Adolescenza in streaming dall’abisso

Da Dennis Cooper al cinema di Jane Schoenbrun, per una nuova rappresentazione del coming of age, tra orrore digitale e traumi che diventano contenuti da montare

Ma è tutto vero? O è una domanda troppo stupida?
(Troie, Dennis Cooper)

C’è un’immagine ricorrente: una persona giovane seduta nella sua stanza al buio, illuminata dalla sola luce di un computer. La camera da letto non è un luogo privato, ma si è trasfigurata in una zona rituale, uno studio di trasmissione da cui documentare il proprio crollo. Una tomba dove il trauma viene archiviato in 1080p.

Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, nella cultura visiva e letteraria l’adolescenza è stata spesso messa in scena come una tensione tra desiderio e distruzione. Dai corpi randagi di Kids (1995) e Bully (2001) di Larry Clark, passando per le pulsioni di distruzione concretizzate in Elephant (2003) di Gus Van Sant e le fantasie queer-apocalittiche di Gregg Araki, l’immaginario giovanile si è sedimentato intorno alla figura del corpo in movimento – libidinoso, violento, disorientato –, ma profondamente immerso nello spazio esterno. In un certo senso, queste opere raccontavano ancora la possibilità di un coming of age: deformato, interrotto, ma pur sempre orientato verso una pluralità esterna, ai margini delle grandi città o nelle suburbie statunitensi svuotate di un’umanità attiva. Al contrario, negli ultimi anni sono gradualmente emerse narrazioni letterarie e cinematografiche che raccontano l’età della post-innocenza attraverso gli schermi, i forum su internet e i videogiochi proibiti, in uno spazio liminale che documenta piuttosto l’apparente impossibilità di un coming of age in senso tradizionale. 

Totally F***ed Up, Gregg Araki (1993)

Alcune opere letterarie pubblicate negli ultimi anni, come Amygdalatropolis (2017) di B.R. Yeager, Nefando (2016) di Monica Ojeda, Troie (2004) di Dennis Cooper, e film come We’re All Going to the World’s Fair (2021) di Jane Schoenbrun e Afterschool (2008) di Antonio Campos, disegnano infatti un paesaggio comune: quello di una soggettività adolescente reclusa, disgregata e tecnomediata, che si costituisce perlopiù attraverso pratiche di sorveglianza e fruizione. Questi testi e film si compiono a partire da spazi chiusi –  camere da letto, scuole private, forum online – e costruiscono figure che vivono l’esperienza non come trasformazione convenzionale, ma come registrazione o testimonianza passiva. 

In Amygdalatropolis di Yeager, il protagonista /1404er/ prende il suo nome dalla board dove trascorre tutte le giornate immerso in un flusso digitale malato, popolato da desideri violenti, immagini pornografiche, video snuff e linguaggi distorti, in un universo narrativo più simile a un terra devastata che a un paesaggio reale. Vivendo da anni come hikkikomori nella casa di famiglia, quella online è l’unica dimensione a lui rimasta accessibile, che descrive attingendo all’immaginario del sogno americano: “un fazzoletto di terra promessa e senza leggi. Il sogno di un Padre Fondatore”, mentre il mondo esterno – incarnato nella figura dei suoi genitori – gli arriva solo come una voce preoccupata dall’altro lato della porta. Ojeda, in Nefando, racconta una casa condivisa da sei personaggi legati da esperienze di abuso infantile e ossessione digitale, costruendo un polifonico archivio narrativo che ruota attorno a un videogioco rimosso e proibito. In Troie, Cooper costruisce una narrazione che si dipana interamente attraverso messaggi lasciati da diversi utenti in un sito di incontri per escort gay, a partire dalla recensione a un ragazzo misterioso e apparentemente straordinario – Brad, un escort efebico e ogni probabilità minorenne, passivo e, secondo le recensioni, disposto a subire qualsiasi cosa. Schoenbrun, in We’re All Going to the World’s Fair, segue la solitudine di un’adolescente che partecipa a una challenge horror online, filmando la propria trasformazione – forse reale, forse immaginaria – come parte di una ritualità digitale che riflette lo smarrimento di un’identità vissuta in una completa solitudine analogica. Infine, Campos in Afterschool racconta la vicenda di uno studente di una scuola d’élite che riprende involontariamente la morte di due compagne e finisce per metabolizzare l’accaduto non attraverso l’elaborazione emotiva, ma attraverso il montaggio video e la distanza ottica. Il protagonista è ossessionato da contenuti online: pornografia amatoriale, video violenti, immagini virali. Il trauma non lo colpisce dall’esterno: lo attraversa già come immaginario interno e formato visivo. Campos costruisce un linguaggio visivo freddo, clinico, pieno di inquadrature statiche, dove l’emozione è filtrata dallo schermo e l’empatia è sospesa. La videocamera non restituisce senso, ma accumula immagini. Il personaggio non elabora ciò che ha vissuto (la morte di due compagne), ma riutilizza il trauma come materiale da montare in un video commemorativo: il lutto si trasforma in estetica, la perdita in contenuto.

Questo tipo di visione – sorvegliata, autoreferenziale, distanziata – si radica direttamente in ciò che il critico di architettura Davide Tommaso Ferrando chiama “spazio trasparente”: un ambiente domestico che non è più rifugio ma superficie mediatica, protesa verso l’esterno. In City of Legends, Ferrando analizza come lo spazio dell’abitare venga riscritto dalla tecnologia in forme nuove: streaming room, stanze progettate per l’esposizione, case trasformate in set performativi.
In questo paesaggio, la soggettività non si forma più nel privato, ma si costruisce all’interno di un’architettura della visibilità. L’identità adolescenziale non si sviluppa proteggendosi o agendo, ma esponendosi, registrandosi, osservandosi vivere. Il trauma, inoltre, non deve più necessariamente avvenire come evento concreto: è già incorporato nella scenografia, un layer in più nella stratificazione affettiva di queste stanze da letto abitate da webcam e algoritmi.

L’identità non cerca riconoscimento, ma registrazione; non costruisce relazioni, ma performance osservabili. Internet diventa il dispositivo attivo di questa esposizione

Tutte queste opere mettono in scena un’età giovanile senza apparente accesso al tempo, né spazio d’azione o narrazione convenzionale. Il disagio adolescenziale e persino il trauma diventano un campo semantico costante e pervasivo, ricorsivamente rappresentato, estetizzato e performato. È un’adolescenza rivolta verso l’interno – sia esso uno spazio domestico, mentale o digitale –, una frontiera sospesa e in decomposizione dove l’innocenza, citando T.S. Eliot, non esplode con uno schianto, ma con un lamento. 

Dentro lo schermo: mitologie digitali ed esistenze parallele

Vale la pena sottolineare come, accanto a queste opere, negli ultimi decenni si sia sviluppato un ecosistema narrativo parallelo, fatto di estetiche disturbanti, ritualità digitali e mitologie minori nate nei recessi della rete. Le creepypasta, le webserie di analog horror come Candle Cove, o l’archivio collaborativo della SCP Foundation, condividono con romanzi come Nefando e film come We’re All Going to the World’s Fair una costruzione del trauma come presenza latente e collettiva. Non si tratta di raccontare ciò che è accaduto, ma di abitare una soglia disturbata, popolata da linguaggi ibridi, immagini corrotte e ambientazioni in decomposizione. Queste narrazioni non evolvono in maniera lineare, si accumulano come documenti infetti, diffusi da un utente all’altro. 

All’interno di questo paesaggio, anche le challenge come Blue Whale e Momo, fino al caso reale dello Slenderman stabbing, mostrano come l’adolescenza si esprima qui attraverso pratiche performative che sfiorano la soglia del rischio e del danneggiamento, ritualizzando il disagio come unica forma di contatto. L’identità non cerca riconoscimento, ma registrazione; non costruisce relazioni, ma performance osservabili. Internet diventa il dispositivo attivo di questa esposizione, il luogo dove l’assenza di empatia si combina con l’ipervisibilità: ogni dolore, ogni gesto, ogni frattura è potenzialmente un contenuto.

Lo stesso vale per gli universi estetici contemporanei, come i video liminal spaces, corecore, o backrooms, che rappresentano ambienti vuoti, malinconici e impersonali: scuole vuote, centri commerciali deserti, luci al neon sfocate, accompagnate da frammenti audio e testi confessionali. Si tratta di contenuti che mettono in scena spazi mentali disabitati, memorie glitchate, emozioni senza destinatario. Nei forum come 4chan o negli archivi dimenticati di Geocities, la soggettività si dissolve in una pluralità anonima di voci, post, confessioni mimetiche, costruendo una cultura affettiva fondata non sulla verità, ma su loop visivi e malware semantici, capaci di infettare ogni forma tradizionale di racconto.

In queste narrazioni, ogni gesto si compie già nella consapevolezza di essere visto, o nell’angoscia di non esserlo. Il soggetto si rivolge a un pubblico assente, a uno spettatore mai garantito, o a un algoritmo che simula la presenza di uno sguardo. In We’re All Going to the World’s Fair, la protagonista, Casey, parla alla webcam come a un interlocutore plurale e immaginario, cercando una connessione che non si dà mai necessariamente come reciproca. In Afterschool, il trauma si consuma davanti all’obiettivo, ma la camera diventa un diaframma che impedisce l’accesso all’emozione.

Lo schermo assume dunque la funzione di una interfaccia che separa e sostituisce: un’interfaccia tra soggetto e mondo, tra vissuto e rappresentazione, tra trauma e elaborazione. Non si tratta più di raccontare cosa si è vissuto, ma di mostrare come lo si è guardato; il sé non agisce: si espone davanti a una platea materialmente senza volto e nome.​

Un modello precoce e ancora radicalmente attuale di questa soggettività schermata si trova in Benny’s Video di Michael Haneke, film del 1992 che anticipa molte delle istanze che oggi strutturano il racconto dell’adolescenza digitale. Benny è un adolescente che filma compulsivamente la propria realtà, ma non la abita mai davvero. La sua soglia percettiva è assuefatta, interamente mediata dal dispositivo: non distingue più tra l’evento e la sua registrazione. Quando uccide una coetanea, non mostra emozione — né pentimento né entusiasmo — ma agisce come un operatore video, più che come un soggetto. L’omicidio non viene né nascosto né narrato: viene registrato e rivisto, come un frammento di contenuto.

Benny’s video, Michael Haneke (1992)

La videocamera è l’unico canale attraverso cui Benny sembra essere in grado di percepire qualcosa, anche se ciò che prova non arriva mai a configurarsi come esperienza o significato comunemente inteso. Il trauma non interrompe la sua soggettività: la attraversa silenziosamente, come un file da gestire. Come nei testi più recenti analizzati, il trauma non è rimosso ma assimilato nel flusso, neutralizzato nella sua stessa riproducibilità. Il gesto estremo si dissolve nell’assenza di reazione, nel vuoto affettivo, nella dimensione clinica della visione.

Niente è vero tutto è possibile

In Amygdalatropolis e Troie, la verità online si presenta come un campo di tensione tra esposizione e manipolazione, tra desiderio e costruzione mitologica. Lo stesso Yeager ha ammesso in più occasioni di essersi ispirato al romanzo di Cooper: entrambi i testi si costruiscono su fonti spurie, voci anonime, testimonianze contraddittorie, corpi filtrati da webcam e schermi. La materia narrativa è un archivio deformato, un feed spezzato di affermazioni, ipotesi, recensioni e immagini violente. 

In Troie, la figura di Brad è al tempo stesso centro narrativo e zona cieca assoluta. Ogni utente nei forum afferma di conoscerlo, averlo visto, posseduto, ucciso. Ogni nuova voce smentisce la precedente, e l’identità fisica di Brad si dissolve nell’interfaccia: non è più un corpo, ma un fantasma digitale, prodotto mostruoso di una libido collettiva senza corpo né responsabilità. La narrazione diventa un loop pornografico e mitopoietico, dove il vero è irrilevante, perché ciò che conta è la possibilità di immaginare, raccontare, condividere e reiterare. In Amygdalatropolis, il protagonista, /1404er/, è ossessionato dalla possibilità che i contenuti che consuma – immagini pornografiche, racconti di abusi, materiali snuff – siano veri oppure no. Il dubbio sulla loro autenticità non nasce da un’esigenza etica, ma da un’urgenza psicologica: solo se è reale può provocare una reazione, solo se è autentico può ferire. I corpi mediati dallo schermo gli sembrano sempre irrimediabilmente finti, artificiali, mentre la realtà turba il protagonista perché troppo vera, ingabbiata in un’epidermide, in una dimensione in cui persino le bambole gonfiabile RealDoll lo turbano perché troppo vicine a un essere umano in carne e ossa. 

Questo aspetto innerva anche la pellicola horror We’re All Going to the World’s Fair, in cui la protagonista Casey prende parte a una challenge horror online in cui, dopo aver pronunciato una formula davanti alla webcam e aver guardato un video ipnotico, dovrebbe iniziare una trasformazione fisica e mentale di depersonalizzazione. Nel corso del film, lo spettatore inizia inevitabilmente a interrogarsi su cosa stia realmente accadendo: se stia veramente succedendo qualcosa, o se Casey stia fingendo. Il film elude costantemente una risposta definitiva, e la potenza dell’opera risiede proprio in questa sospensione: l’ansia di sapere se ciò che vediamo è reale o no coincide con il desiderio di vedere accadere qualcosa. Casey non sa più se sta vivendo o recitando la sua trasformazione, e lo spettatore non sa più se sta assistendo a una confessione o a una messinscena. Ciò che resta è la traccia della solitudine di Casey, il suo tentativo di mutare e diventare altro da sé, il suo desiderio di essere guardata da una comunità affine. 

We’re All Going to the World’s Fair, Jane Schoenbrun (2021)

In tutte e tre le opere, ciò che resta è una verità ritualizzata, più simile a una leggenda urbana o a una creepypasta che a un evento verificabile. La violenza – soprattutto quella sessuale e rivolta a donne e minori – è ovunque, ma il dolore esiste come forma, non come esperienza. Il fatto svanisce; restano la narrazione, il post, la recensione inquietante. In questo paesaggio estetico e affettivo, la verità si comporta come un simulacro, secondo la definizione di Jean Baudrillard: non più rappresentazione del reale, ma ripetizione di segni svuotati, un’iperrealtà “più vera del vero”. L’autenticità non è richiesta: è sufficiente che il contenuto sia credibile, condivisibile, carico di affetto o orrore. Come riporta uno dei personaggi di Ojeda in Nefando: “Basta che la storia ci risvegli l’immaginazione pornografica, che non ha bisogno di alcuna verità, ma di verosimiglianza, come tutto nella vita, e a volte nemmeno di quello, basta una dose leggera di possibilità. Il possibile non è sempre verosimile, ma ha la forza di un maremoto”.

Adolescenze in loop

Più che semplicemente “bloccata”, l’adolescenza rappresentata in queste opere è una forma di soggettività disabilitata dalle proprie condizioni di possibilità. I personaggi non si trovano dinanzi a ostacoli da superare o a conflitti da risolvere tradizionalmente intesi — non c’è un fuori, un dopo, un orizzonte evolutivo. Quello che manca non è l’identità, ma l’infrastruttura narrativa ed esistenziale che dovrebbe renderla articolabile. In Amygdalatropolis, l’overdose di stimoli pornografici, violenti, criptici, non produce assuefazione, ma paralisi: il desiderio non muove, ma intorpidisce. In Nefando, la lingua stessa si spezza, la narrazione si frammenta in zone cieche e documenti incompleti, come se il trauma, anziché emergere, potesse solo corrodere e decomporre la possibilità stessa del racconto. In We’re All Going to the World’s Fair, la protagonista Casey inscena un cambiamento che non avviene, una trasformazione che non ha conseguenze, in un ambiente (digitale, affettivo, linguistico) che non restituisce alcun feedback. La performance sostituisce il processo, la visibilità sostituisce la relazione, e lo spazio della soggettivazione viene occupato da una trasmissione vuota. 

In questo paesaggio narrativo, la sospensione non è semplicemente una condizione psichica, ma una logica culturale, mediale e affettiva. L’adolescenza viene mostrata come ciò che rimane quando la crescita non è più una categoria praticabile: un loop abitato da soggetti che non diventano adulti perché l’età adulta come progetto simbolico si è svuotata. In assenza di strutture sociali, linguistiche ed emotive capaci di sostenere tale percorso, queste opere mettono in scena non un vuoto di identità, ma un’identità costruita nel vuoto. È qui che la sospensione diventa centrale non solo come contenuto tematico, ma come modalità formale, estetica e politica: una scrittura che non racconta il trauma, ma lo incarna; che non accompagna la crescita, ma ne documenta la crisi strutturale.

Il finale di Amygdalatropolis estremizza questa logica della rappresentazione a cui ho fatto cenno in precedenza: quando /1404er/ si collega a LivePlateau, accede a una rete di diciassettemila telecamere disseminate in tutto il mondo: tutto è accessibile, tutto è visibile – ma nessuno è presente. Non c’è un altro da guardare, non c’è un’alterità che risponda, né un contatto possibile. È la trasparenza assoluta, l’ipervisibilità come condizione terminale, in cui ogni luogo è esposto ma nessuno è abitato. Il protagonista non accede a una comunità, né a una rivelazione: si dissolve in un flusso di immagini vuote, in una topografia costantemente sorvegliata ma priva di vita, svuotata da qualsiasi forma di umanità. 

In definitiva, queste opere non raccontano semplicemente una generazione traumatizzata, iperconnessa o esteticamente alienata. Raccontano un mondo in cui la crescita ha smesso di essere possibile e in cui la rappresentazione non serve più a dare forma al reale, ma solo a ritualizzarne l’assenza. In questo contesto, lo schermo non è più una finestra sul mondo, ma una superficie dove la soggettività si rifrange e si consuma, un archivio in cui ciò che conta non è più vivere, ma lasciare traccia. È soprattutto Yeager a mostrarci il punto terminale di questa traiettoria, dove l’onnivisione non serve a connettere, ma a certificare l’assenza: un mondo senza testimoni, senza contatto, senza più soglie da attraversare.