Wim Delvoye, Cloaca Faeces

Storia della merda

Perché scarti ed escrementi ci repellono? E qual è il loro potenziale sovversivo? Intervista a Florian Werner, che alla merda ha dedicato un saggio intero

La prima cosa che ho pensato leggendo un saggio come Dunkle Materie («La materia oscura») del tedesco Florian Werner è stata: che bomba! È raro che l’intellighenzia – specie quella accademica – diriga le proprie attenzioni inibite verso un argomento come la merda, e purtroppo si contano sulle dita di una mano gli autori che, come Florian, hanno avuto il coraggio di mettere il proprio acume analitico e spirito critico al servizio di un tema così profano e disgustoso. La seconda cosa che ho pensato è come scatologico ed escatologico potevano finalmente collidere; ho passato tutta la vita a leggere, discutere e ridere su escrementi, flatulenze e scarti: un’intervista a Florian è quindi l’occasione per dare un senso a questa apprendimento socialmente non veicolato, a questa passione quasi-istintuale. E questo senza parlare della cacca d’unicorno, chiaro.

Vorrei partire in medias res, senza troppi fronzoli e affrontando questo argomento da una prospettiva, diciamo, inaspettata. In Dunkle Materie scrivi che negli ultimi anni si è assistito a un incremento del piacere nella trasgressione escrementale in letteratura: ecco, vorrei saperne di più! Da quando questo tema ha iniziato a sedurre la mente degli scrittori, e perché le feci sono diventate un tema così intrigante?
L’urina e le feci hanno incuriosito i letterati per millenni. Troviamo dell’umorismo scatologico già nei drammi satireschi della Grecia antica, ad esempio in Eschilo. Nella letteratura medievale c’è parecchia trasgressione escrementale, decisamente pungente: leggendo Gargantua e Pantagruel di François Rabelais si può godere di una lunga ed erudita discussione tra Grandgousier e Gargantua sul modo migliore per pulirsi il deretano. Mentre il ​​primo dramma secolare in lingua tedesca, il Neidhartspiel del XIV secolo, ha come punto focale uno stronzo nascosto sotto un cappello. Detto questo, sono convinto che oggi stiamo assistendo a una rinascita della trasgressione escrementale. Una delle principali differenze rispetto al passato è certamente che mentre la scatologia fa da sempre parte della cultura popolare, della cultura carnevalesca, della satira e della commedia – della cosiddetta «cultura bassa», per intenderci – adesso ha fatto il salto di qualità: è entrata nel mainstream letterario. C’è molta scatologia nei best-seller di Jonathan Franzen, ad esempio: in Le correzioni il personaggio di Alfred ha un lungo, traumatico, allucinato dibattito con la sua stessa cacca, mentre in Libertà il marito ingoia la fede nuziale e gli tocca andare a scavare nella tazza del cesso. Un altro esempio è il saggio del celebre filosofo Harry G. Frankfurt sulla discutibile arte di «dire cagate»: Stronzate. Un saggio filosofico. Quindi, sì: direi che la merda sembra essere tornata in voga!

E come lo spieghi questo «rinascimento escrementale» che stiamo vivendo?
Qualcuno potrebbe ipotizzare che sia il risultato di una «liberazione escrementale»: la conseguenza della scomparsa – o almeno della diminuzione – dei tabù riguardanti le nostre funzioni corporee iniziata a partire dagli anni Sessanta. Tuttavia io sono convinto sia vero il contrario: siamo probabilmente la generazione più ossessionata dall’igiene di tutta la storia mondiale. Anche il più labile sentore della defecazione deve essere immediatamente mascherato e, se possibile, anche il suono dell’escrezione deve essere eliminato (nella cultura giapponese, hanno persino una macchina per questo: la Otohime, «la principessa del rumore»). Ovviamente, la trasgressione escrementale dipende da rigide norme igieniche, perché senza pulizia non può esistere lo sporco; come ha sostenuto l’antropologa Mary Douglas: la sporcizia è «materia fuori posto». Quindi direi che oggi le feci godono di tante attenzioni proprio perché sono un tabù come mai lo sono state nella storia dell’uomo.

Questo discorso però potrebbe facilmente essere applicato al tuo lavoro, no? Cosa ti ha portato a scrivere un intero libro su un tema così particolare?
Diciamo intanto che con un soggetto universale e umano come questo, è difficile separare il lavoro dalla vita, il pubblico dal privato. L’idea del libro mi è venuta dopo la nascita della mia primogenita; ero appena diventato padre e mi confrontavo con la sua cacca circa sei volte al giorno, cambiando i pannolini della mia bellissima bambina. Sono rimasto affascinato dalla varietà di colori e consistenze, da come gli escrementi cambiano quando il bambino cresce e la sua dieta cambia: subito dopo la nascita, il bambino espelle quella sostanza strana e mitica, il meconio, nero come catrame e chiamato in tedesco Heidendreck, «le feci del pagano» (perché prodotto da un corpo non ancora battezzato). Poi gli escrementi diventano gialli, per un po’ perché si beve solo latte; con il passare del tempo invece assumono un colore più scuro e un odore più intenso: «interessante», come direbbe il Spock. Ero anche incuriosito dal fatto che mia figlia, come tutti i bambini, non sembrava essere disgustata dai propri escrementi: al contrario, sembrava esserne affascinata, cercava di annusarli e, be’, di mangiarli. Per lei era perfettamente normale e naturale, mentre un simile comportamento sarebbe stato considerato perverso e disgustoso dalla maggior parte degli adulti sani. E continuavo a chiedermi perché una sostanza così ordinaria riesce a suscitare sentimenti e reazioni così forti: disgusto, risate, offese e così via.

Hai goduto della stessa trasgressione escrementale degli scrittori contemporanei di cui si parlava prima?
Suppongo di aver provato un certo piacere perverso nel dedicare un intero apparato teorico su un argomento considerato profano e senza valore dalla maggior parte delle persone. All’epoca mi sembrava un antidoto perfetto all’accademismo: se riesci a scrivere 250 pagine ad alto contenuto intellettuale sulla merda (e le fai pubblicare da una rinomata casa editrice tedesca), allora puoi scrivere di qualsiasi cosa.

Passando dalla letteratura al cinema, il celebre critico Richard Schickel ha descritto il famigerato coro di scoregge orchestrato da Mel Brooks in Mezzogiorno e mezzo di fuoco come «il punto culminante della breve storia della scatologia cinematografica». È ancora vero o da allora ci si è spinti oltre?
Quello è sicuramente un acuto. La scena per me è un esempio perfetto di sillogismo aristotelico. Premessa A: i cowboy mangiano un sacco di fagioli. Premessa B: mangiare molti fagioli provoca flatulenza. Conclusione: i cowboy soffrono di flatulenza. Mel Brooks fu il primo artista a postulare questo punto perfettamente logico e valido. «Vuole un po’ di fagioli, Mr. Taggart?» «Perché vi manca un trombone all’orchestra?». Mezzogiorno e mezzo di fuoco però è un film del 1974: nel frattempo, la storia della scatologia cinematografica è diventata tutt’altro che «breve». Pensa a film come Borat, dove Sacha Baron Cohen porta a una cena una busta di plastica con le sue feci e sostiene sia una vecchia tradizione di Kasach. Pensa all’iconica scena delle fogne di Trainspotting, dove Ewan McGregor per colpa dell’oppio si immerge nel «peggior bagno della Scozia». Pensa a Mr. Hanky, lo stronzo parlante che visita i bambini di South Park durante le vacanze natalizie. La scena del falò di Mel Brooks è grandiosa, ma è ormai scialba per gli standard odierni.

Oltre al rinascimento escrementale odierno, nel libro riconosci alle feci anche un ruolo fondativo per la nostra autocomprensione di essere umani. Che dichiarazione audace! Com’è possibile che un elemento di scarto così ripugnante ricopra tanto valore nella costituzione del soggetto moderno?
Per prima cosa, la cultura umana è letteralmente «costruita sulla merda»: le nostre città, esempio paradigmatico della civiltà moderna, sono appollaiate sopra giganteschi sistemi fognari. Ma ancora più importante (e in senso figurato) gli escrementi funzionano come una sorta di negativo, un opposto rispetto al quale possiamo definirci umani. Senza ombra non può esserci luce, senza sporcizia non c’è pulizia. La nostra definizione di civiltà è intrecciata con la scomparsa degli escrementi: il grado della loro (in)visibilità indica la posizione di un paese su una scala di sviluppo sociale. Abbiamo bisogno di un opposto rozzo per poter pensare a noi stessi come esseri civili. Abbiamo bisogno della merda per farla franca e affermare la nostra raffinatezza. Per queste ragioni le feci sono indispensabili per la nostra autocomprensione come uomini e donne moderni.

Però dobbiamo stare attenti a non generalizzare anche ad altre culture la paranoia tutta occidentale per la pulizia e l’ordine. Studi storici e antropologici come Scatalogic Rites of All Nations di John Gregory Bourke ci insegnano come, fuori dall’Occidente, altre cornici di senso sono state adoperate per rapportarsi con gli escrementi.
Sono d’accordo: le generalizzazioni sono sempre problematiche, specialmente quando si parla di «universali» come la merda. Ammetto senza problemi che il mio libro è scritto da una certa prospettiva: quella di un maschio eterosessuale bianco con una laurea in letteratura americana, ottenuta in un’università dell’Europa occidentale. Una prospettiva del genere ha necessariamente i suoi punti ciechi, certi a priori (come li avrebbe chiamati Niklas Luhmann), cose che diamo per scontate. E il libro di John Gregory Bourke che citi, pubblicato nel 1891, è un esempio calzante: Bourke era un capitano dell’esercito americano di professione e un antropologo per hobby, e il suo principale campo di competenza erano le tribù native americane del sud-ovest americano. Il suo Rituali scatalogici di tutte (!!!) le nazioni è stato compilato in pochi anni attraverso la conoscenza diretta dei riti escrementali solo di alcune tribù native americane, mentre molte altre informazioni presenti nel libro sono basate sul sentito dire o su scritti di altri autori. Per quanto possa essere affascinante leggere questo libro, difficilmente può essere considerata una fonte attendibile (soprattutto quando assume un approccio paternalistico, come quando parla di presunti riti tibetani con le feci del Dalai Lama). Tutto ciò per dire che esistono certi atteggiamenti nei confronti degli escrementi che sono sia sovra-culturali sia storicamente abbastanza stabili. L’esempio più comune è il tabù sul consumo di feci umane.

La coprofagia in effetti sembra segnare un confine apparentemente invalicabile tra bestialità e umanità: mentre nel mondo animale è una pratica comune, nel nostro mondo culturale solo gli schizofrenici sono (o dovrebbero essere) fissati con le feci. Ma se a questo aggiungiamo che uno degli effetti più inquietanti della cultura occidentale è l’antropizzazione della natura – da Walt Disney ai nostri animali domestici – mi viene da pensare che ci stiamo lentamente divorando tutto attraverso un processo di civilizzazione interspecie. Mi chiedo se nella tua ricerca hai trovato qualche caso opposto: dei tentativi di «bestializzarci» e liberarci dalla nostra presunta umanità attraverso gli escrementi…
Come tutti i tabù, la coprofagia deve essere appresa: ricordavo prima che i bambini piccoli non provano un disgusto «naturale» verso le loro feci, e la stessa cosa vale per i cosiddetti «bambini selvaggi» come il ragazzo selvatico dell’Aveyron (cresciuto nella foresta, senza genitori, fino a quando aveva circa dieci anni) che presumibilmente non ha mai imparato quel tabù. In più la coprofagia, come la maggior parte dei tabù, non può (e probabilmente non deve) essere ignorato. Durante i miei studi ho incontrato una signora che beve regolarmente la sua urina perché dice essere benefica per la salute, ma non ho mai incontrato un coprofago. Piuttosto, costringere qualcuno a mangiare degli escrementi (in senso figurato o per davvero) è uno dei tentativi più gravi di disumanizzazione, al pari di costringere qualcuno a mangiare un cadavere umano. Durante la Guerra dei Trent’anni, l’alimentazione forzata dello sterco di vacca era uno dei metodi preferiti di tortura. Nel film di Pier Paolo Pasolini Salò o le 120 giornate di Sodoma, i membri del regime fascista di Salò fanno mangiare ai loro schiavi sessuali degli escrementi umani. La sezione del film è giustamente intitolata Girone della Merda.

A proposito di Italia, quest’anno c’è stata un’inaspettata riscoperta di uno dei pensatori più radicali del nostro recente passato: Mario Mieli. Dinamite frocia, santa post-umana che sovverte la rivoluzione freudo-marxista superando l’eterosessimo di Reich e Marcuse. La coprofagia, per lui, è la piattaforma da cui partire per attaccare la morale borghese e abbracciare l’anarchia delle pulsioni libidinali: mangiare la merda rappresenta, da un lato, rivendicare il piacere anale e, dall’altro, rifiutare la feticizzazione della merda (qualcosa simile alla feticizzazione della merce di marxiana memoria) dell’ideologia capitalista. Ci sono altri pensatori che si sono spinti a tanto? Che insomma hanno costruito su una pila di merda una contestazione senza tregua alla rispettabilità borghese?
Se parliamo di coprofagia vs. borghesia, il modello di riferimento è senza dubbio il Marchese de Sade, che guardacaso scrisse il libro a cui si ispirò Pasolini. Nel suo Le 120 giorni di Sodoma i cosiddetti libertini godono in maniera assoluta nel nutrirsi di escrementi – un atto estremo di edonismo antisociale, di rivolta contro la Chiesa, la società borghese, in parole povere contro l’etica in quanto tale. Ma ovviamente questo è un tipo di trasgressione che ha avuto luogo solo su carta…  Un attacco un po’ meno radicale, ma comunque molto all’avanguardia contro il feticismo escrementale dell’ideologia capitalista, è il lavoro dell’artista italiano Piero Manzoni: Merda d’artista. Nel 1961 riempì novanta lattine con le sue feci, 30 grammi per barattolo, etichettate, numerate e firmate per essere vendute alla valutazione allora corrente dell’oro. Ormai valgono circa 30000 euro al pezzo: mille euro a grammo di merda! Ovviamente, il gebrauchswert (valore d’uso) di questo lavoro è zero, ma il suo tauschwert (valore di scambio) è esorbitante. Sono convinto che con questo semplice gesto Manzoni abbia messo in discussione l’idea di un’economia di mercato basata sul valore di scambio: tutto ruota, diciamo, attorno a un mucchio di cagate.

Sempre a proposito di «trasgressione e feci», nel libro non ti limiti a rendere chiara la polisemia della merda, ma mostri anche la sua multifunzionalità: gli escrementi possono perfino diventare uno strumento di lotta. Pensa che per anni sono stato convinto che il rivoluzionario irlandese Michael Collins insegnasse al suo esercito come creare un’arma da «a sort of turd» (una specie di stronzo) e non «a sod of turf» (una zolla di torba)!
Be’ dopotutto le due sostanze possono davvero essere facilmente confuse! Sono entrambi marroni e maleodoranti, sono entrambi dei buoni fertilizzanti e sono adoperati come sostituto del carbone… e come un’arma, a quanto sembra. Le feci sono state a lungo l’arma preferita dei soppressi, di coloro che come gli irlandesi di Michael Collins non avevano altre armi a loro disposizione. Il caso più famoso di queste «rivolte escrementali» è probabilmente la cosiddetta dirty protest attuata nel 1978 dai detenuti della Maze Prison in Irlanda del Nord. Oltre trecento prigionieri politici, la maggior parte dei quali membri dell’IRA, si rifiutarono di lavarsi e di svuotare i loro vasi da notte e cominciarono a spalmare i loro escrementi sulle pareti delle celle, rendendo insopportabile la situazione nella prigione non solo a loro, ma anche alle guardie carcerarie. Per riassumere: sapevano di essere trattati in modo disumano e quindi agirono di conseguenza; eliminando gli standard di base della civiltà hanno smesso di comportarsi come esseri umani. «Difficilmente si lascerebbe vivere un animale in tali condizioni, per non parlare di un essere umano» affermò l’arcivescovo Tomás Ó Fiaich dopo aver incontrato i detenuti, «il fetore e la sporcizia in alcune delle celle era quasi insopportabile, con i resti di cibo avariato ed escrementi umani cosparsi sulle pareti». Quindi sì, uno stronzo può essere un’arma, ma in molti casi è davvero l’ultima risorsa .

Allo stesso tempo però non possiamo dimenticarci del ruolo assunto storicamente dalla satira scatologica e dal toilet humor, un altro esempio dell’intrinseca insubordinazione che caratterizza la merda. Anche se oggigiorno non è più di moda, un tempo era considerato sovversivo e pertanto censurato.
Hai ragione, la scatologia è probabilmente la forma più antica di satira. Il «carnevalesco», come lo chiamava notoriamente Mikhail Bakthin, è una sovversione giocosa (e temporanea), una derisione delle autorità inseparabilmente intrecciata con l’umorismo escrementale. La merda è una cosa divertente, disse Bakhtin, che trasforma le nostre paure in risate. Presumibilmente perché ci ricorda che coloro che detengono il potere, religiosi o laici, alla fine della giornata sono semplici mortali come noi, con un corpo che defeca, urina, invecchia e alla fine muore. Naturalmente sono innumerevoli gli esempi in tal senso: uno dei più famosi è la prima parola pronunciata in uno dei più importanti drammi della storia del teatro moderno: quel «Merdre!» pronunciato dal Re Ubu, l’osceno proto-Trump ideato circa 120 anni fa dal genio francese Alfred Jarry. Quel «merdra» causò un grande scandalo, difficile da credere al giorno d’oggi: adesso parole del genere (e l’arte abietta in generale) sono onnipresenti nei teatri, nei musei, nei film, nelle opere letterarie, per non parlare dei cosiddetti social media. Ci troviamo di fronte a un fenomeno un po’ paradossale: a partire dagli anni Sessanta la nostra tolleranza per le rappresentazioni artistiche delle feci è aumentata in modo incommensurabile, mentre allo stesso tempo la nostra sopportazione per «la cosa in sé» è diminuita. Non so quale sia la lezione da imparare in merito, se non che la sfera dell’arte e della non-arte a volte si muovono secondo il loro ritmo, senza alcuna connessione causale apparente.

Però come hai detto prima, le feci sono state anche un dispositivo per sottomettere e annichilire. Non credo sia un caso che tutte e tre le dittature fasciste della seconda guerra mondiale – la Germania con il suo gigantesco mercato del porno scat e la Flachspüler toilet, l’Italia degli intellettuali disobbedienti dal calibro di Parinetto, Pasolini e Mieli, e il Giappone dalla cultura visuale intrisa di merda, da Arale a Getting Any di Takeshi Kitano – abbiano un rapporto piuttosto ambiguo con gli escrementi.
Se non sbaglio è stato il folklorista americano Alan Dundes che nel suo libro Life is Like a Chicken Coop Ladder: A Portrait of German Culture Through Folklore a stabilire il cliché secondo cui i tedeschi hanno una fissazione erotico-anale e, oltretutto, che il loro desiderio patologico per la pulizia abbia condotto direttamente alla Shoah. Sono convinto che la situazione sia ben più complessa e sono molto critico rispetto alle rappresentazioni semplicistiche ed omogeneizzanti delle culture nazionali, pertanto non credo ci sia alcuna connessione causale tra avere «un rapporto piuttosto ambiguo con gli escrementi» e le tendenze fasciste. Tuttavia è anche vero che le feci non sono solo l’arma degli impotenti e di chi non ha diritti, ma possono anche essere il dispositivo di chi detiene il potere. Il Salò di Pasolini è un esempio calzante, anche se si tratta di un’opera di finzione. Ma sappiamo anche che durante la seconda guerra mondiale gli ufficiali nei campi di concentramento tedeschi hanno messo in atto quello che lo scrittore e studioso dell’Olocausto Terrence Des Pres ha definito un «assalto escrementale» contro i prigionieri: li hanno fatti mangiare in piatti gettati nelle latrine, li hanno costretti a defecarsi addosso perché c’era il rischio di essere uccisi se si recavano ai gabinetti. L’obiettivo di questo assalto escrementale, a quanto pare, era duplice: da un lato serviva per indebolire e piegare la volontà dei prigionieri, dall’altro a eliminare l’innata inibizione a uccidere delle guardie. Meno apparivano umani i prigionieri, tanto più era facile per le guardie trattarli in modo disumano. Quindi sì, dobbiamo stare attenti a non «romanticizzare» le feci come una specie di arma carnevalesca nelle mani di chi non ha potere.

La tua osservazione finale è una perfetta introduzione al concetto di politics of shit elaborato da Arjun Appadurai. L’antropologo di origini indiane ha mostrato come gli escrementi umani possono essere anche una questione di riconoscimento sociale per i residenti delle baraccopoli del Global South perché «quando un funzionario della Banca Mondiale esamina le virtù di un bagno pubblico e discute i meriti di questa forma di gestione delle feci con i defecatori stessi, la condizione di povertà passa dall’abiezione alla soggettivazione». Credo che questo sia un punto rilevante da aggiungere alla nostra discussione: a causa della sistematica violenza strutturale del colonialismo, persino la merda ha acquisito un valore positivo! Non trovi?
A un livello astratto sì… Ma a livello letterale gli escrementi sono un grave problema medico nell’India moderna, specialmente negli slum di megalopoli come Mumbai. «La distanza dalle tue stesse feci è un indicatore virtuale della distinzione di classe» ha scritto Appadurai. L’episodio che descrivi sopra si riferisce alle cosiddette «feste della toilette» (sandas mela) messe in scena dalla Mumbai Alliance, un gruppo di cittadini che vuole richiamare l’attenzione sulla difficile situazione dei poveri urbani, per spostarli dalla posizione precaria e liminale di abietti (come insegna Julia Kristeva) a quella di soggetti politici, autonomi e parlanti. Uno di questi eventi si è svolto nel 2001 a New York, quando i membri della Mumbai Alliance hanno eretto una toilette per bambini nella hall del quartier generale delle Nazioni Unite. Apparentemente Kofi Annan fu colpito. Ma di nuovo: questo era solo un modello, costruito non per essere utilizzato dai poveri abitanti delle baraccopoli di Mumbai (e neanche i membri delle Nazioni Unite). Quindi sì, i cessi  possono acquisire un valore positivo, ma solo quando sono sufficientemente puliti e geograficamente distanti dal loro fetore reale e quotidiano.

The Shape of Shit to Come: in questo sogno lucido neoliberale che è la nostra contemporaneità fatta di big data, superfici patinate e empowerment, qual è il ruolo per qualcosa di così materiale, imperfetto e senza valore come la merda?
Sono convinto che più il capitalismo diventa forte, più aumenterà anche il potere delle feci, per almeno tre distinte ragioni. In primo luogo, in un mondo orientato alla massima efficienza e al funzionamento costante, la merda è una specie di «ultima frontiera» (Marx direbbe un Naturhindernis), una sostanza apparentemente senza valore che resiste alla sua incorporazione nel mondo dell’economia di mercato. Ogni essere umano trascorre circa un anno della sua vita compiendo un’attività che non ha alcun esito commerciale. La merda è una sostanza bitorzoluta che inceppa il motore della macchina economica capitalista. La sua presenza mette in discussione l’immagine dell’homo oeconomicus come soggetto razionale e orientato al profitto. In secondo luogo, la merda rappresenta una sorta di materia autentica che è diventata sempre più rara nella società virtuale postmoderna. Le cacche dei cani sui marciapiedi o le «strisce» nei bagni pubblici non possono semplicemente essere cancellate, copiate e incollate su un altro schermo con un click. Potrà anche disgustarci, ma è reale. La famosa scena di Pink Flamingos di John Waters in cui Divine mangia una fumante cacca di cane, fa molto più effetto nello spettatore di qualsiasi scena animata computerizzata dei DreamWorks Studios.

Si potrebbe sostenere che più siamo circondati da simulacri, più apprezziamo la materialità di questa sostanza: oggi la merda rappresenta un orgoglioso baluardo di autenticità. E infine, nell’atmosfera nostalgica che caratterizza la contemporaneità, la merda potrebbe simboleggiare un desiderio romantico di sfuggire ai meccanismi di repressione del mondo occidentale. Quando il già citato Sacha Baron Cohen in Borat porta un sacchetto di plastica pieno di escrementi a una cena, ridiamo davvero del presunto giornalista kazako oppure ridiamo delle reazioni disgustate dei commensali, quegli americani ossessionati dall’igiene che, come diceva William Burroughs, «vorrebbero saltarsi dentro nello stomaco, digerire il cibo e spalare fuori la merda»? In un mondo di deodoranti da toilette, otohimes e salviettine umidificate sensibili, forse quello che desideriamo è un po’ più di sporcizia nelle nostre vite. Forse sentiamo nostalgia di quella fase innocente dell’infanzia quando non avevamo ancora dominato le nostre pulsioni anali e potevamo cagare quando e dove volevamo. Forse ci capita ancora di sognare il paradiso perduto della merda.

La prossima domanda è stata ispirata da un incubo che ho avuto preparando questa intervista, e si connette perfettamente al primo dei tre punti che hai appena elencato. Era una sorta guazzabuglio tra il bizzarro sistema di smaltimento dei rifiuti di Transmetropolitan, il grido di allarme di Paul Preciado sull’economizzazione della nostra potentia gaudenti (ovvero la nostra capacità di provare piacere) e quello del Comité Invisible sull’«esaurimento delle risorse soggettive, delle risorse vitali, che affligge i nostri contemporanei»: una distopia alla Matrix dove ogni forma vivente era sfruttata per la sua capacità di produrre escrementi e di godere dell’atto stesso di defecare. Tutto questo ha senso oppure la nostra potentia defecandi (diciamo così) non può essere cooptata perché, come hai scritto nel libro, «la merda ha sempre l’ultima parola»?
Sono felice che ad avere quell’incubo sia stato tu e non io! A dire la verità a metà del XIX secolo ci sono stati seri tentativi di costruire una distopia (o piuttosto un’utopia? Dipende dalla prospettiva) non tanto diversa da quella che hai sognato. Perfino nelle grandi città come Parigi, le feci umane non venivano semplicemente scaricate, ma raccolte e messe all’asta al miglior offerente. Victor Hugo ha scritto in Les Miserables un elogio molto poetico sulle proprietà fertilizzanti delle feci. Poi, verso la fine del secolo, prevalsero vergogna e disgusto: invece di essere retribuiti per il loro lavoro intestinale, i cittadini iniziarono a pagare perché le loro feci fossero rimosse, e il vecchio connubio simbolico tra merda e oro fu defenitivamente interrotto. Gli escrementi si tramutarono in qualcosa di inutile, diventarono «una cagata». Questo probabilmente è l’unico esempio nella storia dell’umanità in cui qualcosa di commercializzabile è rimosso dal mercato perché ritenuto schifoso e osceno… Quindi sì, direi che anche in questo caso «shit has the last dirty word». Quod erat demonstrandum.

Non fa una piega, ma mi sembra che ormai ci si sia dimenticati del senso di disgusto e perfino le feci sono diventate facilmente commerciabili. Come hai detto, siamo sopraffatti da simulacri e in particolare da merdulacri: dizionari delle scorregge, siti per votare le cagate più spettacolari, Mr Methane, il performer flautulisti che commercializza la propria arte attraverso app per lo smartphone e live fart show, deliziosi libri illustrati per bambini sulle feci; addirittura, la popò di Unicorno è stata la tendenza del 2017. Come spieghi questa commercializzazione escrementale? Magari dipende dal ricordo di quello che hai chiamato «paradiso perduto della merda»?
Be’, nel tardo capitalismo tutto è diventato facilmente commerciabile, quindi non dovremmo essere tanto sorpresi che le feci non facciano eccezione. Soprattutto perché la merda è il paradigma della nostra società dei consumi: ci vuole un sacco di energia per produrla, è usata solamente una volta, appena prodotta è immediatamente buttata via per essere sostituita dopo poche ore da un nuovo (ma praticamente identico) oggetto. Mi chiedo: esiste un simbolo migliore per rappresentare il consumismo capitalista?