Rave Illegali a Roma, 1993-1996
Pubblichiamo un estratto dal libro Rave In Italy, a cura di Pablito el Drito, da poco uscito per Agenzia X. Ringraziamo l’editore e Anna Bolena, autrice del seguente intervento, per la disponibilità.
Sono sempre stata appassionata di musica. Mia madre suonava il pianoforte e insegnava musica nelle scuole primarie. Sono cresciuta in una casa in cui c’erano dischi sia di classica sia di altri generi. Alla fine degli anni ottanta, venendo dalla scena post-punk, avevo un’idiosincrasia nei confronti della musica elettronica da ballo che consideravo di cattivo gusto e superficiale. Era un mio pregiudizio, una chiusura mentale che negli anni ho superato. Anche perché un genere musicale va studiato, approfondito, vissuto e compreso.
Quando mi sono ritrovata a Roma nella scena di movimento, il suono che girava era punk o rap. Era musica di protesta, una colonna sonora con precise parole d’ordine e contenuti politici che caratterizzavano quel periodo. Nel 1990 ho partecipato al movimento studentesco della Pantera all’Università della Sapienza. Poi sono entrata in contatto con centri sociali, radio di movimento, comitati di quartiere, sedi politiche, ho militato nel circuito anarchico e fatto parte del collettivo Controcultura al Pigneto. In quel periodo i fascisti avevano iniziato a riaprire luoghi di aggregazione in diversi quartieri, non solo quelli storici di appartenenza. Era una situazione pericolosa, ci sono stati scontri anche fisici durante gli attacchinaggi notturni. L’elettronica era considerata dai compagni troppo commerciale, anche perché era ballata principalmente nel circuito delle discoteche. Quando noi abbiamo cominciato a suonare e a organizzare rave, la musica che mettevamo era quella che compravamo da Remix, un negozio romano che è stato fondamentale per diffondere techno/electro e musica sperimentale come l’Idm.
Il movimento dei rave illegali è iniziato nel 1993-94 grazie a un gruppo di musicisti e compagni stanchi delle solite canzoni dentro i consueti luoghi di aggregazione sociale della sinistra extraparlamentare. Alcuni di noi componevano già musica da ballo e non solo con apparecchiature elettroniche. Suoni acidi, più in sintonia con il mood di queste prime feste che si svolgevano in periferia. La musica rappresentava solo uno degli aspetti del movimento anche se per me è diventato sempre più preponderante. All’inizio l’occupazione degli spazi periferici aveva un aspetto prettamente politico. Si andavano a prendere luoghi abbandonati lontani dalle solite organizzazioni, sia da quelle commerciali, sia dagli spazi occupati. Anche perché nei centri sociali c’erano delle restrizioni di tipo estetico, culturale, musicale. E anche dei pregiudizi. Io sono sempre stata una persona molto curiosa e aperta, che ama trasgredire. Mi ero resa conto che l’elettronica aveva una valenza culturale. Basta pensare alla tradizione inglese o a quella americana. Poi, ascoltando la scuola romana, mi sono definitivamente innamorata di quel suono.
Continuo a ritenere che il Suono di Roma sia quello che si continua a sentire anche nelle mie produzioni attuali. L’utilizzo della musica techno aveva una sua funzione: riportare un po’ di novità e creatività (come momento di rottura dal consueto suono «sociale») dentro il discorso dell’autogestione e del controllo del territorio all’interno delle situazioni politiche. La nostra aspirazione era quella di strappare al «muretto fascista» il ragazzo di periferia, indottrinato alla cultura dell’intolleranza e della violenza, che era attratto da questo tipo di musica. Ricordo che all’inizio del movimento dei rave illegali arrivava gente con i bomber con sopra cuciti gli scudetti dell’Italia, ragazzi e ragazze che appartenevano a questo tipo di comunità di borgata, cresciuta a techno e saluti romani. La nostra sfida è stata quella di presentare a questi ragazzi un’alternativa alla discoteca, mostrando direttamente sul campo come si organizza dal basso un party di elettronica.
Ero in contatto con alcuni musicisti e dj che stavano dentro il Forte Prenestino e al centro sociale Pirateria. Mi sono ritrovata a fare con loro un paio di feste nei centri sociali e qualcuna nell’hinterland. Nelle borgate est ho cominciato a ballare la techno e lì mi sono messa a studiare generi e sottogeneri: electro, trance, hardcore. La scena romana produceva techno sperimentale. Penso a Lory D e Leo Anibaldi. Poi c’era la scena detroitiana, legata al nome di Andrea Benedetti e Marco Passarani. Leo Anibaldi, giovanissimo, già lavorava a livello internazionale e produceva dischi. C’erano anche i gemelli D’Arcangelo che hanno influenzato il mio suono industriale. Tuttavia io amavo molto la scuola inglese Idm: Aphex Twin, Squarepusher… La trance, nonostante il grosso della produzione fosse stato nel 1992-93, andava ancora forte in città. Alcuni suonavano goa, di cui non sono mai stata una grande appassionata. La presenza variegata e variopinta della musica è un aspetto molto bello di quel periodo, che secondo me negli anni si è andato perdendo. Si è sempre più asciugato in categorie tipo techno e house. Addirittura c’è gente che ancora pensa che l’electro non faccia parte della techno!
Negli anni novanta ci interessava poco definire il genere, ci intrigava di più la dimensione alternativa della riappropriazione degli spazi e della produzione musicale. Che poi è un movimento parallelo di integrazione a quello che era l’eredità culturale e politica dei centri sociali. Era un’esigenza portare freschezza, quindi anche il fatto di usare la techno come veicolo per aggregare persone è stato un aspetto fondamentale. Questo avvenne dopo quella fase di rave commerciali. Io in discoteca ci sono andata a sentire la musica dark, a Roma frequentavo il Uonna. Quando ho incominciato a comprare dischi di elettronica mi sono appassionata a due generi: industrial e Idm. Ho comprato anche materiale più dancefloor, trance a 150-160 bpm e acid techno. L’acid techno è un genere che ogni tanto ritorna di moda: il bassline usato in maniera esagerata esiste da sempre e non morirà mai. La musica acid dal mio punto di vista è musica più facile. L’acid di Leo Anibaldi rimane anche un prototipo del genere, che però, a differenza di altri prototipi, mantiene sempre quell’eleganza e ricercatezza che solo Leo ha saputo esprimere.
Un cosa positiva della scena romana è stata che dopo i primi due anni di rave illegali, nel biennio 1995-96, è nata l’esperienza della Fintek che ha coinvolto tante persone. La Fintek è stato un rave illegale continuato, ogni party durava tre o quattro giorni a settimana. L’occupazione è andata avanti un paio d’anni. Alla Fintek per la prima volta si sono riusciti a portare artisti importanti come Panacea, che noi all’epoca adoravamo. La drum’n’bass che produceva è stata definita darkstep e ci ha appassionato subito. Quando è venuto a suonare per la prima volta in una delle salette eravamo solo una ventina di persone. Anzi, forse diciannove! Quando tornò al Forte Prenestino in compenso lo attesero le folle. Vero è che lì era già famoso.
Position Chrome è una delle etichette fondamentali del genere. Altre persone che hanno influenzato la mia conoscenza sono stati Christoph Fringeli della Praxis, Rachael Kozak della Zhark e Dan Hekate. Hanno portato una grande ventata di novità nella scena. La Praxis la conoscevo già, o meglio, conoscevo già le produzioni. Avere incontrato Christoph e soci della Praxis è stata una cosa fondamentale, perché poi abbiamo fatto anche tante belle cose insieme. Per me Praxis è tuttora una delle etichette più importanti. Il suono è molto radicale, va dalla breakcore passando per il noise fino all’hardcore, però con venature molto sperimentali, molto ricercate. Sono dischi che vanno calibrati. All’epoca li suonavamo parecchio perché eravamo rimasti in fissa! Li prediligevamo perché avendo come base la cassa spezzata li usavamo per contrastare la noia del 4/4 alla Spiral Tribe. Lo dico con tutto rispetto per loro, abbiamo pure organizzato cose insieme, ma il loro suono mi ha sempre appassionato poco. Mi attraeva tutto ciò che si contrapponeva alla ripetizione noiosa e lo suonavo. Si creò una contrapposizione tra chi suonava la cassa dritta e chi quella spezzata. Cosa che a me irritava pure, perché a me piaceva sia una cosa sia l’altra. Certo, tra un suono che abbraccia un consenso maggioritario e uno che ne abbraccia uno minoritario, io mi schiero con quest’ultimo.
Il periodo della Fintek è stato molto interessante e vivace e ha avuto anche un’importanza sociale. Il fatto di avere un posto fisso dove poter fare party è stato importante. Ha anche dettato delle regole e poi ha rappresentato quello che succede in tutti i movimenti. Non dico che si sia trattato di «imborghesimento», ma sicuramente un rendere la cosa forse un po’ più noiosa e meno ricca di sorprese. Le persone che arrivavano alla Fintek erano le stesse che venivano ai rave «mordi e fuggi» dei due anni precedenti, cui si sono poi aggiunte altre persone. Noi siamo arrivati a organizzare rave fino a seimila persone e la Fintek faceva più o meno gli stessi numeri. Però mentre negli illegali classici si organizzava il sabato e poi la domenica si andava via, con la Fintek si iniziava il venerdì, a volte persino il giovedì. C’era un afflusso di gente da tutto il mondo e non necessariamente tutti erano politicizzati. Dentro la fabbrica ci vivevano, con grosse difficoltà, molte persone. Il posto fu preso in origine da un gruppo di amici di Sasha, un dj inglese che era morto in India. Per ricordarlo gli amici fecero una prima festa nella fabbrica dismessa. Doveva essere un evento singolo, ma divenne un’occupazione stabile che portò al mescolamento di persone di vario genere, tra cui alcuni traveller legati alla scena (Spiral Tribe, Kamikaze e OQP) insieme a una serie di musicisti sia della scuola romana sia di quella internazionale.
Frequentavo la Fintek ogni fine settimana, avevo una sorta di residenza. Ci suonavo spesso. Appartenevo a un gruppo, quello della rivista «Peti Nudi». Stiamo parlando del 1997-98. La rivista è nata quando ci fu il grosso evento per Sasha e di conseguenza uscì il primo foglio che mi comparve come un’apparizione notturna. In questo primo scritto c’erano dei riferimenti sia a Sasha sia alla scena romana. Erano interventi provocatori, incorniciati in maniera irriverente dal grafico Matteo Swaitz. Noi di «Peti Nudi» abbiamo portato il dark nella scena. Per noi nelle feste c’era un approccio troppo colorato e fricchettone che non ci piaceva. Quindi abbiamo tematizzato i contenuti musicali e estetici, in modalità esoterica, in chiave «loggia massonica». Ma era un modo per divertirci, per prendersi in giro. Da lì «Peti Nudi» è uscito in varie edizioni, non tantissime. Non era facile farlo perché la maggior parte della fanzine la scrivevo io. C’era qualche altro sparuto intervento, ma principalmente erano testi miei, combinati con le foto di Stefania e la grafica di Matteo.
La nostra presenza alla Fintek ha portato ricchezza culturale. All’interno si era creata una socialità anche drammatica a volte. Alcuni sviluppavano atteggiamenti psicotici, perché si faceva una vita durissima. Qualcuno ha iniziato ad avere dei problemi sociali e comunitari che sono sfociati in litigi anche molto pesanti. Qualcuno è anche morto là dentro… Però penso che con la partecipazione di 5-6000 persone possono accadere dei drammi. In tutti i fenomeni giovanili qualche morto c’è sempre scappato… Non è facile mettere tutto in sicurezza.
Ci siamo improvvisati su molte cose, non solo in consolle. Si parlava molto di stati alterati di coscienza e le droghe giravano. C’era di tutto e di più, anche cocaina ed eroina. Il tabù su queste due sostanze era un detto, ma non un fatto. Non stupisce che molta gente sia finita nell’abuso, ma questo sarebbe superfluo raccontarlo. La Fintek divenne un grosso luogo di spaccio e perciò creava molti problemi. Le droghe arrivavano principalmente da fuori, anche se qualche laboratorio nella zona tra Roma e Napoli avrà dato certamente il suo contributo. Però quelle di qualità superiore venivano dall’Olanda, dall’India via Londra, qualcosa arrivava pure dalla Francia. In questo eravamo molto internazionali, non c’è che dire. Se un posto è fermo gli apparati della sicurezza e del controllo sociale sono più forti quindi ti rompono le scatole pesantemente, inoltre chi sta fermo soffre di un adagiamento. Qualcuno un po’ meno sveglio, in quel periodo di fragilità, ha subito una forte crisi… Le polemiche e le critiche sulla Fintek sono state tante, ma prima di arrivare alla scritta «Fintek rave di stato» nei pressi dell’entrata, io avevo pubblicato un pamphlet sul fatto che il rave illegale era morto. Per me era finito nel 1996.
Quando abbiamo iniziato ad avere un pubblico di 6000 persone non c’era più niente dello spirito dei primi illegali. Si raccoglievano tante persone che facevano già un utilizzo smodato di sostanze, dove anche l’elemento musicale iniziava a perdere la sua efficacia. C’è stata come una liberalizzazione di tante cose, ma che poi liberate non erano! Per esempio non si è mai discusso la questione del gender, l’aspetto della relazione tra uomini e donne. Per molto tempo sono stata l’unica dj donna all’interno del nostro gruppo. Adesso le cose stanno cambiando. Ma alla Fintek la parte organizzativa era quasi tutta maschile. Le donne, quando c’erano, davano una mano al bar o in altre funzioni. Io però ero quella che allestiva le consolle. Ho sempre avuto molto rispetto forse anche perché avevo un ruolo importante. Poi alcune altre ragazze hanno iniziato a suonare, ma dopo di me, però c’è stato un lungo periodo in cui ero l’unica donna a maneggiare dischi.
Dopo alcuni anni il rave è finalmente approdato al centro sociale e quindi siamo ritornati da dove eravamo partiti! All’inizio l’intellighenzia di movimento era contraria, i compagni più grandi erano molto scettici. Soprattutto quelli che venivano dagli anni settanta/ottanta. Non capivano questa cultura oppure intravedevano una china pericolosa. Secondo me erano dei conservatori che non avevano voglia di affrontare una generazione meno politicizzata della loro. Cosa che avrebbe richiesto un grosso sforzo. Questa sfida è stata promossa dalla mia generazione. Noi avevamo voglia di confrontarci con il nuovo. C’è anche un’altra questione che legava centri sociali e rave: le stesse droghe che giravano ai rave giravano nei centri sociali. È normale che ci fosse un collegamento tra le due scene. Perché se all’inizio c’erano tensioni con la vecchia guardia, i più giovani volevano fare parte del movimento rave. Alcuni dei dj venivano proprio dai centri sociali. Anche se io non ho mai fatto parte di nessun collettivo, c’è stato un tentativo di tirare dentro gente come me. Perché noi eravamo il nuovo che avanzava. Loro avevano bisogno di gente come noi per rivitalizzarsi. Ma per me il centro sociale era un ghetto.
Anche a Radio Onda Rossa, la radio del movimento romano, c’era chi era contro la cultura rave. Però c’è da dire che il primissimo movimento rave romano è stato caratterizzato dalla presenza anche radiofonica di Hard Raptus, che era una trasmissione techno. Altre radio erano pronte a seguire. Ma Radio Onda Rossa era la radio che stava nel territorio sociale e politico, con un collettivo che controllava le tematiche. All’inizio degli anni novanta su una radio commerciale c’era pure il Virus di Freddy K, una trasmissione che è stata fondamentale per sdoganare la techno. Però stiamo parlando di un circuito che era quello delle discoteche.
Nel 1999, quasi al volgere del nuovo millennio, ho fondato la mia etichetta Idroscalo Dischi, tuttora attiva. È stata la mia risposta alla fine del rave. Ho voluto spingere le mie energie organizzative verso la produzione musicale. Ho pensato che la musica dovesse essere la risposta a questo riflusso, al controllo sociale, alla caduta nell’abuso di sostanze. Una controffensiva all’approccio consumistico in chiave antiborghese. La musica mi ha salvata, da sempre: sono nata con la musica e continuo a farla.