Albagia radioheadiana

A trent’anni dal loro esordio discografico e tra progetti paralleli ed “esperimenti” sospetti, i Radiohead sono il gruppo spocchioso che tutti conoscono

Fino a pochi anni fa, l’archetipo del giovane che ascoltava musica pop raffinata del nuovo millennio era certamente un fan sfegatato dei Radiohead. Dopo di loro è difficile trovare qualcosa di eguagliabile su scala planetaria. Ma i Radiohead chi sono veramente? Sono davvero dei geni della musica “d’avanguardia” e “futuristica”!, come li reputa la critica? O più modestamente, sono soltanto un’ottima pop band?

Il gruppo inglese, attivo già dalla seconda metà degli Ottanta, esordisce ufficialmente trent’anni fa esatti, nel maggio 1992, quando la Parlophone pubblica l’EP Drill. Da lì ha costruito una prima parte di carriera a suon di ballate e sprazzi di chitarre di matrice alternative, che nei Novanta rivaleggiò in termini di fama con gente tipo gli Oasis. Al tempo stesso, il loro sound è stato attraversato da diverse fasi: partiti come band di rock struggente, sfornano subito un singolo che li rende conosciuti in tutto il mondo, “Creep” (poi coverizzato addirittura da Vasco Rossi…), e nel 1995 danno alle stampe l’ottimo The Bends, probabilmente il culmine della loro prima fase – un disco pieno di chitarre rumorose e acustiche, con testi che prendono molto dalle tematiche del vecchio indie americano. 

Il successivo Ok Computer (1997) non ha bisogno di presentazioni: volente o nolente, è stato un pezzo importante del rock mainstream di fine millennio, di cui ha descritto le ansie e le paranoie in maniera singolare. Proprio con quell’album, contenente una manciata di fortunatissimi singoli accompagnati da videoclip che ebbero un forte impatto iconico, iniziò ad adagiarsi sui Radiohead l’allure di band intellettualoide: era il disco perfetto per raccontare la solitudine dell’individuo in un mondo che aveva appena sfiorato la sfuggente immediatezza dell’era digitale e non si era ancora addentrato nell’universo dei social network. Sebbene il loro target rientrasse precisamente in quello del rock (da quello classico degli amanti di Neil Young a quello più contemporaneo a cavallo tra indie e mainstream), con Ok Computer i Radiohead riuscirono a conquistarsi anche le simpatie di una manciata di ascoltatori più illuminati, grazie a contaminazioni prog e art rock. 

Il seguito di questo disco imponente si fece attendere tre anni. Un periodo in cui le aspettative nei loro confronti crebbero a dismisura, creando un hype tutto sommato inconsueto per una band che faceva musica così malinconica e riflessiva. Spin definì il successore di Ok Computer come “il disco rock più atteso dai tempi di In Utero dei Nirvana”, ma quando nel 2000 sugli scaffali arrivò Kid A, i fan si ritrovarono spiazzati. Il cambiamento era abbastanza netto: i testi non erano più lineari, ma erano stati scritti usando la tecnica del cut-up, a cui Thom Yorke era ricorso per lasciare il più aperti possibile i brani. Lo stesso titolo Kid A non aveva riferimenti specifici, né significava di per sé alcunché. Ma fu soprattutto musicalmente che il cambiamento si rivelò notevole. Le chitarre che prima la facevano da padrone venivano messe da parte per lasciare spazio a suoni più eterei: organi, archi e un sacco di sintetizzatori.

Sostanzialmente, Kid A era un disco di musica elettronica, sebbene al suo interno coesistessero sonorità che andavano dal jazz al krautrock alla musica d’avanguardia, di cui il chitarrista Jonny Greenwood è appassionato. Il tutto sapientemente organizzato dal produttore Nigel Godrich, il “sesto Radiohead”, loro collaboratore già dai tempi del My Iron Lung EP del 1994, e tra gli autori più influenti del sound di fine millennio/inizi Duemila.

Kid A ebbe un ideale seguito in Amnesiac, uscito nel 2001. Il disco prosegue sulla stessa linea del precedente, di cui è a tutti gli effetti lo spin off: i suoni sono più o meno gli stessi, le atmosfere anche. Certo, resta il problema che tutti i non-fan dei Radiohead hanno con i Radiohead, e che è anche la cosa che più caratterizza il loro sound: la voce di Thom Yorke. Non è un problema da poco. Nei melismi, nei sussurri, o anche semplicemente nello sguardo compiaciuto di Yorke, i fan hanno trovato un Rimbaud hipster che, piaccia o no, è riuscito a rendere in maniera timida un massimalismo esistenziale che da tempo non trovava voce nel mainstream. Probabilmente chi non ha vissuto in contemporanea le uscite del gruppo ai tempi di The Bends, un disco in cui invece affioravano di tanto in tanto momenti di leggerezza e addirittura di spensieratezza giovanile, non riesce a sopportare tutta la dolente malinconia arrivata da Ok Computer in poi. 

C’è anche da dire che l’elettronica contenuta in dischi come Kid A e Amnesiac, che al vasto pubblico sembrò così avanguardistica, futuristica, fuori dal tempo e geniale, non era davvero nulla di innovativo dal punto di vista sonoro. Erano anzi anni che nel circuito della musica elettronica giravano suoni molto più stratificati, ritmiche infinitamente più ricercate e atmosfere più evocative. Il nome che viene immediatamente in mente dopo l’ascolto di Kid A è quello degli Autechre, il duo inglese che come nessun altro è riuscito a creare immaginari tecnologici molto avanzati. Dopotutto, furono i Radiohead stessi ad ammettere di essere loro fan. 

E però, la conferma del fatto che Yorke e soci restavano un gruppo dall’impianto “RUOCK”, con tutta l’ambiguità che una parola del genere può portarsi dietro, arrivò nel 2003, anno di uscita di Hail to the Thief – album che segna un ritorno alle chitarre e a un sound più alternative (sebbene fortemente contaminato dal bagaglio di ascolti e influenze che avevano caratterizzato il periodo Kid A/Amnesiac) nonché loro ultimo lavoro di rilievo. Si tratta di un disco ancora molto vario che, pur non abbandonando una certa matrice elettronica, si presenta a tratti come spudoratamente beatlesiano – come dichiarato anche dagli autori in persona. Chi non li sopportava prima di certo non avrà cambiato idea con Hail to the Thief, ma quantomeno è più interessante vederli misurare la loro audacia su brani costruiti a partire da un pianoforte o una chitarra, anziché da synth e software. È un disco che parte con l’ormai classica “2 + 2 = 5” e che si chiude in chiave sostanzialmente classic rock, peraltro con due tra i loro pezzi più belli: “Scatterbrain” e “A Wolf at the Door”. Per avvalorare la mia tesi, invito all’ascolto di “I Will”, brano numero 10 dell’album, pezzo molto ispirato, una specie di canzone tradizionale dadaista, in cui la melodia – davvero struggente – è ridotta all’osso, forse lasciata un po’ troppo ai giochi di voce di Yorke. Facendo un confronto con “I Will – Los Angeles Version”, contenuta nell’EP Com Lag (2plus2isfive), si capisce come tutta quella stratificazione concettuale e sonora che riempiva i brani del periodo Kid A non sempre finisce per arricchirli.  “I Will – Los Angeles Version” suona decisamente più spontanea, e questo, a mio modesto parere, perché la bravura dei Radiohead sta tutta nella loro capacità di scrivere ottime canzoni: è un peccato quando sporcano i loro brani con troppi elementi pur di trovare la soluzione “originale”, anziché arrangiare in maniera tradizionale.

Nel frattempo la loro fama di musicisti intellettuali, sopraffini e ultraterreni continuò a lievitare, raggiungendo picchi di autorità filosofici sempre più elevati. Se per Ok Computer si erano ispirati agli scritti di Noam Chomsky, avevano preso in prestito il titolo dalla Hitchhiker’s Guide to the Galaxy di Douglas Adams e composto un artwork con sprazzi di esperanto, disegni e testi fatti da Thom Yorke e poi rimodulati random a mo’ di collage dal computer, con Hail to the Thief andarono ancora oltre. Il titolo dell’album era infatti un gioco di parole sul presidente americano Bush, a cui seguiva un sottotitolo – The Gloaming, “il crepuscolo” – il quale stava ad indicare il senso di ritorno al Medioevo che caratterizzava gli anni della War on Terror… Insomma, roba da circoli intellettuali. La copertina dell’album, ideata da Yorke e Stanley Donwood (artista che aveva già collaborato con il gruppo), rappresentava una sorta di mappa raffigurante una serie di parole che rappresentavano in qualche modo il male, o che risultavano sgradevoli e vaghe. Ma il culmine fu quando, alla loro fama di intellettuali, si aggiunse quella di economisti nel momento in cui, nel 2007, rilasciarono sul loro sito l’album On Rainbows attraverso il metodo di pagamento pay what you want.

Dopo In Rainbows, Thom Yorke e Nigel Godrich si ritroveranno in un gruppo chiamato Atoms for Peace (insieme a Flea dei Red Hot Chili Peppers e ad altri) per fare “musica sperimentale”, in un certo qual modo sfruttando il luogo comune che, da Kid A in poi, pretende che i Radiohead siano un gruppo “di ricerca” se non addirittura elettronico tout-court (e pazienza se nessuno avrebbe mai usato parole come “sperimentazione” o “futuro” ai tempi di The Bends). Se davvero un album come “Amok” (2013) vuole essere un disco di musica sperimentale ed elettronica, è giusto anche dire che è profondamente mediocre. Va bene, si tratta di un altro gruppo e si sente la mancanza del membro dei Radiohead più versatile e spesso geniale, ovvero Jonny Greenwood. Ma è comunque vero che l’insussistenza degli Atoms For Peace dal punto di vista dell’innovazione musicale era quasi risibile.

Progetti paralleli a parte, negli anni Dieci i Radiohead proseguiranno su una scia di debolezza, con dischi come The King of Limbs e A Moon Shaped Pool, ad oggi la loro ultima fatica in studio, datata 2016, il cui momento migliore era una versione brutta di uno dei loro pezzi più struggenti: “True Love Waits”. Più di prima è utile fare un confronto per confermare la seguente tesi: i Radiohead sanno fare canzoni “tradizionali”, sono mediocri e goffi quando provano a sperimentare. La “True Love Waits” originale era infatti apparsa una prima volta sulla compilation live del 2001 I Might Be Wrong, in una versione molto intensa registrata a Oslo. Col tempo, questo finì per diventare un brano di culto (si leggano veri e propri studi di questo tipo), anche perché i Radiohead ci lavoravano proprio dai tempi di The Bends – il loro disco più chitarristico – senza mai riuscire a trovargli una collocazione adeguata dopo la svolta “sperimentale”. Per anni “True Love Waits” fu quindi eseguita unicamente dal vivo, e si tratta di un brano a cui davvero non si può dire nulla: quattro accordi, ma perfetti. Eccola, la sintesi autentica del sound dei Radiohead: tristezza, melodia, voce di Yorke in primo piano, chitarre. Purtroppo però, la versione contenuta in A Moon Shaped Pool elimina tutta la tristezza cosmicamente giovanile che volente o nolente aveva caratterizzato la band sin dai loro primi album, sostituendola con delle dissonanze anedoniche davvero innocue. La “True Love Waits” 2.0 risulta artificiosa, troppo piena di neomelodismi alla Se mi lasci ti cancello

Gli ultimissimi Radiohead, quelli del 2021, sono stati impegnati nella pubblicazione di Kid A Mnesia, ovvero la riedizione dei due classici “sperimentali” Kid A e Amnesiac, con tanto di bonus disc contenente b-sides e inediti. L’operazione non aggiunge nulla ai due vecchi album, eppure la critica ha fatto un gran parlare del progetto, per non dire del pubblico, semplicemente entusiasta di questa ennesima trovata futuristica che attraverso la “mostra virtuale” Kid A Mnesia Exhibition dava l’opportunità di immergersi nella musica e negli artwork in un’esperienza interattiva. 

Di contro, a maggio 2022 è finalmente uscito A Light for Attracting Attention, l’album d’esordio dei The Smile, il supergruppo composto da Yorke, Greenwood e il batterista dei Sons of Kemet Tom Skinner, con la partecipazione del solito Godrich. Il disco è una gradevole collezione di brani simil post-punk che ha portato Pitchfork a rispolverare i tempi di The Bends, eleggendo per inciso i The Smile a “miglior side project dei Radiohead di sempre” (sottinteso: altro che Atoms For Peace). Come dire: a conferma che quando Yorke e soci riprendono le chitarre…  

I Radiohead hanno scritto un pezzo di storia della musica mainstream dei nostri anni. Eppure hanno deciso di impostare il loro show come se gli astanti fossero gente tipo Henrik Ibsen o Ingmar Bergman. Stranamente, questa cosa ha avuto un certo successo presso il grande pubblico. Quando hanno provato a “sperimentare”, le cose non sono andate sempre bene, e la loro verve creativa sembra essersi esaurita da un po’, forse per via del successo smisurato o forse perché i singoli membri della band hanno deciso di impegnarsi anche in altri progetti, alcuni dei quali ottimi: il sodalizio tra Jonny Greenwood e il regista Paul Thomas Anderson è quantomeno singolare e nel caso de Il filo nascosto notevole. I dischi solisti di Yorke sono particolari: laddove ci si aspetterebbe di ascoltare la sua voce all’ennesima potenza, risultano invece inaspettatamente scarni, sebbene sempre iper-post-prodotti e curati alla perfezione (e spesso caratterizzati da brani solidi, compreso l’ultimo ottimo Anima). Va poi segnalato l’EP Her Revolution/His Rope di Yorke con Burial e Four Tet, roba piovosa e strappalacrime al punto giusto. 

Quello che resta evidente, è che i Radiohead sono il gruppo spocchioso che tutti conoscono. Un gruppo emerso dall’ambiente alternative in un momento storico ben preciso, e che poi ha proseguito la sua ricerca rivolgendosi a un grande pubblico magari poco esigente, che è stato però prontissimo ad accogliere e osannare ogni loro trovata. Un “vincere facile” che ha consentito l’accrescere di questa altezzosità. Ma sarebbe anche ingiusto illuminarli solo attraverso questa luce: con chitarra e pianoforte hanno scritto tante canzoni memorabili.