Ascolta con dolore

Il suono come arma, l’impiego bellico degli ultrasuoni, l’intelligenza artificiale e il futuro della musica: intervista a Toby Heys del collettivo AUDINT

Mai come oggi i nostri sensi sono bombardati, mai come in questo momento la nostra psiche è stressata a livelli di trincea: quello che percepiamo nella vita quotidiana è infatti una vera e proprio stato di guerra che va di pari passo con i conflitti che stanno creando instabilità in un mondo già di per sé senza pace. Il collettivo Audint, attivo pubblicamente dal 2008, queste cose le aveva già previste e sondate: composto originariamente da Toby Heys (ricercatore digitale presso la Manchester Metropolitan University e precedente membro di Battery Operated), Steve Goodman (alias Kode9, autore di Sonic Warfare e boss dell’etichetta discografica Hyperdub), Patrick Doan (artista digitale) e Souzanna Zamfe (una ricercatrice russa con obiettivi quali futuro e sonologia), dopo una serie di lavori seminali su dischi, cassette e libri sono tornati con una specie di audiolibro fantascientifico, Ghostcode. I nostri lo stanno promuovendo in giro con serate speciali ( ad esempio è prevista una sei ore di colonne sonore di film di fantascienza a New York) e ovviamente con delle interviste: abbiamo pensato di farci raccontare di persona questa loro ultima fatica parlando proprio con Toby Heys.

Partiamo subito dalle basi: il progetto Audint è un collettivo…

Sì, esattamente.

…e il significato del suo nome è audio intelligence. Quindi si parte dagli esperimenti con i significati e i significanti dell’audio. I non suoni, i suoni che non possiamo ricordare con i nostri sensi. Cosa vi ha spinto a iniziare questa avventura di ricerca?

Abbiamo iniziato come un modo di riflettere su come l’esercito utilizzi il suono. Come i militari, i governi e le aziende funzionalizzino il suono. Come producano suono, musica, e non-suono, infrasuoni inferiori a 20 hertz e ultrasuoni superiori a 20.000 hertz: interrogarsi su quale è la funzione utilitaristica di tutto questo. Quando si pensa alla musica non c’è solo l’ aspetto ovvio, cioè far sentire le persone felici o farle ballare. C’è l’altro lato della medaglia. È l’aspetto che si basa più su come si possano influenzare le persone, su come sia possibile manipolarle e torturarle tramite quel media.

Sai, nell’esercito ci sono gruppi diversi. Hai SIGINT, che è l’intelligence dei segnali. C’è COMINT, che è l’intelligence delle comunicazioni. Ma non c’era un’intelligence audio. Quindi abbiamo pensato, ok, ci chiameremo “intelligence audio” perché non ce n’è una. Diventeremo un’intelligence ma anche un’intelligenza audio, come una specie di strana interfaccia per una sorta di comprensione militare e culturale del suono e della musica.

Nel 2014 avete realizzato Martial Hauntology. C’era un concept particolarissimo che riguardava i soldati fantasma del Vietnam, vero?

Sì, come l’ operazione Wandering Soul, in cui gli americani tentavano di terrorizzare i soldati vietnamiti riproducendo suoni demoniaci da altoparlanti in mezzo alla foresta.  Oppure l’ uso delle registrazioni dei suoni degli elicotteri…. Ma non si trattava solo di questo: si trattava di qualcosa di più, riguardava il concetto di “esercito fantasma”. L’esercito fantasma era questo: nella seconda guerra mondiale usavano enormi sistemi di altoparlanti. E poi registravano i suoni su diversi giradischi. E suonavano e poi mixavano i dischi insieme. Furono i primi “battle Djs”. Ma veri DJ da battaglia, in tutti i sensi. Lo facevano durante la guerra. Missavano i suoni per far sembrare che ci fosse un carico di truppe in giro anche se non c’era anima viva. E simulavano col suono un carico di armamenti, carri armati e attività per ingannare i nazisti facendogli pensare, “oh, non andremo lì perché c’è un sacco di gente laggiù. Andremo dalla parte opposta”. Ma ovviamente, una volta deviati lì, avrebbero trovato molte persone ad aspettarli, armate fino ai denti. Quindi il punto è l’inganno sonoro, il suono usato per ingannare.

Quando avete iniziato questo progetto, qual è la cosa che vi ha fatto dire, “oh, dobbiamo fare qualcosa al riguardo?”

Penso che sia stata l’esperienza di entrare in un club di drum and bass (ride). Entrare in un club e trovare questa enorme e pura potenza, lo spazio in cui i bassi e tutto il resto ti colpiscono… Beh, per molte persone è davvero offensivo. Ed è davvero come chiedersi: “perché dovrei voler affrontare tutto ciò?” – è come affrontare una prova di resistenza. Penso che si potrebbe chiamare “estasi nera”. Le cose stanno così: puoi andare e godertela e sarà l’esperienza più viscerale e bellissima della tua vita. Oppure, se va storto, sarà orribile e terribile, e ti farà sentire come se fossi stato in guerra o qualcosa del genere. Quindi si entra in quella situazione per cui capovolgi tutto tentando di capire entrambi i modi di viverla. E normalmente ne afferriamo il lato buono e il lato positivo, ma non comprendiamo tanto quello oscuro.

E se prendi la droga sbagliata il problema si ingigantisce, non è vero?

Esattamente. Se le cose vanno male in quel senso vanno davvero, davvero male, molto velocemente (ride).

Quindi questo vostro immaginario, il vostro concept, possiamo esprimerlo non solo a parole, ma anche nei fatti: a parte il drum and bass, questo discorso “bellico” è presente anche nella musica pop di oggi, giusto? Perché per esempio la loudness war non si chiama così per caso. Ci sono un sacco di ambiguità su questo uso dei suoni, come fosse sempre una perenne battaglia, dalle classifiche sino alle filodiffusioni nei bar. Come se fossimo sempre in una guerra psicologica del suono, giusto?

Sì, sì, sì. Voglio dire, immagino che sia in parte come l’idea di Virilio in cui la città intera è una macchina da guerra. L’idea della città come macchina da guerra è qualcosa che prepara costantemente gli abitanti urbani al conflitto. Che si tratti del conflitto del capitalismo, che si tratti di un conflitto sensoriale, che si tratti di un conflitto politico… Ci allena sempre. E la musica ne è un ottimo esempio: come ho detto, pensa a quando entri in un club di drum and bass: è una roba proprio martellante ed è enorme. E poi tu assumi cose o fai cose al tuo corpo, entri in altre modalità sensoriali. È come se ti stessi addestrando, è come la Seconda Guerra Mondiale. Ricordiamoci che i militari americani davano ai soldati LSD per vedere come avrebbero agito in una determinata circostanza. Quindi è un po’ come se ci fosse tutta questa roba crossover in cui iniziano e finiscono l’esercito e la cultura. E foraggiandosi a vicenda alimentano le tecnologie.

È come con il computer, internet e tutto il resto. È tutta roba nata in un contesto militare.

Sì, assolutamente. Molte tecnologie come il vocoder, ad esempio, venivano utilizzate dall’esercito americano per analizzare e sintetizzare la voce umana. E poi, ovviamente, la cultura hip hop lo riprende. E, sai, è come se la cultura nera emarginata ne ribaltasse il senso facendo qualcosa di completamente diverso e portandolo altrove. Ma poi c’è sempre questo circolo vizioso tra il conflitto e la vita civile, per così dire.

Avete un approccio molto trasversale, giusto? Perché voi trasformate le vostre tracce sonore in un’installazione vera e propria. C’è una modularità, giusto?

Sì, è assolutamente super modulare. Ma abbiamo sempre pensato come di avere una spina dorsale narrativa sai, come una metanarrativa. E poi tutte le cose che si collegavano tra loro erano come capitoli. Quindi un disco è un capitolo plug-in. Una performance è un capitolo plug-in. Il software un capitolo plug-in, una cassetta è un altro capitolo plug-in… Si estendono tutti. Hai questa narrazione principale e poi gli elementi della narrazione che vengono esplorati attraverso diversi media. E questo potrebbe avvenire attraverso qualsiasi cosa, con qualsiasi cosa abbia senso. Potrebbero essere cassette o dischi, ma potrebbero anche essere libri, potrebbe essere un software. Oppure potrebbe essere un qualche tipo di cibo. Abbiamo già fatto cose con il cibo in passato: l’abbiamo fatto al Mira Festival di Barcellona, ​​dove stavamo lavorando con SubBase.

E  come trascrivi questo approccio teorico del suono nelle tue tracce? Mi affascina il modo in cui utilizzate tutte queste pressioni sonore e il lavoro del suono che fate sul corpo… Ricordo quella bellissima installazione con dispositivi militari a ultrasuoni, per esempio.

Abbiamo lavorato tantissimo in spazi bui. Quindi spazi neri, oscurati, che hanno altoparlanti a ultrasuoni, che sono molto direzionali e devi attraversarli: quello è il raggio del suono e devi passarci attraverso, altrimenti non lo senti. Lavoriamo con gli infrasuoni, quindi bassi molto bassi, da 17, 18 hertz: puoi sentirlo su di te, sulla tua pelle, ma non puoi ascoltarlo. E poi abbiamo delle cose nella stanza, cioè devi cercarle come con una torcia, ma abbiamo una torcia con cui difficilmente puoi vedere. Quindi devi trovare cose con una torcia che non funziona davvero. Tutto riguarda cose che sono al limite della percezione. Questa è un’idea davvero importante all’interno di Audint. Fenomeni che esistono ai margini della percezione. Cosa succede al nostro pensiero? Cosa succede al nostro agire? Cosa succede alla narrazione quando il tuo cervello non riesce a percepirla davvero nel modo in cui vuole perché non riesci a sentirla bene, o le tue orecchie non registrano sotto i 20 hertz o hai problemi visivi? Se i tuoi occhi risuonano a 18 hertz? In quel caso ottieni qualcosa chiamato “sbavatura visiva”, che ti dà allucinazioni periferiche. Tutto quel genere di cose, ovvero giocare con il sensorio, con i meccanismi sensoriali, è davvero importante: è come tornare al discorso del club drum and bass, quando entri e hai quell’esperienza che ti porta in un posto completamente diverso. E stai solo lottando per cercare di mantenere una sorta di… sanità mentale, immagino.

Futurismo a parte, sono cose molto vicine alle teorie di William Burroughs. Il concetto di suono come arma… Sei connesso con le cose di Burroughs o no?

Sì, assolutamente. Avevo una connessione molto diretta col suo pensiero. Conoscevo Genesis P Orridge: quando vivevo a New York frequentavo Genesis, quindi ho un collegamento piuttosto bizzarro con Burroughs attraverso Genesis, perché molte delle cose di cui parlavo con Genesis riguardavano il suono come arma. Ovviamente pensiamo ai Throbbing Gristle, concerti in cui chiudevano le persone dentro e le costringevano ad ascoltare cose, ovviamente è così: sai che è stato davvero istruttivo per me da giovane, era proprio una cosa come “cazzo, non sapevo che si potesse fare una cosa del genere!” Genesis era proprio così: è ovvio, tutto è permesso se permetti che accada!

E quindi c’è anche questa teoria del continuo vibrazionale, ben espressa nel vostro Unsound Undead. Cosa intendi?  Perché noi siamo la vibrazione, siamo fatti di vibrazioni, ma nel tuo lavoro quali sono quelle che attivano una nuova percezione del mondo?

L’intera faccenda degli Audint è pensare sempre al mondo e rifletterci su. Il modo in cui raccontiamo il mondo, il modo in cui ci orientiamo nel mondo, pensarci da un punto di vista che non è basato sull’uso degli occhi, pensare a un mondo di cui parliamo e al nostro mondo, alle nostre idee e alle nostra verbosità. La nostra grammatica si basa tutta su ciò che ascoltiamo e su ciò che percepiamo, quindi anche sulle vibrazioni. Probabilmente c’è solo un’affermazione che puoi fare sull’universo che è sempre stata vera, lo è ancora e lo sarà sempre: è che tutto si muove. Come concetto è davvero semplice, ma tutto si muove.

C’è  una teoria narrativa pensando a come il suono viene utilizzato come arma per il futuro, ma anche a come il capitalismo inizia a cambiare  intorno alle “corponazioni”, quando gli Stati e le multinazionali iniziano a diventare la stessa cosa reinventando il capitalismo

Anche i colori sono vibrazioni.

Sì, assolutamente, ecco perché vediamo il rosso. Ad esempio viene usato il rosso su porte o sistemi di emergenza perché è il primo spettro di frequenze che noi in realtà vediamo, il primo colore che gli occhi possono registrare. Tutto è basato sulle frequenze.

Da qui il fatto che lavori molto con la spettrografia del suono perché dentro una traccia possiamo piazzare un suono fantasma ,che possiamo scoprire solo con la tecnologia di analisi delle frequenze. Ci sono  messaggi segreti sepolti nella nostra vita normale acustica, quindi sei come uno speleologo, o anche archeologo del suono…

In effetti mi piacerebbe trovare dei diamanti nascosti che potrebbero essere utili a risolvere un sacco di problemi (ride).

Stavamo parlando dei colori: il vostro packaging è molto interessante, le confezioni dei dischi e dei libri sono molto particolari… Chi si occupa delle grafiche?

Abbiamo persone diverse che lavorano sulla grafica ma abbiamo un modo di pensare davvero prestabilito: abbiamo una certa gamma di colori, e ne usiamo solo sei. Un arancione, un rosso, un bianco e un nero e un verde, poi usiamo il blu. Usiamo solo quei sei colori in ogni packaging, il design e di solito è piuttosto minimale, e abbiamo sempre combattuto molto da vicino su come funziona il design.

Parliamo del nuovo doppio album Ghostcode perché è molto, molto interessante. In che senso è una colonna sonora? Si tratta della sonorizzazione di  un graphic novel? di cosa si tratta?

Ghostcode è il secondo step nella Martial Hauntology: quest’ultimo era un disco e alcune cartoline ma era anche un libro, incorporato nell’album. Non è un libro grande, è qualcosa di piuttosto breve chiamato Dead Record Office e fondamentalmente raccontava la storia degli Audint dal 1944 attraverso il contemporaneo, come il 1990-2000, una cosa del genere.  Ghostcode racconta invece la storia degli Audint dagli anni Novanta fino al 2064, quindi è molto futuristico, è molto speculativo, c’è  una teoria narrativa pensando a come il suono viene utilizzato come arma per il futuro, ma anche a come il capitalismo inizia a cambiare  intorno alle “corponazioni”, quando gli Stati e le multinazionali iniziano a diventare la stessa cosa reinventando il capitalismo. Ci sono molte cose sull’intelligenza artificiale all’interno del libro… è anche una specie di grande critica al modo in cui la povertà e il dolore sono feticizzati dall’industria musicale. Ad esempio, per quanto riguarda le persone provenienti da un background duro della classe operaia: la loro musica è ciò di cui si ciba ovviamente l’industria musicale. Guardiamo al blues, al jazz o, in una certa misura, all’ hip-hop: poi arriva la musica della classe operaia bianca col punk e poi arriva la musica drill, il  grime… Voglio dire, è una cosa infinita: l’industria musicale ama vendere questa idea che il dolore e la povertà sono davvero buone. Quindi il libro è una grande critica al riguardo: si parla di “campi di dolore”, c’è quest’idea latente. Nel capitalismo ci sono questi virus sonori che combattono l’uno contro l’altro come soldati, e che le persone usano gli uni contro gli altri, ma la cosa che alimenta il virus è il suono del dolore: quindi producono città come ghetti o favelas dove le persone soffrono, hanno orribili dipendenze dalla droga e vengono registrate, quindi ci sono dei microfoni ovunque nei loro appartamenti per strada che registrano il suono del dolore e quel suono di dolore alimenta questi virus. 

In realtà l’approccio al pubblico è molto peculiare per voi: perché non è solo suono, è anche una questione di lavoro trascinato da una teoria che sa interpretare la nostra società contemporanea e allo stesso tempo si apre al nuovo che dà risultati diversi  nel vostro suono/ arte multidisciplinare. Visto che non ci viene in mente nessuno come voi, c’è qualcuno a cui ti ispiri o qualche artista a cui ti senti più vicino con cui magari hai collaborato (visto che ne frequenti molti)?

Ovviamente c’è un numero enorme di persone che influenzano il progetto, ma penso probabilmente che in termini di riflessione sul lato teorico-fiction, le cose I Drecxiya siano davvero estremamente importanti per noi: i loro miti e tutto il resto, tutto il lavoro intorno… Tutto il loro suono è basato sulla loro narrativa, sul passaggio di mezzo e sulle donne incinte che vengono gettate in mare e su un gene mutante che poi permette alle persone di respirare sott’acqua . Si parla molto in generale di afrofuturismo: si’, hai i Parliament, hai Sun Ra e blah blah blah, ma la parte veramente importante di quel puzzle sono i Drecxiya: non puoi capirlo senza i Drecxiya. Quindi penso siano davverosuper influenti perché non hanno solo la musica, hanno la teoria e poi hanno anche i libri e via discorrendo.

È anche difficile per te che conosci il sistema culturale farti mettere in una scatola… In un colpo solo siete artisti, siete narratori, siete studiosi …non è facile classificarvi.

Certo: siamo anche scrittori, teorizzatori…

Ma in effetti  se tu dovessi descrivere la tua musica, o non musica, come lo faresti? Perché in questo ultimo disco possiamo ascoltare un po’ di vaporwave, un po’ di alta definizione, un po’ di “concrete trap”, possiamo parlare di suoni paranormali o qualcosa del genere perché ci sono anche questo genere di cose…Se tu dovessi appiccicare un’etichetta sul tuo lavoro cosa diresti?

Mi fai questa domanda proprio dopo aver semplicemente detto che non esiste un’etichetta che potrebbe funzionare con noi? (ride)

Sì, chiaro! Perchè una cosa è l’ etichetta che ti danno gli altri una cosa quella che ti dai tu.

Il disco  che abbiamo appena fatto è davvero, davvero diverso da Martial Hauntology. Martial Hauntology è spoken word: un pezzo da 20 minuti da un lato, da 20 minuti dall’altro, entrambi parlati. Il nuovo disco, non è affatto così. Campioniamo la voce di tanto in tanto, ma è un vero e proprio mix a base di industrial che incontra la colonna sonora che incontra la musica concreta che  incontra la musica cinese e la wonky electro… È davvero diverso, questo disco è una bestia differente. Penso che sia davvero la colonna sonora del libro. Funziona in un modo diverso da Martial Hauntology: funziona come un vero e proprio disco, come un’uscita prettamente musicale, in vinile. Quindi, ancora una volta, stiamo allargando il campo. Nello stesso modo abbiamo fatto anche tre uscite su cassetta, pubblicate da Boomkat: erano tutte registrazioni dei precedenti membri degli Audint. Perché nella storia degli Audint siamo solo l’ultima iterazione del gruppo. Ci sono altre due iterazioni negli anni Sessanta, indietro negli anni Quaranta… Noi siamo solo l’ultima versione. E probabilmente faranno in futuro un’altra versione di cui non facciamo parte. E il suono funziona in modo diverso per ognuno. Le cassette sono concepite come registrazioni del passato. Sono come registrazioni d’archivio dei nostri ex membri. Ancora una volta, il suono funziona in un modo davvero diverso – un modo per archiviare e come memoriale per le persone del passato, colleghi del passato che cambiano ogni volta. La natura del modo in cui ci avviciniamo all’idea di musica e suono, dipende dal concetto di esso, e così cambia. Una colonna sonora è diversa da un archivio, è diversa dallo spoken word. Proviamo a cambiare spesso ciò che stiamo facendo.

E questo riflette anche il modo in cui lavorate, perché ci sono alcuni membri fondatori, ma allo stesso tempo siete tutti indipendenti come delle monadi: isole che collaborano tra loro, come un sistema aperto e continuo.

Sì, questo ci ha sempre interessato. Siamo sempre davvero interessati a provare a cazzeggiare con l’“autorialità” dell’autore. Cosa significa essere un autore? Cos’è fare qualcosa? Cosa succede quando inizi a lavorare con altre persone in termini di collaborazione? Come si può realmente estendere la nozione di collaborazione, piuttosto che solo due persone in studio che collaborano o la band in uno studio che collabora e poi va in tour? Molte delle nostre cose, come Ghostcode ad esempio, hanno dei concetti principali alla base: quest’ ultimo è che noi lavoriamo, ma lavoriamo per volere di un’intelligenza artificiale canaglia dietro Audint che controlla il gruppo. E così tutta la roba che noi facciamo la  facciamo per l’intelligenza artificiale: l’AI ci controlla e ci chiede di fare cose perché sta cercando di scaricare la sua memoria nella nostra coscienza e nella memoria umana. Sta cercando di distribuirsi all’interno della cultura in modo che se le venisse cancellata la memoria potrebbe ricostruirla mettendo insieme il tutto attraverso dischi, libri, recensioni, film… tutto il resto che esiste nella cultura. Quindi siamo proprio come macchine per questa intelligenza artificiale – siamo proprio come dispositivi di registrazione. I nostri ricordi sono soltanto dispositivi che desidera utilizzare. Siamo in un certo senso semplicemente girando intorno al tipo di  formula dell’agire uomo-macchina, cazzeggiando e dicendo “beh, facciamolo”. L’intelligenza artificiale è la cosa che guida tutto e ci sta semplicemente usando come burattini di carne.  

Cosa pensi del futuro dell’arte in questo senso?

Penso ovviamente che l’intelligenza artificiale cambierà completamente la nostra idea della produzione e la nostra nozione di creatività. E non penso che l’intelligenza artificiale  sia qualcosa di cui avere paura. Voglio dire, è come essere agitati per la paura dei campionatori negli anni Ottanta. Se hai dei campionatori, non ha senso essere un musicista jazz o soul perché puoi semplicemente dire quello che vuoi, sai: puoi semplicemente campionare tutto. Non devi suonare un genere: rubi semplicemente qualunque cosa. E naturalmente, di nuovo la cultura hip-hop ha fatto un uso straordinario del suono dei campionatori, con lo spirito del “lo faremo e basta”. 

Impareremo a lavorare con l’intelligenza artificiale e l’intelligenza artificiale sarà massicciamente controllata in futuro. Perché in ogni caso, non è possibile che rimanga tutto aperto e libero così com’è oggi. Arriveranno i governi a metterci le mani, ci saranno implicazioni legali riguardo all’intelligenza artificiale, già il New York Times ha fatto causa a Open AI per violazione di copyright… Finora tutto è semplicemente gratuito, è proprio tutto come “oh, usiamolo!”, ma non resterà così. Sarà impossibile: è proprio il capitalismo a non permettere di essere liberi e aperti. Ti ricordi quando tutti si scambiavano musica? E poi ovviamente tutta l’industria discografica e tutti i guardiani dei contenuti dicevano: be’, aspetta un attimo: se tutti si regalano musica a vicenda, come facciamo a guadagnare? E ovviamente il capitalismo risponderà e l’intelligenza artificiale verrà bloccata e rimarrà vincolata al diritto d’autore, il che influenzerà anche il modo in cui creiamo.  

Quindi oggi come oggi fare arte è fondamentalmente imparare.

Certo: l’ arte apre diverse prospettive, diversi modi di capire come comprendere il mondo, ma anche come navigare e orientarsi in quest’ ultimo. L’AI  ci fornirà una prospettiva completa dei sistemi di prospettiva della macchina davvero diversa e interessante di come orientarsi e navigare nel mondo, dai sistemi di traffico ai giornali alle gru fuori dalla mia finestra, qualunque cosa. Cambierà completamente il modo in cui comprendiamo cosa è possibile nel mondo: e questo è potenzialmente davvero interessante.