Erik Musin, VIRGIL ABLOH™ - "JESUS OF DESIGN", 2017

“Question Virgil Abloh”

Black people dentro e fuori (e contro) i manifesti pubblicitari: il fenomeno Abloh e la sottile linea che separa critica alla pubblicità e brandizzazione dello stereotipo afroamericano

Negli anni trenta le sigarette al mentolo vengono presentate al mercato americano come un prodotto da consumare occasionalmente. Si punta sulle proprietà «terapeutiche» del derivato della menta piperita, capaci di alleviare la tosse e garantire sollievo alla gola, restando consapevoli che tali sigarette siano un prodotto di nicchia e dal consumo sporadico – «In between the others» si legge in un annuncio del marchio Kool. Nel 2011 però, un’indagine governativa rivela che il mercato del tabacco negli USA è occupato per il 30% dalle sigarette al mentolo e che queste ultime sono acquistate da un pubblico che solo per il 20% è caratterizzato da «non-Hispanic white smokers»: il restante 80% è occupato da ispanici e neri.

Una delle ragioni di tale dato è attribuibile, secondo uno studio condotto negli Stati Uniti già sul finire degli anni sessanta, alle politiche di espansione verso il mercato afroamericano da parte di alcuni marchi leader nel settore, Kool, Salem e Newport su tutti. Prodotte dalla multinazionale del tabacco Lorrillard, le sigarette Newport nel 1968 aumentano i propri investimenti pubblicitari dell’87% verso una direzione ben precisa, quella del pubblico nero che comincia a essere ritratto con sempre più costanza negli annunci sui billboard o sulla stampa periodica. La targettizzazione da parte di Newport si consolida negli anni settanta con il lancio della campagna «Alive with pleasure» – headline sostituito successivamente dal più sintetico «Newport Pleasure» – in cui coppie e comitive di «black people» vengono fotografate sorridenti in contesti più o meno ammiccanti o enigmatici.

Un annuncio pubblicitario Newport degli anni Settanta. Altri esempi qui.

L’uso di stereotipi della comunità afroamericana da parte delle multinazionali del tabacco e dell’alcool, così come l’invadenza dei billboard nello spazio pubblico a cavallo tra gli anni ottanta e novanta diventano alcuni dei punti contestati da un giovane newyorkese: Jorge Rodríguez-Gerada. Intervistato nel 1999 da Naomi Klein, Rodríguez-Gerada racconta di aver accolto le potenzialità del desktop publishing e di aver preso parte attivamente al movimento di Culture Jamming che proprio negli anni novanta muove una guerra serrata nei confronti della pubblicità e del modello economico da essa supportato. Sulle pagine del bestseller firmato dalla Klein, No logo, l’artista afferma: «La tecnologia ci permette di utilizzare l’estetica di Madison Avenue e di aizzarla contro se stessa.» I grandi manifesti pubblicitari diventano un luogo di dialogo tra le minoranze attive e l’opinione pubblica, attraverso atti di interferenza culturale e sabotaggio dei messaggi.

Rodríguez-Gerada nel 1994 interviene proprio su uno dei manifesti pubblicitari delle sigarette al mentolo Newport, trasformando l’espressione dei tre modelli ritratti da sorridente in sciupata, livida, emaciata e modificando lo slogan legato al «piacere», in «Rebel without a lung». Il messaggio è chiaro: i giovani rappresentati come ottimisti nelle pubblicità, nella realtà rischiano di finire «senza un polmone». L’atto di «subvertising» di Rodríguez-Gerada acquista un significato ancora più deciso se si considera che l’autore provenga dalla comunità ispanica, uno dei target preferenziali del marchio Newport in quegli anni.

New York 1994: il cartellone pubblicitario Newport sovvertito da Jorge Rodríguez-Gerada.

Il 29 novembre scorso, nella cornice dello Spazio Maiocchi – contenitore milanese rivolto all’arte contemporanea e condiviso da Kaleidoscope, Carhartt Wip e Plusdesign e Slam Jam – è stato affisso un manifesto pubblicitario Newport. Una coppia di afroamericani sorride indicando la scritta «Pleasure» sul parabrezza innevato della propria auto. Il billboard è un détournement realizzato dall’artista, designer, creative director, dj statunitense Virgil Abloh. L’opera affissa in occasione dell’evento collettivo Kaleidoscope Takeover – a cui hanno partecipato anche Camille Henrot, Eric N. Mack, Collier Schorr e Young Girl Reading Group – presenta un banner del 1995 parzialmente scollato, dietro il quale si intravede la frase virgolettata “Question everything”. La stesso slogan è ripetuto ossessivamente, stampato in grotesk nero su fondo bianco, sulle bandiere che accolgono i visitatori nel corridoio di ingresso allo spazio espositivo. «Metti in discussione tutto», quindi.

Virgil Abloh, “Stony Island”, Spazio Maiocchi, Milano 2018.

Non è la prima volta che Abloh mette al centro della propria ricerca artistica il linguaggio pubblicitario e i billboard in particolare. Lo scorso marzo, nell’ambito della mostra Pay per view presso la Kaikai Kiki Gallery di Tokyo, Abloh ha utilizzato le plance di affissione dei manifesti come superficie pittorica. Ricoprendo integralmente l’area dei billboard con colore a olio nero, Abloh ha dichiarato di voler omaggiare il Quadrato nero di Kazimir Malevič. Con la mostra Pay per view Abloh ha voluto soffermarsi sull’occupazione e brandizzazione dello spazio pubblico da parte della comunicazione commerciale e sui reali proprietari di queste superfici, ponendo a margine dei billboard neri, i loghi di compagnie di affissione come Outfront o JCDecaux.

Virgil Abloh, Pay per view, Kaikai Kiki Gallery, Tokyo 2018.

Per quanto la critica sollevata da Abloh venga rivolta a soggetti differenti da quelli contestati dai culture jammer a cui si è fatto riferimento, guardando le plance «nere» presentate a Tokyo vengono in mente le vicende legate al fenomeno del «billboard whitewashing» come segno di protesta. Come analizzato recentemente dall’indagine Of Mice & Mentol: Minorities and Smoking, condotta dal Center of the Study of Tobacco and Society dell’University of Alabama, negli stessi anni in cui agisce Rodríguez-Gerada, le minoranze etniche presenti negli Stati Uniti combattono radicalmente il massiccio targeting degli afroamericani da parte dell’industria del tabacco. La strategia però, non è quella di modificare il messaggio ma di occultarlo, censurandolo integralmente con la vernice bianca. Nel quartiere newyorkese di Harlem il Reverendo Calvin Butts, pastore della Chiesa Battista Abissina, con il contributo di alcuni fedeli ricopre di colore bianco i manifesti che pubblicizzano alcool e tabacco nel quartiere. Oltre a New York, anche nell’Illinois vede la nascita per mano del giornalista Henry McNeil “Mandrake” Brown Jr. – fondatore, tra le altre, della National Association of African Americans for Positive Imagery – di azioni di «imbiancamento» dei manifesti pubblicitari che promuovono tabacco e prodotti alcolici nella comunità afro-americana di Chicago.

Philadelphia, giugno 1994, Il Reverendo Resse Brown e Reginald Hart assieme ad altri attivisti anti-smoking davanti al cartellone pubblicitario delle sigarette Kool, strappato in segno di protesta contro l’uso della comunità nera all’interno delle campagne pubblicitarie pro-tabacco.

Abloh in più occasioni descrive la pubblicità come una superficie capace di proiettare il mondo reale, un’entità dotata di grande potere, una metafora di come le idee siano condivise nel contemporaneo, arrivando talvolta ad ammettere anche l’aggressività della stessa nello scenario vissuto dalla comunità afro-americana di Chicago. Non è un caso, insomma che un billboard delle sigarette Newport sia tornato a essere «sovvertito» da un cittadino nero.

Negli ultimi mesi la tematica della antipubblicità militante è riemersa ancora in tutta la sua attualità nel lungometraggio Sorry to Bother You. Se il tema del manifesto come spazio di dialogo era già tornato alla ribalta nel 2017 con Tre manifesti…, nel film diretto da Boots Riley, i billboard acquistano una valenza politica più ampia e di forte attualità. La pellicola racconta le vicende lavorative e private di un cittadino afroamericano fagocitato da un sistema che premia i neri solo nei casi in cui riescano ad atteggiarsi a bianchi e mimare la «white voice». Nel film, Tessa Thompson interpreta il ruolo di Detroit, compagna del protagonista, Lakeith Stanfield. La donna, attivista del gruppo radicale The Left Eye, contesta il turbo capitalismo dell’azienda WorryFree a partire dalla manomissione, con stencil e bombolette spray, dei manifesti pubblicitari della corporation.

Boots Riley, Sorry to bother you, USA 2018

La scorsa primavera l’arrivo di Abloh a capo della direzione artistica di Louis Vuitton uomo ha rappresentato un segnale importante, oltre che per la sua carriera, per l’intera comunità nera spesso emarginata all’interno del design della moda. Tuttavia, il boom del fenomeno Abloh, come spesso accade, rischia di distrarre il pubblico dai temi più o meno dichiarati nelle sue opere. È curioso che se da un lato Abloh appare molto affascinato e – talvolta – critico nei confronti del sistema pubblicitario, dall’altro egli stesso è consapevole di quanto il suo nome sia oramai diventato un brand talmente solido che la curatrice e scrittrice Kimberly Drew, raccontando il suo lavoro sul n. 33 di Kaleidoscope, afferma: «Abloh’s presence is ubiquitous and operates somewhat like a Google Ad: you click once and before you know it, his names seems to find you whenever you click next.»

Effettivamente l’interesse attorno al nome di Abloh sembra avere tutti i connotati di un’isteria collettiva da «next big thing» con cui la moda riesce costantemente a rinnovarsi. Se Abloh è paragonabile al sistema pubblicitario ed è possibile ricondurlo all’idea stessa di brand, si spera solo che questo fenomeno non finisca per oscurare la sua ricerca e ridurre il suo pensiero a un logo da desiderare ciecamente, al fine di evitare di diventare davvero soltanto una presenza ubiqua e martellante. Esattamente come potevano esserlo i manifesti delle sigarette al mentolo nei quartieri afroamericani statunitensi.

Tuttavia, al netto di questa possibile minaccia, la riflessione espressa da Drew nell’intervista pubblicata da Kaleidoscope, solleva altri interrogativi: come mai le riflessioni critiche mosse nei confronti della pubblicità ancora oggi scelgono i manifesti come capo d’accusa anziché concentrarsi sulla profilazione dei target, sulla vendita degli spazi e delle informazioni private online? Come mai tutta questa attenzione nei confronti dei billboard come spazio di dialogo mentre oggi gli utenti della Rete sono sempre più prevedibili e rintracciabili? La risposta, con ogni probabilità, può essere trovata proprio nella storia della pubblicità.

Howard Luck Gossage, How to look at billboards, Harper’s Magazine, febbraio 1960.

Uno dei pionieri della Creative Revolution statunitense, il pubblicitario Howard Luck Gossage, sulle pagine di Harper’s Magazine nel febbraio 1960, propone una consultazione popolare, un Billboard ballot. Nell’articolo How to look at billboards, con l’obiettivo di comprendere il parere della gente sull’occupazione dello scenario cittadino da parte dei billboard, Gossage affermava: «Outdoor advertising is peddling a commodity […] without the owner’s permission: your field of vision. […] A billboard has no other function, it is there for the sole and express purpose of trespassing on your field of vision. Nor is it possible for you to escape. […] The individual’s air space is intentionally violated by billboards every day of the year.»

Insomma, anche allora, mentre la TV diventava un oggetto imprescindibile nel paesaggio domestico e il manifesto viveva una delle sue più grosse battute d’arresto a causa di investimenti commerciali che venivano progressivamente spostati verso il formato audiovisivo, i pubblicitari per primi mettevano in discussione il proprio ruolo sentendosi responsabili della sovrapproduzione di messaggi commerciali nel contesto urbano ed extraurbano. Quanto a oggi, parafrasando Gossage, potremmo dire che, se la pubblicità sui giornali e in televisione l’hai pagata e a quella su internet hai acconsentito più o meno volontariamente, riguardo a quella per strada invece, non ti è mai stato chiesto alcun parere. Eppure sono proprio i manifesti a occupare ciò che c’è di più caro: il tuo campo visivo.

A dire il vero, oggi il manifesto come piattaforma di comunicazione vive un momento di riscoperta in svariati contesti e, a dispetto dell’espansione del marketing digitale, è ancora un formato di sperimentazione grafica e strategica premiato attraverso mostre, annual di settore e investimenti in primis da parte di grandi brand multinazionali. Absolut vodka, tra gli altri. Giusto in questi giorni, il marchio svedese, confermando l’attualità dell’affissione pubblicitaria, ha lanciato su scala mondiale, la Absolut Creative Competition, un contest per la produzione del prossimo poster Absolut. Promossa contemporaneamente in venti stati, la competizione è la più grande iniziativa di comunicazione «partecipata» realizzata nella storia della multinazionale. Il commercial promozionale – firmato da Oscar Hudson, direttore creativo dell’agenzia BBH – mostra giovani artisti che affiggono manifesti della celebre vodka negli anni ottanta, novanta, duemila, dieci e alla fine si chiude con una domanda: «Are you next?» Sarai tu il prossimo artista a realizzare un poster per Absolut? 

Absolut Vodka, Absolut Creative Competition, 2018.

Una multinazionale dell’alcol, i manifesti nello spazio pubblico, l’utente finale che interagisce con essi. Tutto torna. Anche il fatto che gli artisti-attacchini che compaiono nel video, uno dopo l’altro, una decade dopo l’altra, siano tutti attori neri. Un attimo. I neri non erano quelli che sabotavano, strappavano, imbiancavano i manifesti pubblicitari? Ora fanno pubblicità in cui affiggono i manifesti pubblicitari? Abloh, che succede?