Progettare per la fine del mondo

ZombieCity è una metafora del riconoscimento degli effetti negativi delle emissioni di gas serra.

Pubblichiamo un estratto da Zombie city, recentemente pubblicato da D Editore

ZombieCity è un programma didattico e di ricerca che nasce dall’idea di comprendere quali siano gli strumenti minimi per la sopravvivenza e quali, invece, i bisogni secondari. Lo scenario che si ipotizza vede la diffusione di una malattia pandemica capace di rendere ostile la maggior parte della popolazione mondiale, ormai contagiata, nei confronti della minoranza immune.

Come ultimo atto, il governo di un ipotetico Stato al limite del collasso politico, promuove la realizzazione di comunità autosufficienti e sicure per trecento persone ciascuna. Esse saranno le unità minime di un network da riattivare una volta superata la crisi.

Le installazioni dovranno pertanto essere in grado di fornire energia, acqua e cibo, ma, allo stesso tempo, garantire ai suoi abitanti (parafrasando le categorie vitruviane) sicurezza, bellezza e socialità.

Lo scopo di ZombieCity, per quanto lo scenario proposto possa sembrare distopico, è quindi quello di favorire soluzioni progettuali concrete, più strategiche che tecnologiche, che mirino, pur in un contesto apocalittico, alla creazione di una nuova società in cui la felicità umana sia garantita una qualità della vita che superi la mera sopravvivenza.

La prima applicazione dello scenario descritto è stato un laboratorio di progettazione del primo anno, che si è tenuto presso la facoltà di architettura dell’Università di Auckland nel 2013. Diciannove studenti provenienti da tutto il mondo si sono misurati con ZombieCity con dei progetti pensati per l’area metropolitana di Auckland, la più grande della Nuova Zelanda, caratterizzata da un clima temperato oceanico.

Le linee guida del corso prevedevano la progettazione di comunità come ecosistemi urbani resilienti, in grado, quindi, di adattarsi sia ad una prospettiva futura di clima caldo-umido (con almeno 2° C in più entro il 2050), sia a eventi climatici calamitosi più frequenti e violenti.

La scala urbana, preferita a quella architettonica, si deve alla necessità di evidenziare le dinamiche sociali ed economiche nella realizzazione del programma funzionale: attraverso la progettazione di comunità anti-zombie, che rappresentano la Terra in scala, si intende aumentare la consapevolezza sull’incidenza dei bisogni attuali e futuri rispetto alle risorse disponibili globalmente.

La semplicità del modello è stata considerata come un elemento utile per cogliere il vero impatto di scelte che possono essere solo radicalizzate all’interno di un sistema più complesso.

Le tensioni per il superamento delle crisi globali, dovute alla scarsa capacità degli esseri umani di adattarsi all’ambiente naturale, sono un elemento costante e sistematico dello sviluppo della civiltà e, in una certa misura, rappresentano un’opportunità.

ZombieCity non affonda le proprie radici nell’horror gotico. Fino agli anni Ottanta del XX secolo, infatti, l’uomo non era pienamente consapevole del fatto che la «cannibalizzazione» delle risorse del pianeta avrebbe messo in discussione la sua stessa sopravvivenza.

Basti pensare agli insediamenti ipogei e megalitici che precedettero l’età del bronzo, o alle costruzioni sull’acqua diffuse in tutto il mondo con diversi nomi, in cui la necessità di doversi difendere da una natura ancora più ostile ed aggressiva di un’orda di zombie era un elemento coesivo ed essenziale per la comunità. Un processo di simbiosi tra difesa e civiltà che ha il suo riflesso nell’architettura, dal castrum romano al castello medievale, fino alla pianificazione, attraverso il controllo e la delimitazione, di intere regioni geografiche, come nel caso del Vallo Adriano o della Grande Muraglia Cinese che, oltre a difendere militarmente, costituivano un elemento fondativo ed identitario della società che li aveva promossi.

La tensione che genera creatività è rappresentata esemplarmente dal fenomeno della peste nera che, pur avendo causato la morte di un terzo della popolazione europea, con punte del novanta per cento in alcuni territori, ha ispirato opere letterarie ed artistiche, ludiche ed ottimistiche, come il Decameron di Giovanni Boccaccio oppure oscure e metafisiche come il trecentesco Trionfo della Morte, attribuito a Buonamico Buffalmacco, che esercitò grande influenza sulla cultura romantica.

Insomma, lo zombie rappresenta e sintetizza paure ancestrali, sia verso l’elemento naturale, imprevedibile e incontrollabile, sia verso gli altri esseri umani, ritenuti ostili fino all’estrema perversione del cannibalismo, ma anche, infine, verso quel male oscuro e sconosciuto quali sono le epidemie.

All’esorcizzazione delle fobie si deve la grande fortuna del tema zombesco già dalle sue apparizioni in forma embrionale, come nell’Io sono Leggenda di Richard Matheson del 1954, fino alla sua espressione più compiuta, quella cinematografica della Notte dei morti viventi di George Romero del 1968, da cui deriverà una serie infinita di reboot.

ZombieCity non è una semplice simulazione dell’inverosimile. Al contrario, a causa dei cambiamenti climatici, ZombieCity è una versione parossistica della realtà, utile alla sperimentazione di strategie radicali e resilienti. ZombieCity è una metafora di mutamenti sociali ed economici che, sotto la spinta di drammatiche mutazioni ambientali e climatiche, sono attualmente già in atto.

ZombieCity esiste

ZombieCity non affonda le proprie radici nell’horror gotico. Fino agli anni Ottanta del XX secolo, infatti, l’uomo non era pienamente consapevole del fatto che la «cannibalizzazione» delle risorse del pianeta avrebbe messo in discussione la sua stessa sopravvivenza.

Emblematicamente, il reddito procapite, e dunque la ricchezza, è sempre stato considerato un indice sufficiente a misurare la qualità della vita.

Con il cosiddetto UNDP – United Nations Development Programme, nel 1990 venne introdotto l’HDI – Human Development Index, in cui per misurare la qualità della vita si ritenne indispensabile prendere in considerazione, oltre alla ricchezza, anche la salute (ossia, l’aspettativa di vita) e il livello di istruzione (ossia, gli anni di scolarizzazione).

Negli stessi decenni il tema della sostenibilità ambientale divenne di grande attualità: l’idea che le risorse del pianeta siano limitate e che debbano essere gestite in una logica di equilibrio ambientale, economico e sociale, venne ratificata nel 1987 nel noto rapporto dal titolo Our Common Future.

Nel corso degli ultimi vent’anni il termine sostenibilità ha avuto fortune alterne. Inizialmente di grande moda, è diventato poi l’aggettivo da associare a qualsiasi azione, anche progettuale, di greenwashing, quasi fosse un passepartout per lenire i tormenti di una committenza interessata a mostrarsi sensibile al tema, sino a diventare inflazionato e castrante nemico da abbattere per una parte dell’establishment accademico, impreparato a rispondere con strumenti nuovi alla crisi climatica.

Eppure, incrociando i dati dell’impronta ambientale pro capite con l’HDI, molti dei luoghi comuni sulla presunta inutilità di un lavoro radicale e specifico sulla sostenibilità vengono smentiti, mostrando quanto sia invece auspicabile un repentino ritorno all’ortodossia del termine.

L’intuizione che salute ed istruzione non crescessero proporzionalmente alla ricchezza, inizialmente basata piuttosto su congetture ideologiche di giustizia sociale, è oggi corroborata dal fatto che i paesi più virtuosi, in termini di utilizzo delle risorse energetiche, sono anche quelli in cui la qualità e l’aspettativa di vita sono più elevate.

Per questa ragione, con alterni successi, nel 2012 è stato ipotizzata l’istituzione di un nuovo indice che prende il nome di HSDI – Human Sustainable Development Index, che prevede di considerare le emissioni di CO2 come parametro di sostenibilità ambientale.

Oltre un certo limite, dunque, negli Stati Uniti, in Canada o in Australia, ad un aumento di ricchezza e di uso di energia, non corrisponde più un aumento dell’aspettativa di vita, diversamente da quanto avviene in paesi più virtuosi quali Svezia o Svizzera. In questo modo, viene meno l’idea che «sostenibilità» sia sinonimo di sacrificio o di decrescita. Essa è, al contrario, un indicatore di benessere e, indirettamente, il riflesso dell’elevata qualità progettuale e delle potenzialità realizzative del mercato delle costruzioni in una determinata nazione o area geografica. Insomma, si a lungo abusato del termine «sostenibilità» senza realmente comprenderne il significato e le implicazioni a breve termine.

ZombieCity è una metafora del riconoscimento degli effetti negativi delle emissioni di gas serra.

Tutte le volte che si è parlato della necessità di un quarto pilastro, ad esempio, degli aspetti culturali della sostenibilità, o di una maggiore sensibilità per i contesti ambientali, senza mai darne una precisa definizione che rientrasse nella logica della limitazione dell’uso delle risorse e di una corretta risposta a quelle che saranno le esigenze della società del futuro, l’idea stessa di sviluppo sostenibile si andava ad indebolire in favore di un immobilismo assoluto e del mantenimento delle strategie di pianificazione convenzionali, a volte demagogiche, spesso fallimentari.

Tra queste vi sono quelle legate all’uso del suolo, come l’idea di un ritorno alla «città giardino», attraverso formulazioni ambigue, come «città diffusa». La pressione sociale e i fenomeni di immigrazione su scala globale saranno le prime evidenti conseguenze del riscaldamento globale. Essi ci obbligheranno a superare il concetto di bassa densità relativa di una determinata area geografica e a fare i conti con valori assoluti (globali) che, già oggi, indicano l’insostenibilità dei modelli convenzionali di pianificazione.

Scenario per il 2050

ZombieCity è quindi una metafora del riconoscimento degli effetti negativi delle emissioni di gas serra.

Lo scopo delle attuali politiche di controllo e riduzione delle emissioni, e in particolare della CO2, in modo diretto (riduzione delle emissioni) o indiretto (efficienza energetica e aumento dell’energia da fonti rinnovabili), è quello di fermare il processo di riscaldamento globale, dovuto all’alta concentrazione dei gas serra, entro i 2° C nel 2050, per mantenere entro livelli accettabili i fenomeni di desertificazione e l’innalzamento dei mari dovuto principalmente allo scioglimento dei ghiacciai, che causeranno una riduzione di suoli e di acqua dolce in una dimensione ancora oggi difficilmente prevedibile.

L’obiettivo a lungo termine è di garantire uno sviluppo sostenibile, e dunque un accettabile livello di qualità della vita, attraverso un’adeguata disponibilità di cibo e un soddisfacente stato di salute medio della popolazione (entrambi dipendenti dalla quantità di suolo produttivo e acqua dolce) per i 9 miliardi di abitanti previsti per la metà del secolo.

Tuttavia, lo scenario che ci apprestiamo a considerare potrebbe essere addirittura ottimistico, poiché solo in minima parte tiene in conto dei fenomeni di feedback come quello ghiaccio-albedo.

La Byrd Station, nell’Antartide occidentale, ha recentemente registrato un aumento della temperatura media annuale di 2,4° C dal 1958 a oggi: una velocità tre volte superiore rispetto alla media prevista globalmente di 0,8 gradi. Tale fenomeno costringerà a rivedere le previsioni sull’innalzamento dei mari, sia per l’aumento di velocità dello scioglimento dei ghiacciai che per il loro scivolamento in mare. Tra le conseguenze immediate vi sarà un clima invernale sempre più estremo, soprattutto negli Stati Uniti e nel Nord Europa, poiché «mentre le emissioni di gas serra continuano ad alterare il sistema climatico terrestre, qualunque cambiamento si sovrapporrà alle naturali oscillazioni del sistema».

Uso sostenibile del suolo

Il punto di contatto più evidente tra l’idea di sviluppo sostenibile espressa nel Rapporto Brundtland e la pianificazione territoriale consiste nella presa di coscienza che il suolo coltivabile sia il bene più prezioso a nostra disposizione e che esso sia limitato. Se crediamo che alle future generazioni debba esserne garantito l’uso, con tutte le sue prerogative, sarà necessaria un’idea nuova di pianificazione che tenga conto della velocità del cambiamento, già in atto, e delle condizioni ambientali.

Attualmente, il 38% delle terre emerse è utilizzato per la produzione del cibo, che rappresenta la prima causa di emissioni di CO2.

Considerando che 1 miliardo di persone soffre di fame cronica e che circa il 30% delle terre emerse è occupato da deserti e ghiacciai e altrettanto dalle foreste, ne consegue che già oggi abbiamo una disponibilità di suoli largamente insufficiente.

Il modo in cui verranno pianificate le città future sarà determinante per le strategie di sopravvivenza. Oltre il 50% della popolazione mondiale è concentrato nelle città che occupano circa il 2% del suolo potenzialmente utilizzate per altri scopi.

Un ulteriore 1% circa di suolo urbanizzato è distribuito oltre i 2000 metri sopra livello del mare, nei deserti, nelle foreste, sotto o in corrispondenza della superficie del mare (come ad esempio i polders olandesi). La restante popolazione vive al di fuori delle città, in aree prevalentemente destinate alla produzione del cibo oppure in condizioni ambientali estreme o critiche. Infrastrutture e industrie sono necessariamente distribuite sia nelle aree urbane che in altri contesti, con percentuali e impatti naturalmente differenti.

Le condizioni climatiche in rapida mutazione, fenomeni come quello della desertificazione, dell’innalzamento dei mari o degli uragani, aumentano la precarietà della condizione umana e rendono meno astratta l’ipotesi di una sopravvivenza a continuo rischio.

Se entro il 2050, come sembra dalle proiezioni attuali, la popolazione aumenterà di 2 o 3 miliardi, l’agricoltura sarà la principale minaccia ambientale del pianeta (gas serra, utilizzo acqua, desertificazione) e, di conseguenza, della salute.

Proseguendo coi trend attuali, il suolo produttivo dovrà salire almeno al 49% (+11%), la superficie occupata dalle città supererà il 4% e le aree soggette a desertificazione aumenteranno tra il 2 e il 3% della superficie emersa attuale. Quest’ultima, inoltre, sarà erosa dall’innalzamento dei mari e dai citati fenomeni di feedback già in atto. Presumibilmente, quindi, la mancanza di suolo coltivabile andrà ben oltre l’11-12% in più rispetto alla disponibilità attuale.

Se si vorrà ottimizzare la produzione agricola, si dovrà considerare una collocazione delle città in zone di criticità ambientale (oltre i 2000 metri, zone desertiche, foreste, sotto il livello del mare, terreni arabili, eccetera). Contemporaneamente, o conseguentemente, a ciò, sarà necessario pensare a concetti di città radicalmente nuove, resilienti, ad alta densità e a basse emissioni.

La simulazione che viene proposta con ZombieCity facilita la comprensione di una realtà tanto complessa. Facendo una proporzione del bisogno procapite di suolo (circa 0,20 ettari) e la sua disponibilità reale, dalla scala globale a una comunità di trecento persone, è risultato subito chiaro come sessanta ettari di terreno produttivo per agricoltura e allevamento non costituiscano una quantità negoziabile, soprattutto considerando un contesto ostile come quello di ZombieCity. Le condizioni climatiche in rapida mutazione, fenomeni come quello della desertificazione, dell’innalzamento dei mari o degli uragani, aumentano la precarietà della condizione umana e rendono meno astratta l’ipotesi di una sopravvivenza a continuo rischio.

Per dare una risposta positiva allo scenario descritto, si potrebbero individuare alcune caratteristiche comuni a tutti gli insediamenti di ZombieCity. Tra queste l’alta densità, l’elevata albedo, l’ibridità e la resilienza.

Comunità ad alta densità

Nella pianificazione successiva alla Rivoluzione Industriale, uno dei nemici da abbattere era il fenomeno del sovrappopolamento urbano. Le comunità fondate dai socialisti utopisti, la Parigi di Haussmann, la Barcellona di Cerdà avevano tra i loro obiettivi la risoluzione delle difficili condizioni sociali e igienico-sanitarie dei quartieri sovrappopolati.

La visione filantropica e postilluminista della città borghese verrà superata dalle formulazioni moderne, declinate in forma socio-politica, come nel Karl Marx Hof della Vienna rossa, e in gran parte basate sul sistema dei trasporti su gomma e sullo zoning, come la città verticale di Ludwig Hilberseimer e la Ville Radieuse di Le Corbusier, modelli in cui anche il ricorso agli edifici compatti e unitari è il risultato di capacità tecnologica e visione sociale.

Molti degli aspetti a cui si deve il successo dell’approccio moderno, tra cui la spinta verso la monofunzionalità delle aree e gli aspetti igienico sanitari legati all’alta densità abitativa, sono oggi in buona parte superati, ma che sussistono nella mappa mentale di chiunque abiti una città.

A una prima analisi, l’HSDI mostra come non vi sia necessariamente una diretta corrispondenza tra bassa densità e bassi livelli di emissioni di anidride carbonica. Sebbene i primi paesi (Norvegia, Nuova Zelanda e Svezia) presentino una densità particolarmente bassa, la maggior parte delle nazioni in testa alla classifica sono caratterizzate da media e alta densità abitativa (Svizzera, Francia, Irlanda, Olanda, Hong Kong, Germania).

Nell’ottica globale precedentemente descritta, caratterizzata da sovrappopolamento e da indisponibilità di suolo, la densificazione abitativa nei contesti urbani appare uno strumento irrinunciabile e non negoziabile per liberare spazio da destinare a riforestazione, produzione di cibo e captazione della CO2.

Alla luce di ciò, l’HDSI non sembra tuttavia una prospettiva in grado di mettere in crisi la nostra attuale percezione del benessere. Anche infrastrutture e industrie dovranno necessariamente ridurre il proprio impatto sulle aree coltivabili e sulle foreste. Ma nonostante tutto, queste resteranno azioni insufficienti se non accompagnate da politiche adeguate in campo industriale e agricolo.

Se da un punto di vista pratico, l’Agenda 20-20-2017 ha rappresentato il manifesto europeo per uno sviluppo sostenibile, è indispensabile che le principali azioni che mirano alla riduzione dei gas serra vengano oggi accompagnate da una altrettanto lungimirante visione per quanto riguarda la gestione dei suoli.

La città, quindi, intesa come luogo in cui è possibile concentrare alcune delle attività vitali per l’uomo, sarà un utile strumento per governare i fenomeni del sovrappopolamento e per limitare, di conseguenza, il processo di riduzione di disponibilità dei suoli.

Comunità riflettenti

Se pensiamo alla sua accezione fisica, il termine pianificazione appare obsoleto, non tenendo in conto che la progettazione interagisce sotto vari aspetti con lo spazio, al di sopra delle superficie terrestre per decine di chilometri. L’emissione di gas, che trattengono calore sulla Terra riflettendo determinate lunghezze d’onda, è solo uno dei fattori di origine antropica che modificano la composizione e la capacità di autoregolamentazione dell’atmosfera della Terra.

Altri fenomeni, come l’immissione diretta di calore in atmosfera, pur trascurabili dal punto di vista della variazioni globali dell’atmosfera, possono avere un impatto rilevante sul comfort e sulla salute degli ambienti urbani e, dunque, sulla progettazione a scala territoriale.

Tali fenomeni, secondo un recente studio pubblicato dal team guidato da G. J. Zhang su Nature Climate Change, sono rilevanti per ottenere previsioni climatiche più affidabili sui sistemi locali e regionali in cui i cambiamenti di temperatura si discostano dall’andamento globale. I loro effetti negativi, come la cosiddetta “isola di calore”, spesso attribuiti alla densità della maglia urbana o alla presenza di superfici a bassa albedo, tra cui i vuoti urbani, cementificati o asfaltati, possono essere mitigati, o del tutto eliminati, proprio grazie ad una azione progettuale consapevole delle implicazioni spaziali.

Comunità ibride

Almeno in parte, la storia dell’urbanistica può essere riscritta attraverso l’individuazione di modelli più o meno energivori, e quindi più o meno virtuosi rispetto all’attuale crisi climatica. Non si tratta naturalmente di riproporre un fenotipo, ma piuttosto di individuare quei genotipi che hanno mostrato capacità di adattamento a condizioni estreme.

Immaginiamo, o auspichiamo, che i territori del futuro possano essere una combinazione integrata e virtuosa di suolo produttivo, urbanizzato, anfibio, in altitudine e desertico. Sarà la relazione stessa con le condizioni ambientalmente critiche a rendere la città ibrida e, possibilmente, generatrice di energia. Non si tratta né di utopia né di un’incredibile innovazione concettuale. Il rapporto tra città e acqua è, ad esempio, un topos della cultura occidentale fin dalla formulazione del mito di Atlantide nei dialoghi platonici di Timeo e Crizia, nel IV secolo prima di Cristo. Anche il rapporto con il deserto affonda le proprie radici nelle origini dell’umanità. La città, in un’area desertica o peridesertica, costituisce oggi uno dei più ricchi archivi di dispositivi passivi a cui si possa attingere. Basta osservare quante analogie si possano riscontrare tra un modello contemporaneo come Masdar City e una città del deserto come la yemenita Shibam. Lo stesso rapporto analogico si ritrova nel confronto tra lo skyline di una città iraniana, costellato di windcatcher, e il quartiere madrileno di residenze sociali progettato, nel 2009, da Thom Mayne/Morphosis.

La comunità ibrida è dunque un luogo in cui si riafferma la riappropriazione di aree critiche del globo e si supera la dicotomia città-campagna in favore di un modello integrativo che non implichi un uso estensivo e alternativo del territorio.

Entro il 2050, avremo meno terra a disposizione, sia per produrre cibo che per realizzare nuove città o ampliare le esistenti.

Comunità resilienti

Occorre dunque pianificare una città del futuro come un sistema aperto, dinamico e autopoietico, in grado di riconfigurarsi rispetto alle dimensioni, in gran parte imprevedibili, dei fenomeni ambientali in atto. Essa dovrà rispondere positivamente a due diversi fattori esterni, entrambi determinati dalla crisi climatica.

Il primo riguarda gli eventi ambientali e meteorologici estremi, caratterizzati da una sempre maggiore frequenza e violenza. Il secondo riguarda la pressione sociale che verrà esercitata dai fenomeni migratori su scala globale dovuti a desertificazione, siccità, erosione, inondazioni eccetera.

Lo spostamento verso territori potenzialmente utilizzabili per la produzione del cibo, se non attraverso un modello radicalmente ibrido, in grado di non sacrificarne le potenzialità, non sarà più una opzione.

Entro il 2050, avremo meno terra a disposizione, sia per produrre cibo che per realizzare nuove città o ampliare le esistenti. Inoltre, l’estremizzazione delle condizioni climatiche, che in modo progressivo andranno ad interessare anche i territori interni, indurranno un ripensamento delle città costiere.

Contestualmente la popolazione mondiale crescerà, come detto, fino a nove miliardi di persone (secondo una proiezione ottimistica), in larga maggioranza concentrata nei centri urbani. Ciò nonostante, già oggi, un miliardo di terrestri, sul totale di cinque, vive al di sotto del livello minimo di nutrizione.

ZombieCity

Generalmente gli zombie sono lenti, goffi e poco intelligenti, come nella Notte dei morti viventi di George Romero. Dagli anni 2000, tuttavia, nei lungometraggi come il remake dell’Alba dei morti viventi o House of the Dead, gli zombie sono diventati più agili, veloci, intelligenti e forti rispetto a quelli tradizionali.

Questa nuova generazione di zombie potenziati sono più simili ad esseri umani infettati da agenti patogeni che alterano la mente (come in 28 giorni dopo, Zombieland e Left 4 Dead) che a cadaveri rianimati.

ZombieCity prende in considerazione questa seconda, più pericolosa, tipologia di zombie.

Le origini e la diffusione del virus Z sono entrambe conseguenza della crisi climatica. Una mutazione epigenetica dovuta alla combinazione dell’aumento delle temperature con livelli elevatissimi di concentrazione di CH4 (metano) in atmosfera è diventata incontrollabile a causa proprio delle alte temperature e dell’endemica mancanza di acqua. Alle condizioni ambientali favorevoli alla sopravvivenza e alla diffusione degli agenti patogeni si aggiunge la sua trasmissibilità attraverso il morso da parte del soggetto infetto.

La persona infetta è attratta in particolare dalle emissioni di rumore e di calore che acuiscono la sua aggressività e il suo desiderio di nutrirsi di carne. Il soggetto infettato è ridotto in uno stato primordiale e risponde esclusivamente all’eco di bisogni primari, e in particolare quello della fame. Regredito in uno stadio primitivo e istintuale, tale desiderio esercita su di lui una sorta di effetto Pavlov.

Avendo il suo corpo perso le principali funzioni fisiologiche, non è più in grado di generare calore endogeno, ed è quindi attratto da quello emesso dagli esseri umani e dagli altri animali. Lo zombie è in grado di percepire la presenza umana attraverso particolari combinazioni di fluttuazione e concentrazione delle fonti di calore, nelle cosiddette isole di calore concentrate. L’essere umano può riconoscere la presenza degli zombie, oltre che dall’osservazione, anche dalle forti emissioni di metano causate dal processo iniziale di putrefazione che, oltre alle funzioni fisiologiche di base ridotte quasi a zero, li rende più simili a cadaveri che a esseri viventi. Per evitare quindi l’avvicinamento degli zombie e la diffusione del virus, è necessario ridurre il calore localizzato e globale delle comunità, e, con esso, anche le emissioni di gas serra, compresi quelli che favoriscono la diffusione del virus (CH4).

La simulazione ha previsto la costituzione di una task force governativa con a disposizione tre mesi di tempo per elaborare diciannove unità autosufficienti all’interno delle quali, oltre alla difesa e alla sussistenza, fosse garantito un livello accettabile di comfort e di qualità della vita. Inizialmente, la scelta di sistemi urbani compatti, con prestazioni energetiche elevate e un uso del suolo limitato, è sembrata impraticabile. Auckland, il luogo che avrebbe ospitato l’esercitazione, più che una città è un parco su cui è disteso un immenso tappeto di residenze monofamiliari che rappresentano uno dei caratteri fondativi della cultura kiwi. Da questo tappeto emergono lagune circondate da mangrovia e vulcani coperti da prati e foreste. Tra essi, non a caso, il più famoso si chiama Mount Eden. I limiti dell’uso del suolo non sono ancora percepiti, rendendo un simile contesto un perfetto caso studio per il progetto ZombieCity. Qui, più che mai, gli esseri umani si trovano a dover scegliere fra la casa con giardino e il Giardino dell’Eden.

Alessandro Melis , architetto e docente, direttore del Cluster for Sustainable Cities, presso l’University of Portsmouth, Curatore del Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia 2020, Alessandro Melis è uno dei più influenti ricercatori nel campo dell’architettura radicale. Ha fondato, assieme a Gian Luigi Melis, lo studio Heliopolis 21. Ha pubblicati diversi libri e innumerevoli saggi pubblicati sui temi della sostenibilità radicale e sulla resilienza urbana.