Illustrazione di Essy May

Le Guin se n’è andata, e ha lasciato in giro una voce

La grandezza di Ursula K. Le Guin, icona immortale del fantasy e della fantascienza

Le Guin se n’è andata, e ha lasciato in giro una voce. Continua a navigare in rete e sulla carta stampata, questa voce, dipanandosi a partire dal tempo più bello, intrigante, importante, provocatorio, politico e ironico della fantascienza americana e internazionale. Della letteratura, dovrei dire, perché di questo si tratta: Le Guin è una voce letteraria importante, e lo resta anche ora che non c’è.

È stata una vita lunga e intensa, la sua; intera, da essere umano completo e consapevole, e non da melanzana. La scelta dell’ortaggio, da parte mia, non è casuale. Nel saggio Why Are Americans Afraid of Dragons? («Perché gli americani hanno paura dei draghi?», 1974) Le Guin lamenta che il problema di molti adulti sta nel fatto che hanno imparato a reprimere la loro immaginazione, «a rifiutarla come qualcosa di puerile o di effeminato, che non reca profitto ed è probabilmente peccaminoso». E poi spiega, con certezza adamantina, che l’immaginazione è, al contrario, una straordinaria risorsa: «Se venisse effettivamente sradicata in un bambino, questo da grande diventerebbe una melanzana».

Per questa ragione, forse, Le Guin comincia da bambina a pescare miti e immagini dalle ricerche dei suoi genitori (entrambi studiosi di ciò che restava della cultura nativa americana nella California meridionale), e poi procede alla scoperta del folclore norvegese e irlandese, fino alla conoscenza profonda del Tao Te Ching che informa molte delle sue narrazioni senza mai farsi predica teologica. Così crea mondi, e lo fa in modo da attribuire a essi una fascinazione doppia: sono profondamente istruttivi e straordinariamente immaginifici. E lo sono attraverso una scrittura limpida e coraggiosa, che già nei tardi anni Sessanta attribuiva alla narrativa di fantascienza una complessità che senz’altro spaventerebbe gli editori di oggi.

Foto di William Anthony

La mano sinistra delle tenebre (1969), forse il suo romanzo più conosciuto e vincitore dei premi Hugo e Nebula nel 1970, ha la forma di un mosaico di fonti primarie, che comprendono il diario di un etnografo interstellare (Genly Ai), una raccolta frammentata di miti e leggende delle culture originarie del pianeta alieno Gethen, e voci narranti alternate, in un puzzle in cui tutto si tiene, ma che certamente rappresenta una soluzione insolita e una sfida al lettore. Anche la tematica non è proprio delle più semplici, sebbene nasca da una procedura elementare. Le Guin osserva la società umana, riflette sulla rilevanza del genere sessuale, ne abolisce la fissità immaginando un pianeta popolato di creature androgine, che possono essere maschio o femmina a seconda delle circostanze, e studia quel che resta del nostro mondo occidentale, patriarcale ed edificato sulla biblica convinzione che la donna sia stata creata dopo l’uomo, e che dunque debba patire una fatale subalternità. Quel che resta, appunto, è un esperimento straordinariamente istruttivo, ma anche una grande storia, nella quale si muovono persone, e non stereotipi. E le persone sono infinitamente più difficili da comprendere dei modelli monodimensionali. Hanno passioni. Fanno errori. Si innamorano e si lasciano. Sono contraddittorie. Sono adorabili. Sono insopportabili. Insomma, sono vere.

Quindi ecco qui: Le Guin se n’è andata e ha lasciato in giro una voce. Essa racconta storie vere, di quelle che non possono essere ignorate perché ti tirano in mezzo, pretendono la tua partecipazione. Ho sempre pensato che Le Guin si sia divertita molto a scrivere quel che ha scritto. Alla fine, credo che il suo scopo non fosse affatto quello di affascinare il lettore o di coltivare un privatissimo narcisismo, del tutto normale, se non estremo, in qualunque scrittore. Sono convinta che Le Guin perseguisse un fine ben più complicato: voleva raccontare storie che inducessero il lettore a far funzionare il cervello, per mettere in movimento un processo di agnizione.

I reietti dell’altro pianeta (1974), anch’esso vincitore sia del premio Hugo che del Premio Nebula nel ’75, è un bell’esempio, da questo punto di vista. Quando immagina Urras e la sua luna Anarres, costruendoli in opposizione quanto possono esserlo una società anarchico-libertaria in preda a una deriva ontologica e una plutocrazia scopertamente gerarchica condannata a restare immobile nel tempo, Le Guin non offre paradigmi di società funzionanti. Quindi il romanzo non fornisce ricette. Piuttosto propone una sfida e consegna al lettore cibo per la mente. Se non lo mastichi, il cibo non va giù, e la masticazione è un atto soggettivo e individuale, il cui completamento efficace dipende esclusivamente dal soggetto in questione. Ecco, con i romanzi di Le Guin, soprattutto con quelli migliori, è così che stanno le cose: ognuno deve trovarsi la sua strada, e questo non è possibile se non c’è almeno un po’ di partecipazione, un’assunzione di responsabilità.

«Predire è compito dei profeti, chiaroveggenti e futurologi. Non è compito dei romanzieri.»

Quindi: Le Guin se n’è andata e ha lasciato in giro una voce. Essa funziona come una interpellazione, una chiamata diretta a ciascun lettore. E questa è l’altra questione importante: il lettore, per Le Guin, è un’entità plurale. Nessuna storia è davvero finita, nessuna creazione è completa finché non arriva nelle mani di chi la legge. E chi la legge conferisce a essa la vita e il senso necessari a far sì che quella storia diventi sua. Si chiama «rispetto del lettore», questo atteggiamento, e da questo punto di vista, in qualche modo, Le Guin osserva alla lettera la tradizione, rovesciandola poi come un calzino.

Il rispetto del lettore è uno dei marchi di nascita della narrativa di genere. Perché la narrativa di genere è fatta di codici condivisi, di un patto stipulato tra lo scrittore e il suo pubblico. Ora, in qualunque patto, occorre che ciascuna delle parti in causa dia il suo contributo. Perciò la pluralità di lettori cui si rivolge Le Guin è un’entità attiva, che ha libertà assoluta di assumersi la responsabilità di attribuire significati plurimi, diversi e molteplici, alla storia che legge. Certo, la storia deve essere complessa abbastanza da consentire una molteplicità di interpretazioni. Dev’essere ricca di immaginazione, perché i lettori di Le Guin non sono melanzane.

Così, Le Guin se n’è andata, e ha lasciato in giro una voce. Qualcuno dirà che ha saputo predire il futuro, che è un’affermazione che piace tantissimo a chi non si occupa di fantascienza. Ci si confonde non poco, quando non si conosce il genere, e si tende a equiparare l’uso dell’immaginazione alla predizione attraverso i tarocchi, i fondi di tè, i bastoncini e la lettura delle viscere degli animali morti. Sono tutti scenari molto intriganti, ma nessuno di questi si adatta al genere di narrazione che Le Guin ha in mente. Su questo, nelle riflessioni teoriche di cui non è mai stata avara, Le Guin torna spesso. Nell’introduzione del 1976 a La mando sinistra delle tenebre, Le Guin liquida la pretesa che gli scrittori di fantascienza predicano il futuro: «Predire è compito dei profeti, chiaroveggenti e futurologi. Non è compito dei romanzieri. Il compito dei romanzieri è dire menzogne».

All’apparenza un auto da fé professionale, la frase va messa in un contesto. Essa non è – né è mai stata – un modo per liquidare ogni forma di impegno e scegliere un regno immaginario in cui non ci son regole e tutto può essere detto e scritto. Dai tardi anni Sessanta a oggi, la signora della fantascienza non ha mai smesso di raccontare di cose che ci riguardano ancora ora: i rapporti tra uomo e donna (La mano sinistra delle tenebre); i limiti ambigui dell’utopia sociale (I reietti dell’altro pianeta), le tematiche ecologiche (Il mondo della foresta), il rapporto con la morte (il ciclo di Earthsea), la complessità dell’amicizia, la relazione con l’Altro, l’importanza dei draghi, che cosa vuol dire crescere e perché non dobbiamo aver paura della nostra ombra. Sono questioni importanti e infintamente complicate. A forza di affrontarle, Le Guin ha aggiustato un poco il tiro, ha chiarito l’affermazione che aveva fatto a proposito dell’attitudine degli scrittori a dir menzogne.

Foto di William Anthony

Non più di qualche mese fa, rispondendo a un commento secondo cui le affermazioni di un politico sarebbero state paragonabili alle invenzioni della fantascienza, Le Guin replicava, con la consueta lucidità, che vi è una differenza profonda tra quello che fanno gli scrittori e quello che promettono di fare i politici. Noi scrittori, afferma Le Guin, inventiamo cose. Però queste cose non sono bugie. Una bugia è un non-fatto che viene deliberatamente raccontato come un fatto, per rassicurare, raggirare, convincere, mistificare qualcun altro. Noi scrittori inventiamo. Con la protervia degli esseri umani (non degli uomini o delle donne, ma degli esseri umani) inventiamo mondi, che potrebbero essere veri, e che non lo sono, ma nella loro logica interna ci riferiscono qualcosa del genere di civiltà (o inciviltà che stiamo costruendo).  

E ancora: Le Guin se n’è andata e ha lasciato in giro una voce. La cosa più spiazzante in questa voce è che è rotonda e completa, come quella della persona cui apparteneva. Non ho mai conosciuto Le Guin, se non come scrittrice, e tuttavia mi sembra di averla per amica. Accade nei rari casi in cui lo scrittore coincide con l’essere umano, e gli si drappeggia addosso, articolandone le caratteristiche. Così posso dire che ho incontrato Le Guin quando avevo vent’anni, imbrigliata in una tesi di laurea che non sapevo proprio da che parte affrontare e immersa in un’esperienza americana durata troppo poco ma infinitamente bella. Le Guin, allora, era una compagna di viaggio, un timone, nella scoperta parallela della lettura e della scrittura di fantascienza. Anche quando io stessa, tornata in Italia, mi vergognavo di attribuire ai miei studi e alle mie letture, in un contesto in cui il concetto di «genere» equivaleva a un difetto letterario, un’aporia, una forma di incompetenza, lei è rimasta una tessitura di sottofondo, e le sue parole sono ancora il serbatoio dove vado a cercare il nome delle cose, per farmi mago come il Ged di Earthsea e imparare ad affrontare l’ombra che ciascuno di noi porta con sé.

Quindi, Le Guin se n’è andata e ha lasciato in giro una voce. Mi piacerebbe che molte scrittrici la raccogliessero, questa voce, anche qui in Italia, e la trasformassero in altre storie. Perché io credo che sia così che impariamo a vivere: entrando nei mondi immaginari ma straordinariamente veri che i grandi scrittori hanno saputo creare.

Perciò, ecco, io continuo ad ascoltarla, la voce che Le Guin ha lasciato in giro. E auguro a chiunque di riuscire a sentirla: è un privilegio, credetemi.  

Ursula K. Le Guin è tra le autrici raccolte in Le visionarie, l’antologia di fantascienza e fantasy femminista in uscita il 14 febbraio per la collana Not di NERO.