questa utopia non sia affatto equamente e perfettamente distribuita, neanche negli Stati Uniti».

Se Arseny Avraamov, al culmine del suo percorso di compositore e rivoluzionario, avesse letto queste parole, probabilmente, per tener fede al suo personaggio, sarebbe salito sulla torre del conduttore d’orchestra fatta costruire nella città di Baku e, guardando il Mar Caspio, si sarebbe sparato un colpo in testa.

Baku

Avraamov, per sua fortuna, non aveva la capacità di prevedere il futuro. Nondimeno, viene ricordato come una delle menti più visionarie, audaci e avveniristiche, tra le straordinarie personalità che hanno animato la stagione delle avanguardie sovietiche. Durante il primo conflitto mondiale, Avraamov rifiuta di prestare servizio militare, girovagando clandestinamente per il paese come artista circense, pur avendo studiato presso la scuola della Società Filarmonica di Mosca. Nel 1917, allo scoppio della Rivoluzione, può finalmente tornare in città, dove comincia a muoversi nell’incredibile mondo del primo cinema sovietico. Diventa presto commissario del Narkompros (il Commissariato per l’Istruzione Sovietico) e la proposta che avanza all’uomo al vertice del commissariato, Lunačarskij, riflette alla perfezione il temperamento nettamente rivoluzionario di Avraamov. La proposta in questione è quella di bruciare tutti i pianoforti, strumento espressione di un’idea della musica temperata e borghese. Inutile specificare che rimane inascoltato.

È animato da un simile slancio, che compone Sinfonia delle sirene. Nella Russia del comunismo reale, all’indomani della rivoluzione d’Ottobre, rispettivamente nel 1926 e nel 1922, Alexander Mosolov e Arseny Avraamov celebrano la liberazione dell’uomo dalle angherie del capitale in due composizioni dal carattere esaltante e apologetico.

Fonderia d’acciaio di Molosov, si colloca nella sfera modernista e strutturalista della musica sovietica degli anni Venti. Si tratta di un poema sinfonico decisamente didascalico, onomatopeico, che si propone non di raccontare, bensì di incarnare la fabbrica stessa, nella sua forma ideale eroica e trionfalistica, autoproclamatasi definitivamente disalienata. Un’opera di certo interessante ma nondimeno retorica, tanto retorica quanto si riveleranno essere la propaganda e l’arte ufficiale sovietica negli anni a venire, tristemente funzionali alle derive autoritarie e repressive che caratterizzeranno la parabola dell’allora neonata URSS, sorta sulle ceneri del vecchio impero zarista. Fonderia d’acciaio punta a descrivere l’energia costruttiva, la bellezza dinamica e futurista della fabbrica sovietica, virtualmente animata da centinaia di Aleksej Stachanov. Il capolavoro di Avraamov, Sinfonia delle Sirene, abita uno spazio ben più sperimentale, complesso e grandioso.

Il 7 Novembre 1922, a Baku, capitale dell’Azerbaigian e importante porto affacciato sul Mar Caspio, hanno luogo le celebrazioni per il quinto anniversario della nascita dell’Unione Sovietica: è in questo contesto che si tiene l’esecuzione di Sinfonia delle sirene. Non si tratta della prima assoluta, ma le precedenti (a Nižnij Novgorod e a Rostov) non possono che essere considerate una sorta di prove d’orchestra, se paragonate all’imponente versione che va in scena a Baku. Scena è, in verità, un termine adatto solo in senso figurativo, perché Sinfonia delle Sirene viene eseguita sulla pubblica piazza: del resto è impossibile immaginare di collocare altrove masse di lavoratori e di soldati, l’intera flotta del Caspio, batterie di cannoni, idroplani, venticinque locomotive a vapore e tutte le sirene delle fabbriche della città, che costituiscono, letteralmente, l’organico necessario all’esecuzione dell’opera. Al canto dell’immenso coro va spontaneamente sommandosi la voce collettiva del pubblico, mentre l’impressionante sonorità dell’apparato tecnologico bellico e industriale viene accompagnato da una solenne esecuzione della Warschawjanka. Dalla sommità di una torre appositamente realizzata, lo stesso Avraamov conduce la sua inedita orchestra agitando bandiere, torce fiammeggianti, sparando colpi a salve. L’Internazionale chiude la sinfonia, ripetuta tre volte: all’ultima ripetizione, riecheggiano nuovamente le sirene delle fabbriche di Baku.

Distopia

Va detto che lo spirito di Sinfonia delle sirene non costituisce un unicum, ma si colloca nella grande tradizione delle avanguardie sovietiche, incarnandone appieno le grammatiche visionarie di quella stessa cultura che verrà poi massacrata dall’istituzionalizzazione compiuta da uomini come Andrej Ždanov. Il 28 Gennaio 1936, la Pravda pubblica il tristemente celebre Confusione anziché musica, un articolo anonimo atto a screditare il lavoro di Dmitry Shostakovich. È l’inizio della guerra dello stato totalitario contro la libertà dell’espressione artistica. Tra il 1936 e il 1938, Avraamov si ritira tra le montagne, nella regione Cabardino-Balcaria, per studiare la musica popolare de Caucaso settentrionale. Quando rientra a Mosca, si scontra con l’inedito deserto culturale e il clima di terrore del regime stalinista. Verrà incarcerato e morirà in miseria nel 1944. Non saprei dire se la standardizzazione dell’agire umano fosse l’obiettivo o la conseguenza della strategia del terrore stalinista. Torniamo alla provocatoria tesi di McKenzie Wark, per la quale l’utopia socialista, apparentemente, si realizza nella capillare diffusione delle infrastrutture dei servizi, perfezionate e customizzate all’estremo grazie alle possibilità delle tecnologie domotiche. Potremmo forse affermare che anche la distopia socialista, la standardizzazione funzionale dell’agire umano ottenuta tramite un regime di controllo pervasivo e totalitario – in cui tutti sono spia e spiato per mezzo delle ricorsive delazioni reciproche – si rispecchia nell’attuale economia dei dati. Il Capitalismo della Sorveglianza, come lo ha teorizzato la docente di Harvard Shoshana Zuboff, è in grado di spiarci come nessun agente del KGB sia mai stato in grado di fare. Perché l’obiettivo non è quello di controllare le nostre azioni e le nostre opinioni, pena il carcere – o almeno, a differenza di quel che potremmo pensare, non è l’obiettivo prioritario. «Nessuno verrà a prenderci e trascinarci in un Gulag. Il sistema non vuole ucciderci. Vuole solo manovrarci, farci agire così come aveva predetto e prendersi i dati», sostiene Zuboff, per poi aggiungere che, certo, in Cina si stanno sperimentando combinazioni tra queste tecnologie e gli obiettivi repressivi dello Stato. Che questo avvenga esclusivamente in Cina è un’affermazione decisamente discutibile. Ad ogni modo, quale che sia la finalità, gli oggetti nelle nostre case hanno orecchie. Gli oggetti nelle nostre case estraggono e processano le nostre conversazioni. Chissà cosa ne avrebbe pensato Charles Sanders Peirce, quando, all’inizio del XX secolo, fantasticava sui futuri sviluppi della tecnologia, immaginando che dai vasellami antichi avremmo potuto estrarre la voce di Aristotele con la facilità con cui oggi Google estrae parole indicizzabili dalle nostre conversazioni private.

Fuochi d’artificio

Dunque: il sistema implementa tecnologie di ascolto pervasivo e i principali attori in campo sostengono di non volerci trascinare in un campo di lavoro. Rovesciamo la paradigmatica medaglia: da più di mezzo secolo si studiano, sperimentano e producono tecnologie per emettere i suoni in maniera altrettanto pervasiva. Se un individuo non può sottrarsi a un suono in grado di creare dolore, disagio o squilibrio fisiologico, è probabile che si trovi nel campo d’azione di un’arma. Parimenti, coloro che implementano questi strumenti si difendono parlando di «armi non letali».

Il 21 Giugno 2020, il rapper Wale condivide un tweet con i suoi sei milioni di followers. È passato poco meno di un mese dall’atroce esecuzione dell’afro-americano George Floyd, ennesimo crimine del razzismo sistemico delle forze dell’ordine e della società statunitense tutta. Le strade delle città sono attraversate dalle marce e dalle proteste del movimento Black Lives Matter. I cieli delle città sono illuminati dai fuochi d’artificio. Il tweet condiviso da Wale allude proprio al fatto che la situazione stia sfuggendo di mano e non parla delle sommosse, ma degli spettacoli pirotecnici, in tutto il loro festoso fracasso: «too many ppl from major cities sayin this», scrive Wale, «Something is afoot».

In effetti, circola una teoria secondo la quale i numerosi fuochi d’artificio – illegali in molti contesti, quali lo stato di NY – sarebbero stati segretamente predisposti dalle forze governative per impedire il riposo notturno agli abitanti dei quartieri che più si stanno impegnando nell’organizzare e prender parte alle proteste contro la brutalità della polizia. Pare che il fenomeno abbia tutte le carte in regola per confermarsi come una classica teoria del complotto esplosa online, ma, a difesa di chi la sostiene, va detto che i servizi segreti statunitensi vantano una significativa storia di operazioni ben poco lecite ai danni dei movimenti per i diritti civili e che, parimenti, l’utilizzo del suono come arma è una prassi ampiamente consolidata tanto in ambito militare quanto dalle stesse forze di polizia. Non deve sorprende, in termini acustici, che i fuochi d’artificio siano chiamati bombe, mortai o batterie.

Armi sonore non letali come flash-bang (granate stordenti), debilitatori e i dispositivi acustici a lungo raggio (LRAD) vengono utilizzati con crescente regolarità anche in contesti civili, come le proteste del movimento Black Lives Matter. Nell’immediato, questi strumenti causano vertigini, perdita dell’equilibro, nausea e non è raro che le vittime sviluppino i sintomi dalla sindrome da stress post-traumatico.

La guerra

Steve Goodman, ricercatore della University of East London, meglio conosciuto come Kode9 (pseudonimo che utilizza sin dagli anni Novanta come musicista e dj) ha concentrato gran parte dei suoi studi sulle aree liminali della percezione sonora (gli infrasuoni e gli ultrasuoni), elaborando una teoria sulla relazione tra vibrazioni e potere fondata su quel che lui chiama politiche frequenziali. Si tratta, prendendo in prestito le parole di Kodwo Eshun, di manifestazioni di micropolitiche transdisciplinari: armi soniche per la «correzione psicoacustica», come nel caso di quelle utilizzate a Panama contro Manuel Noriega dall’esercito degli Stati Uniti, oppure le bombe sonore lanciate sulla Striscia di Gaza, o ancora i repellenti acustici per topi usati per dissuadere gli adolescenti nei centri commerciali. La ricerca estetico-esperienziale di molti artisti e musicisti si scrive a questa stessa ontologia dipanata da Goodman: Sonic Warfare, sostanzialmente, sono tutte le prassi e i dispositivi che sfruttano la forza del suono per innescare un dato effetto sugli individui e le popolazioni. È un’analisi affine alla «genealogia della repressione acustica» delineata da Juliette Volcler in Il Suono come Arma. «Ci si continua a sorprendere», recita l’introduzione del libro «dell’esistenza delle armi acustiche […]. Sembra quasi necessario, in un ambiente profondamente dominato dall’immagine, riprendere costantemente coscienza dell’esistenza del suono, di quella piccola musica, di quel brusio, di quell’accompagnamento del visibile». Tutto questo, Avraamov lo sapeva bene. Quando scompare, negli anni Quaranta, la sperimentazione delle tecnologie che si sono poi evolute nelle armi sonore è a uno stadio pressoché embrionale, ma è facile e lecito pensare che ricerche come quelle di Steve Goodman e Juliette Volcler avrebbero incontrato il totale favore del grande compositore russo, la cui intera vita ha molto da rivelare a chiunque si interessi alla relazione che intercorre tra suono e potere. «L’America tremerà», scrive nel 1943, ormai caduto in disgrazia, nel presentarsi al Comitato Centrale in occasione dei progetti per il Padiglione dell’Unione Sovietica all’Esposizione Universale di New York del 1939, il cui tema richiamava la nozione di Mondo Nuovo. Ma l’America non tremerà mai di fronte al potere della musica di Avraamov, che pare ricevette un messaggio di risposta da Lavrentiy Beria, allora capo della polizia segreta: «Siamo in guerra, non perder tempo in queste cose prive di senso». Siamo in guerra.

Almare è un’associazione fondata a Torino nel 2017 da Amos Cappuccio, Giulia Mengozzi, Luca Morino e Gabriele Rendina Cattani, che si dedica ai linguaggi contemporanei che utilizzano il suono come mezzo espressivo. ALMARE organizza concerti, mostre, public talk, performance.