72 ore di ordinaria follia

Isteria e psicosi. Perché dalla piazza sì Tav alla coppia Giggi&Dibba, passando per il caso Battisti, l’Italia sembra sempre più un (brutto) romanzo weird.

Un giorno qualcuno ci sveglierà da questo incubo collettivo e tireremo un respiro di sollievo quando ci saremo resi conto che alla fine era tutta una proiezione della paura dell’Inconscio Collettivo. Lo chiamiamo populismo, come etichetta di questo non meglio precisato spirito del tempo caratterizzato dal trionfo dell’opinione rispetto ai fatti, dall’evaporazione delle ideologie e incapace di costruire  prospettive capaci di costruire il futuro; dal trionfo ostinato della rappresentazione spettacolare da dare in pasto agli elettori/consumatori sempre più affamati e bulimici di immagini e di simboli. Lo chiamiamo populismo, e con questo ci sentiamo assolti. Diventa un problema che sta da un’altra parte, riguarda qualcun altro o qualcos’altro. Ma è qualcosa che ormai ha infettato tutti. Un virus che ha iniziato lentamente, ma ha sempre più preso le fattezze di una psicosi, ovvero di una «condizione patologica che colpisce l’uomo nella sua totalità, infrangendone la continuità della vita razionale» (Treccani).

Nelle Venti giornate di Torino Giorgio De Maria racconta dell’indagine di un giornalista a partire da una misteriosa epidemia di insonnia che ha colpito tutti gli abitati del capoluogo piemontese. Durante queste venti giornate le persone spariscono, muoiono nei modi più atroci, confessano le loro ossessioni alla Biblioteca dove ognuno può – previo pagamento di un obolo – leggere cosa frulla nella testa delle persone. Una allegoria degli Anni di Piombo che nella sua weirdness assoluta, e nella sua capacità di mescolare horror, surrealismo e fantastico per raccontare un momento di passaggio particolare nella storia di una città (ma soprattutto nell’anima di un paese), funziona benissimo anche per capire bene cosa sta succedendo adesso. Senza fare troppe analogie forzate, la nostra insonnia ci impedisce di interpretare razionalmente la realtà che ci sta attorno (ed è un’insonnia sia metaforica, sia «effettiva», come problematizzato da Jonathan Crary in 24/7) e ci lasciamo prendere da un’isteria che ha molto di irrazionale, abbraccia logiche tribali in cui le persone che la pensano allo stesso modo – pensieri che sono opinioni non confermate da nessun fatto, perlopiù – si coagulano attorno a elementi simbolici che garantiscono appartenenza, a leader che non si fanno più forti in quanto rappresentanti di un’organizzazione o di un movimento, ma di essere il proprio carisma e il proprio corpo.

Sempre la Treccani definisce i tratti del Carattere Isterico come una «Anomalia caratterologica in cui domina il bisogno di apparire di più di quello che si è in realtà, di fronte agli altri e a sé stesso, di vivere più intensamente, spesso con prevalenza dell’immaginazione, di recitare una parte», ed è difficile non vedere in queste poche righe una perfetta descrizione di quello che è diventato il dibattito pubblico di questo paese. Quando hanno iniziato a parlare di Storytelling – no, non è stato Renzi, e nemmeno Berlusconi, si va un po’ più in là nel tempo e se avete visto Mad Men forse lo sapete – si pensava sarebbe stata solo una strategia narrativa per essere più accattivanti e persuasivi dei propri competitor diretti. Anno dopo anno, il racconto ha soppiantato la realtà e il cocktail di psicosi, insonnia che si trasforma in incubo e isteria ha prodotto uno scenario apocalittico in cui davvero non esistono più fatti, ma solo interpretazioni; non esiste più il cervello, ma solo gli istinti del corpo; non esiste più la costruzione programmatica, ma una propaganda distruttiva che si nutre ossessivamente di simboli da dare in pasto a un’opinione pubblica avida di colpevoli o più semplicemente di nemici.

Secondo Umberto Eco la definizione di un nemico è fondamentale nella costruzione di una cultura e di una identità. Una tribù, se vogliamo seguire il ragionamento, non si determina in base a quello in cui si crede, ma in base a chi sceglie come proprio nemico. La società in cui viviamo si è dimostrata capace di produrre nemici a ritmo frenetico e incessante. Morto uno, eccone un altro. E così all’infinito. La rappresentazione spettacolare non deve finire mai e deve viaggiare di pari passo con il consumo e tambureggiare sulla cassa dritta di una Propaganda Totale che non finisce mai. La tribù non è più capace di vivere il tempo di pace e forse non ne è nemmeno interessata.

Non esistono tribù migliori di altre, proprio perché il populismo è diventato il vero e proprio ethos dei nostri tempi. E per capirlo bene basta vedere cosa è successo negli ultimi giorni nel nostro paese.


Partiamo dal ritorno in Italia di Cesare Battisti. Sbandierato ai quattro venti come «regalo» del governo fascista di Jair Messias Bolsonaro all’Italia, l’ormai ex latitante condannato per diversi omicidi durante gli Anni di Piombo e al centro di una vicenda capace di scatenare una vera e propria isteria tra fazioni attorno al senso della giustizia in questo paese, è atterrato all’aeroporto di Ciampino dove ad attenderlo ha trovato un ingente schieramento di forze alla cui testa trionfava il ministro dell’Inferno Matteo Salvini. Dettaglio cui ormai siamo abituati, il ministro non era in giacca & cravatta, ma in divisa. Più precisamente, con un giubbotto della polizia. Matteo Salvini è da anni chiamato dai suoi fedeli «il Capitano», e il passaggio dal calcio alle Forze dell’Ordine è più sottile di quanto sembri. Agli osservatori più attenti non sarà sfuggita l’assenza del Governo quando sempre a Ciampino era arrivato il cadavere di Antonio Megalizzi, il ragazzo ucciso a Strasburgo nell’attentato dell’11 dicembre. Una scelta politica travestita da scelta «umana». Una scelta strumentale che coinvolge il ruolo «simbolico» di Cesare Battisti in quanto mostro degli Anni Settanta (un periodo storico, l’ennesimo, con cui l’Italia, il paese e la politica, non ha fatto i conti per davvero) capace di esorcizzare un Grande Fantasma. Simbolo perfetto da dare in pasto all’opinione pubblica, che infatti non ha perso occasione per dibattere animatamente su tutti i mezzi di comunicazione sul senso dell’operazione, sulla sua ricezione, sul comportamento di Battisti all’arrivo, sul senso della latitanza e del carcere, dell’atteggiamento giustizialista e forcaiolo di Matteo Salvini, capace di ridurre tutto, pure il dolore dei parenti delle vittime, a slogan.

Antonio Megalizzi non avrebbe rappresentato niente di tutto questo. Da un lato, la forza dello Stato autoritario, dall’altro la debolezza di uno Stato che perde autorevolezza. Ma nel grande circo della propaganda quello che conta è tenere vivo il livello di eccitazione. Dopare il dibattito senza fornire strumenti necessari, costruire una battaglia di opinioni. Tutto si svuota di significato: la memoria degli anni Settanta, le vittime di Cesare Battisti, le derive dell’ideologia, il senso dell’istituzione (dal carcere allo stato). Tutto ridotto a slogan, a meme da usare su Internet. Anche quando il meme è il ministro stesso. Così arriva qualche ora dopo l’arresto l’immagine del ministro della giustizia in quota grillina Alfonso Bonafede che, in piena sindrome di Stoccolma verso il leader della Lega – decisamente più smaliziato nell’uso della comunicazione e, anche, al travolgimento distruttivo dei limiti del ridicolo tra una foto con la Nutella e il continuo cosplaying delle forze dell’ordine – si mostra senza problemi sfoggiando un giubbotto della polizia penitenziaria ricordando più che un ministro della Repubblica, quei ragazzini che volendo imitare i bulli più in vista della scuola si vestono come loro ma trovando quello che era rimasto in casa. L’effetto è al tempo stesso tragico e ridicolo. Mentre il video celebrativo dell’arresto pubblicato sulla pagina Facebook del ministro, con montaggio emozionale e musica epica di repertorio, è solo tragico: trasforma il corpo di Battisti come cattivo da fiction Rai, a uso e consumo dell’indignazione social e al tempo stesso depaupera l’istituzione che Bonafede rappresenta.


In tutto questo, mentre Matteo Salvini portava a casa l’ennesimo successo di pubblico, i suoi alleati di governo del Movimento 5 Stelle – un partito abbastanza in crisi pur avendo costruito la nuova egemonia culturale che anima questo Interregno – nelle figure dei due leader ormai storici Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista non trovano niente di meglio che recarsi in macchina a Strasburgo per girare un video di pochi minuti da divulgare su Internet in cui si chiede di chiudere la sede francese del Parlamento Europeo. When in trouble, go Kasta!. La battaglia contro gli sprechi e i costi della politica sarà per sempre l’unico vero tratto distintivo del Movimento 5 Stelle (molto più del reddito di cittadinanza, non fosse altro che quando diventerà effettivo, si dimostrerà per quello che è: un sussidio di disoccupazione che niente ha a che fare con la logica della dignità nella società del post-lavoro) e attaccare la seconda sede delle istituzioni europee – già obiettivo di tantissime manifestazioni e proposte di riflessione, anche da parte dello stesso parlamento, sulla sua utilità, è un evergreen indentitario che fa fine e non impegna.

(Per chi non lo dovesse sapere: il Parlamento Europeo ha due sedi. Quella di Bruxelles, in cui si svolge tutto il lavoro nelle vari commissioni parlamentari e dove gli eletti trascorrono gran parte del loro tempo, e la sede di Strasburgo, in cui tutto il monstrum delle istituzioni si muove per una settimana al mese – e per tutto intendo tutto: anche, ovviamente, i documenti, stipati in oltre settecento bauli dedicati a ogni singolo parlamentare, che si muovono in camion da Bruxelles alla capitale alsaziana, alla faccia dell’impatto ecologico – in cui si votano tutti i provvedimenti e dove vengono prese le famose «presenze» con cui tutti i politici si fanno belli davanti agli elettori. [Fun fact: quando Matteo Salvini faceva l’eurodeputato, non era mai a Bruxelles perché stava sempre in Italia a fare campagna elettorale e comparsate televisive, eppure aveva degli indici di presenza molto alti proprio perché a Strasburgo c’era sempre.] La sede di Strasburgo ha un’importanza simbolica perché si tratta della città simbolo del processo di riconciliazione europea dopo la Seconda Guerra Mondiale.)

Che nella giornata in cui il governo poteva appuntarsi un risultato a suo modo storico come il ritorno di un latitante uno dei due partiti su cui si regge l’esecutivo non abbia niente di meglio da fare che mandare il suo capo politico, attualmente anche vicepresidente del Consiglio e ministro del lavoro, a Strasburgo in macchina – ok, Strasburgo non è la città più facile del mondo da raggiungere, ma dalla Camera dei Deputati di Roma al Parlamento Europeo i chilometri sono 1.055 – per fare un video di pochi minuti per chiedere un provvedimento non esattamente in cima alle preoccupazioni degli italiani è a suo modo esilarante, se non fosse tragico e anche un po’ fesso. Certo bisogna mettersi nei panni di un movimento che sta affrontando una prova di governo dove sta perdendo da tutti i punti di vista, e che forse sta affrontando per la prima volta una sottile incrinatura nel suo granitico e stolido consenso. E bisogna anche ricordarsi che in questa epoca di spettacolo e storytelling gli unici elementi in grado di interessare i destinatari del messaggio sono i valori identitari. La tribù ha bisogno di simboli, appunto. E la casta è da sempre il simbolo più forte contro cui scagliarsi: è eterna, immanente, e fornisce sempre un bersaglio fresco da attaccare. Per un movimento che si basa sull’antipolitica, non può esserci niente di meglio. Che poi sia stato un viaggio inutile e che poi nessun eurodeputato del Movimento 5 Stelle probabilmente riuscirà a chiudere la sede di Strasburugo, è irrilevante. È importante che la cosa sia stata detta, non che sia stata fatta. Un giorno un tassista a Roma mi ha detto «Con ‘sto governo la gente ‘sta meno incazzata», e quando gli ho fatto notare che questo governo non aveva fatto ancora niente mi ha risposto, impassibile, «non importa».


Sabato 12 gennaio il movimento spontaneo «Sì, Torino va avanti» è tornato in piazza per opporsi alla politica del «No» della giunta guidata da Chiara Appendino. Senza scendere nel dettaglio delle motivazioni e delle argomentazioni di quella piazza, si tratta di una mobilitazione del famoso, e forse mitologico, «ceto medio riflessivo». Una sommessa protesta borghese a supporto di un’idea di sviluppo di stampo tradizionale come le Olimpiadi e, soprattutto, il vessillo ideologico per definizione: la Tav. Da molti anni al centro di una disputa ormai impossibile da dipanare secondo le leggi della razionalità (che comporterebbero analisi di dati – che ci sono, sia a supporto delle ragioni del No, sia a supporto delle ragioni del Sì – e un atteggiamento laico di predisposizione nei confronti delle altrui posizioni), il passante dell’Alta Velocità in Val Susa è il terreno di battaglia simbolico perfetto attorno al quale si sono coalizzate due visioni del mondo. In occasione della prima mobilitazione, a novembre, si era rievocato con una certa fierezza la Marcia dei 40.000 con cui i colletti bianchi della Fiat, il 14 ottobre 1980, infliggevano il colpo definitivo alle lotte sindacali degli anni precedenti e questo dettaglio ha un valore culturale, simbolico e – sì – politico.

Senza lanciarsi in una facile, per quanto divertente, analisi psicogeografica della composizione sociale di quella piazza, il fatto che il mondo degli interessi organizzati (dagli imprenditori alle professioni) passando per i partiti che più di tutti hanno abbracciato la retorica del «fare» come panacea di tutti i mali (un ircocervo che abbraccia Forza Italia, Partito Democratico e Lega Nord, curiosamente costretta – per tornaconto elettorale, base di consenso e composizione dell’elettorato – a scendere in piazza contro il suo alleato di governo) e le varie élite decadute del capoluogo sabaudo (spettro di un tramonto più generale del concetto stesso di élite) suggerisce molte cose. La più evidente, è che l’opposizione a una politica per sottrazione e senza una bussola, spesso contraddittoria e anche autolesionista, da parte di chi più apertamente mostra i tratti dell’ethos populista si può fare solo con la propaganda thatcheriana del there is no alternative. Anche in questo caso, il realismo capitalista ha trionfato.

Peccato che anche la rivolta rispettosa della buona borghesia cittadina altro non sia che una variante «ben vestita» del populismo. Prima di tutto perché anche se cambiano le parole d’ordine e i modi, resta una piazza profondamente psicotica e isterica. Il carattere del dialogo – e soprattutto, delle ricadute sui social network – è anche questo prevaricatore e volto all’annientamento di chi non la pensa come te. Il «Sì» diventa una clava con cui attaccare non solo chi è «per il No», ma anche chi mette in dubbio la logica delle argomentazioni e l’efficacia sulla lunga distanza di una politica di sviluppo tutto sommato tradizionale che non è interessata alla costruzione di autentiche alternative di progresso urbano. Ma a parte queste considerazioni di carattere squisitamente politico, a catturare la mia attenzione è stato altro. Un foglio in cui si può leggere il testo che i partecipanti al flash mob avrebbero dovuto ripetere a gran voce. Questo:


Siamo oltre lo slogan un po’ fesso e un po’ vetusto delle piazze di sinistra. Qui siamo nel territorio della «preghiera laica». Lo stile è quello del salmo. Dalla metafisica della religione al materialismo della religione del progresso. Inoltre, se una delle caratteristiche del populismo è quella di annullare la difficoltà dei processi per abbracciare l’idea per cui le cose succedono per magia, le conseguenze miracolose che la realizzazione della Tav dovrebbe generare secondo questo salmo laico (o forse pagano?) ci portano nei territorio del «pensiero magico» piuttosto che in quello del ritorno della razionalità.

Se riassumere una battaglia in uno slogan, in un obiettivo e in un vessillo simbolico (Cesare Battisti, la Casta, la Tav) è un tratto distintivo del populismo, queste ultime ore di ordinaria follia dentro un paese che si sta lentamente rassegnando alla sua stessa spinta autodistruttiva dimostrano come il populismo sia ormai l’unica religione che ci permette di andare avanti nell’apocalisse, di costruire una (il)logica politica e, al tempo stesso, di assolverci dai nostri peccati per cui alla fine non esiste nessun responsabile, solo sconfitti.

L’epoca post-ideologica ha visto il trionfo del capitalismo sulle logiche della politica. Questo trionfo non ha solo disintegrato via via l’immaginario collettivo e la spinta all’ideazione di un futuro possibile (dalla cui impossibilità parte la riflessione sulla hauntology con cui Mark Fisher riprende e attualizza Derrida e ben riassunta dalla frase – una volta attribuita a Fisher, una volta a Fredric Jameson, un’altra ancora a Slavoj Žižek – per cui è più facile immaginare la fine del mondo che non la fine del capitalismo), ma ha reso tutto quanto necessariamente spettacolare. Lo spettacolo si nutre di stimoli permanenti, e appiattisce lo spettro cognitivo creando un flusso continuo dentro al quale non solo non esiste più il futuro, ma anche il passato si riduce a un grande supermarket in cui tutta la Storia diventa una merce da usare a uso e consumo della tesi che si vuole dimostrare. Resta solo il presente, che si ripete all’infinito, ogni volta svuotato di un frammento di senso in più. Un guscio vuoto in cui tutto è uguale a tutto, guidato dalle logiche di un profitto che non essendo più legato alla produzione deve andare a colpire la sfera dell’immaginazione, dell’immateriale e della soddisfazione continua.

Immagini come droga, simboli come assuefazione, presente come dipendenza. La Storia non la fanno più i vincitori, ma gli indici di ascolto e i Like su Facebook. E allora Cesare Battisti diventa il capro espiatorio di una stagione storica su cui lo Stato, e la politica, non riuscirà mai a fare analisi; la Casta diventa il Gigante che si autogenera e contro il quale la ribellione degli esclusi dal Palazzo può avere sempre nuovi stimoli e nuovi obiettivi; la Tav viene esaltata con enfasi marinettiana come unico strumento attorno al quale costruire il progresso del paese (non tanto diversamente dalla parodia della propaganda attorno al Ponte di Messina portata avanti dal telefilm Boris, che forse resta una delle più grandi fotografie sociali del degrado intellettuale di questo paese). Divinità e Traditori, santi e peccatori, vincitori e vinti: dinamiche binarie che tengono il punto, occupano uno spazio, costruiscono un’area di consenso isterico, ma non costruiscono assolutamente niente.

Non esiste più nessun tipo di alternativa per chi vuole uscire dal Castello dei Vampiri. Resta solo l’ossessione e l’isteria.

Da Furio Jesi a Eric Hobsbawm, ormai sappiamo come il concetto di «tradizione» sia in realtà una costruzione culturale. Non è qualcosa che esiste in natura, ma un vero e proprio progetto (sociale, politico, commerciale) per costruire un senso di appartenenza posticcio, motivare un popolo e spronare i consumatori a sentirsi parte di un progetto più grande. Su un piano decisamente materiale, è come se non ci fosse nessuna differenza tra il Cattolicesimo e il Just Do It della Nike; mentre da un punto di vista della logica della propaganda, non esiste alcuna differenza tra l’ossessione securitaria della Lega – a sua volta partito che ha prosperato proprio grazie all’invenzione di una tradizione – e l’isteria di un progresso legato alla produttività della borghesia alfabetizzata urbana: è tutto fideismo posticcio che azzera il concetto di comunità, bypassa la solidarietà sociale e si alimenta di battaglie e nemici. Non è importante raggiungere un risultato, è importante continuare a foraggiare lo spettacolo.

In Exiting the Vampire Castle Mark Fisher fotografa perfettamente come anche la sinistra – o, per lo meno, quello che siamo stati storicamente abituati a considerare geograficamente come sinistra – sia vittima di questo tipo di atteggiamento che per brevità di analisi abbiamo ricondotto all’ethos del populismo. I «vampiri» di Fisher sono i buoni borghesi di sinistra che succhiano l’energia dai movimenti che portano avanti istanze di giustizia sociale, per omologarli dentro uno schema indentitario, depotenziarli fino ad ucciderli con sensi di colpa, moralismi a buon mercato, piegando anche la faccenda dei diritti sociali e dei diritti individuali a un vezzo di classe che non deve permettersi di disturbare il manovratore. La tossicità del dibattito e l’impossibilità di creare uno spazio per il dissenso – dove il dissenziente non può far altro che essere espulso, così come il corpo spurio che rovina l’armonia della società non può far altro che andare contro il suo destino e essere annientato con il più ampio spiegamento di videocamere possibili – hanno infettato anche la sinistra, ossessionata dalla ricerca di una identità e dall’attaccamento a una causa da vendere come superiore per riscoprire un senso del sé.

Dal codazzo mediatico all’aeroporto di Ciampino, al tambureggiare ossessivo del mantra «Sì Tav» passando per lo smartphone con cui Di Maio e Di Battista hanno ribadito che i costi della politica sono il male del mondo, non esiste più nessun tipo di alternativa per chi vuole uscire dal Castello dei Vampiri. Resta solo l’ossessione e l’isteria. Che la causa sia votata alla giustizia e alla sicurezza, o al progresso e alla creazione di posti di lavoro, siamo sempre dentro lo stesso schema votato all’ottenimento di un grande consenso. Un consenso che muore nel momento stesso in cui si raggiunge, e che per questo ha bisogno di essere ribadito sempre di più e con strumenti sempre più pervasivi. Nell’epoca Propaganda Totale viviamo dentro uno stato di tensione permanente che non può far altro che portarci alla nevrosi, all’insonnia, alla stanchezza e al bisogno continuo di stimoli: siano essi commerciali o politici. L’unica certezza è che non ci sarà nessuno in grado di svegliarci dall’incubo.