Ed è polemichetta

Obsolescenza precoce, perdita di memoria e guerra di trincea: cosa succede quando il «dibattito» precipita nel pozzo senza tempo di Facebook

Qualche settimana fa a Milano c’è stato un bellissimo tramonto. Me ne sono accorto scorrendo 30 foto uguali pubblicate in contemporanea su Facebook. Dopo circa mezz’ora ho letto il primo di 30 status identici che si lamentavano del fatto che tutti quanti pubblicavano la stessa foto del tramonto a Milano. Ed erano così tanti e così contemporanei da generare 30 status di persone che si lamentavano del lamentarsi della foto. Questa cosa succede invariabilmente a ogni bel tramonto di qualsiasi grande città. Se uno ha abbastanza tenacia e capacità di astrazione può pure proseguire per altri due livelli di negazione: post contro chi posta contro chi posta contro chi posta contro le foto. Se si è fortunati magari arriva Wired con un suo commento. È come se Facebook fosse esploso fino a rendere il mondo reale un orticello della sua versione online. Questo può suonare come un paradosso per tanti nativi analogici, ma è un paradosso molto meno (ehm) paradossale di quanto lo fosse appena due anni fa. In un caso o nell’altro, questo articolo parla del meccanismo con cui si discute su Facebook oggi, cioè su come si discute oggi in generale su internet, o meglio su come si discute oggi in generale. La prendo lunga.

Una banalità: internet era nata come una sorta di estensione smart di processi preesistenti. Fossero processi cognitivi, culturali o editoriali, internet non cercava tanto di abbatterli quanto di semplificarli. Le fattezze di internet si tendono a dare per scontate: una volta c’erano le pagine di testo, poi le pagine che riuscivano a unire testo e immagini, poi i siti con gli sfondi modulari su Altervista con una struttura di collegamenti progettata manualmente dalla prima all’ultima pagina. Dopodiché si è passati a un tipo di CMS che semplificava ulteriormente i processi preesistenti, in un sistema di valori praticamente identico a quello che governa l’editoria cartacea.

Un’altra banalità: il crescente successo dell’ecosistema internet ha posto un problema sulle modalità di trasmissione del sapere. In altre parole, qualcuno a un certo punto si è posto l’ovvia domanda sulla dignità culturale del sapere trasmesso via internet, e della sua conservabilità in una struttura che tende all’obsolescenza in maniera rocambolesca. Esempio: piattaforme come WordPress offrono la possibilità di esportare i blog su file, ed eventualmente di trasferirli su altre piattaforme in maniera quasi indolore. Non è stato sempre scontato: la scomparsa di Splinder ha comportato la sostanziale estinzione di tante incarnazioni della prima blogosfera italiana. Il valore di questa perdita è incalcolabile (proprio nel senso che non è possibile calcolarlo), ma intanto l’energia vitale della blogosfera splinderiana si era già spostata in altri posti dell’internet: i social network.

Fino a dieci anni fa il traffico dei blog era generato soprattutto da altri blog, in un sistema «chiuso» di link, discussioni, commenti e rimandi a vicenda. Ma i social network hanno esternalizzato la parte di condivisione e discussione, fornendo una sponda esterna dove poi si va a concentrare la discussione. Una delle conseguenze principali di questa evoluzione è stata la fine del sistema sociale della blogosfera, coi blog trasformati in semplici strumenti di pubblicazione a costo zero che reggono sugli stessi CMS utilizzati da riviste e quotidiani online. È impossibile, dopo la fine dei Duemila, operare distinzioni formali tra un editoriale online del Corriere della Sera e il post sul blog di un benzinaio bresciano: la principale distinzione è legata a meccanismi di reputazione o alla capacità di «scatenare il dibattito». Il quale, da tempo, non avviene più all’interno delle testate, bensì in accrocchi sociali strutturati secondo regole pedestri che garantiscono un clima simile a quello del circolo ARCI sotto casa ma con un livelli esponenziali di specificità e competenza in materia.

Accadde oggi: il tempo secondo i social

Tra quelli più in vista oggi, Twitter è il social network che offre la maggior continuità con l’internet pre-social (blog, forum, siti, newsgroup): è rigidamente strutturato ad hashtag e può contare su un motore di ricerca molto efficiente, due caratteristiche che lo rendono un buon modo di indicizzare tanto se stesso quanto i contenuti esterni ad esso. Lo posso usare per recuperare un articolo di Gramellini sulle sfide calcistiche tra Italia e Germania o per ripescare il leggendario tweet con cui Daniela Santanché voleva pubblicare Charlie Hebdo in Italia. Non è impossibile pensare Twitter come uno strumento dinamico e personale di archiviazione: è persino possibile esportare su file il proprio feed. Il problema è che oltre ad essere un ottimo strumento per la promozione e l’indicizzazione dei contenuti, Twitter è anche in crisi nera: perde soldi, perde utenti, chiude uffici. Cosa più grave, non può contare sulle iniezioni di capitale portato da nuovi investitori, su cui prosperano queste aziende: nel momento in cui scrivo, un’azione vale circa 18 dollari; al suo picco, nel gennaio del 2014, ne valeva 70.

Si tratta del classico effetto-slavina che il settore tech conosce da tempo: aziende sostanzialmente disinteressate a produrre utili che affidano la propria espansione al mercato delle compravendite, approfittando di una posizione di leadership destinata (o meno) a consolidarsi. Vale a dire che Twitter, dal punto di vista finanziario, esiste all’interno una fantomatica guerra per il dominio assoluto nel mondo dei social. Ma se questa guerra c’è davvero, qualcun altro l’ha già stravinta.

Facebook è riuscito a trascendere le narrazioni legate ai social network. Il modo in cui abbiamo imparato a leggere e scrivere dell’impatto di Facebook sul mondo circostante esula da qualsiasi retorica precedente, a parte forse gli anni ruggenti di Google. Sono tanti gli articoli sull’impatto sociale ed economico di Facebook, e sul fatto che la sua pervasività ha creato dal niente problemi di ordine pressoché inedito: rasoiate alla disciplina antitrust, capacità di azzerare il dibattito intorno all’editoria con implementazioni marginali agli algoritmi, attacchi involontari-ma-letali ai concetti di sovranità nazionale… La letteratura in materia passa senza problemi dal rilassato complottismo di circostanza (quelli a cui piace nominare Zuckerberg per nome e cognome, come un George Soros con cinque gradi di separazione in meno) al dibattito ospitato in sedi legislative e giudiziarie. Questo dibattito però fa spesso finire in ombra l’evidenza empirica secondo cui, almeno per quanto mi riguarda, Facebook stia modificando in maniera lenta e inesorabile i miei processi mentali.

La funzione Accadde oggi è l’unica – o quasi – concessione di Facebook alla memoria.

Non so se vi è mai capitato ad esempio di utilizzare la funzione Accadde oggi. Per chi non sa cosa sia: ogni giorno Facebook ti permette (cliccando un apposito tasto del menu) di ricordare cosa hai postato lo stesso giorno degli anni precedenti. Da qualche tempo la uso in maniera piuttosto intensa; ogni mattina controllo quel che ho fatto uno o due anni fa, cosa ho postato, di cosa ho avuto voglia di scrivere, quali imbarazzanti stronzate ho avuto l’ardire di condividere. Col passare del tempo mi accorgo di avere sempre meno familiarità con quello che ho scritto, un po’ come se il muscolo della memoria si stesse atrofizzando: certi post in cui mi scopro taggato sono autentiche sorprese. La mia capacità di ricordare ciò che ho fatto su Facebook, o di ricordare ciò che ho fatto nella vita reale per poi postarlo su Facebook, sta drammaticamente diminuendo.

Il paradosso è che la funzione Accadde oggi è l’unica – o quasi – concessione di Facebook alla memoria. Accadde Oggi è una funzione molto limitata: non tiene traccia, ad esempio, dei commenti o delle reazioni che ho lasciato sui post altrui, né di quello che era legato a ciò che avevo postato in un dato giorno ma che era uscito in giorni diversi. È una selezione algoritmica dei miei ricordi a spettro ristretto, una specie di caccia al tesoro – senza nulla in palio, tra l’altro.

All’atto pratico, da diversi mesi preferisco aprire Facebook che Twitter. Le discussioni sono più vivaci ed è relativamente facile inserirsi attivamente in una nicchia di persone come te (basta iscriversi al gruppo giusto), avere discussioni più o meno costruttive, e in generale perseguire i propri interessi umani all’interno di un microcosmo di hobbysti infoiati nel quale il livello di scontro si gonfia fino a sfiorare la guerra civile. Gli algoritmi aiutano a selezionare un bacino potenziale di utenti che condividono interessi, percorso culturale ed opinioni politiche in percentuali che né Twitter né tantomeno i piani del mondo reale sono capaci di offrire. Un po’ come ai tempi di certi forum, ma in maniera molto più pervasiva e con l’aggiunta di tutta una serie di orpelli e segnali (nome e cognome, foto personali, racconti di vita) che mettono in moto un meccanismo inconscio di identificazione impossibile da scatenare quando sui forum incontravi nickname tipo AnarcoWarrior83. Il tutto, ripeto, avviene sulla base di questioni la cui portata culturale spesso si rivela marginale, e la cui capacità di scalfire la nostra reale emotività nel lungo periodo è tutta da comprendere. Per una convenzione autogeneratasi all’interno della mia filter bubble, la coesistenza tra portata marginale e totale dimenticabilità definisce una situazione che ci piace definire con un nome preciso: polemichetta.

Niente dibattiti, siamo su Facebook

La polemichetta è ovunque. È sistemica, orizzontale e pervasiva; riguarda ogni campo dello scibile, interessa quasi tutti e non lascia quasi mai traccia di sé fuori dall’ecosistema in cui si è generata. Nella sua forma più pura è l’applicazione di un’ideologia, di una visione del mondo, alle piccole puttanate che succedono da mane a sera. È l’effetto secondario – tendenzialmente indesiderato ma per molti aspetti piacevole – di una narrazione: una questione complessa deve potersi ridurre al suo racconto, a un singolo gesto a cui aderire oppure no. La semplificazione del racconto porta alla semplificazione – e quindi alla cristallizzazione – dell’opinione in merito al racconto, e per induzione della questione tutta. A un certo punto qualcuno rende pubblica la propria opinione, e da lì in poi è una slavina di sostegni e confutazioni.

L’origine di questo inarrestabile bisogno di partecipare pubblicamente al dialogo è difficile da stabilire; principalmente credo che si possa ricondurre a diverse spinte emotive: adesione automatica ai meccanismi dei social network, necessità di condivisione, bisogno di puntualizzare/correggere/distruggere le opinioni altrui, illusione di poter dare il parere definitivo e inappellabile su un dato argomento, ecc. Quello che mi interessa di più, però, è il modo in cui questi piccoli tasselli vanno a costruire il social network dell’aggregato: perchè in senso stretto, raramente Facebook produce delle vere e proprie discussioni. Semmai è una sfilata di insegne: questo sono io, questo sei tu, e questo è quanto. Al limite ci si può contare a vicenda. Tutto quel che «succede» su Facebook, succede in realtà in un altro luogo e in un altro momento: esprimo un’opinione per mettere un altro tassello al mosaico della mia personalità in questo ambiente fisico – ieri ero un no vax, oggi sono un novax antiliberista, domani sono un no vax antiliberista fan di Christopher Nolan, dopodomani un no vax antiliberista fan di Nolan che ha votato PD alle ultime elezioni.

Da questo punto di vista è curioso il crescente successo del profilo Facebook come fonte giornalistica, a tutti i livelli: dalla ricerca di contenuti sordidi ed equivoci nei profili dei protagonisti di fatti di cronaca, all’inclusione dei contenuti social nelle inchieste per collegare, chessò, Roberto Spada e CasaPound. Il racconto giornalistico accoglie una richiesta di semplificazione sistematica, seleziona contenuti e li isola per dare un ritratto quanto più bidimensionale possibile. Ma di fatto, questa versione punitiva-sanzonatoria delle identità su social, è l’unica forma di documento «a futura memoria» che Facebook ci lascia in eredità.

La polemichetta è -etta perché effimera, passeggera, e costitutivamente incapace di generare prova certa delle sue motivazioni in un dato spazio e in un dato luogo.

Qualche giorno fa è uscito un articolo sull’Economist intitolato Publishers are wary of Facebook and Google but must work with them. Non è il primo articolo del genere e non sarà l’ultimo. In un articolo uscito sul New York Times qualche anno fa, David Carr paragonava Facebook a un cane in un parco che sta correndo incontro agli editori: lo vedi arrivare, na non sai se viene a farti festa o a sbranarti. È abbastanza evidente e documentato che il principale obiettivo di Facebook nel medio periodo è di diventare grande quanto internet, internalizzando ogni tipo di contenuto e creando una situazione di autosostenibilità interna. Come dicevo sopra, ci sono tante questioni legate all’idea di monopolio, all’abuso di posizione dominante, che questo comporta. In passato Facebook ha lanciato strumenti di pubblicazione diretti (e ovviamente smart) per internalizzare i contenuti delle testate e renderli pienamente consumabili senza uscire da Facebook, in cambio di un’esperienza enhanced: contenuti più veloci e meglio impaginati, tagliando corto. Qualcuno ha deciso di buttarcisi (in Italia è piuttosto chiassoso il recente successo di Freeda, testata-agenzia di piglio millennial-femminista che ha raccattato un milione di fan nel giro di pochi mesi), qualcun altro è più prudente. Facebook continua a blandire i propri clienti con promesse legate al newsfeed e alla scrematura dei contenuti, e il principale scetticismo delle maggiori testate è legato all’idea che una volta girato il vento, verranno messe ai margini dal portale e sacrificate a nuove priorità.

Ma, di nuovo, c’è anche un problema legato alla conservazione del contenuto: posso rileggere l’articolo di Carr sul New York Times perchè è uscito fuori da Facebook, e può essere trovato agevolmente grazie a un motore di ricerca esterno. Lo stesso problema lo sta conoscendo la polemichetta: finché il mio forum preferito è rimasto online, ho potuto spulciarne gli archivi e ripescare discussioni furiose avvenute sette o otto anni prima, magari annotandomi qualche opinione che avrei potuto rinfacciare agli autori; su Facebook invece, è quasi impossibile ritrovare discussioni che infuriavano appena un mese e mezzo fa.

La polemichetta è -etta perché effimera, passeggera, e costitutivamente incapace di generare prova certa delle sue motivazioni in un dato spazio e in un dato luogo. Come questa incida sul lungo periodo, è ancora tutto da comprendere. Prendiamo il modo in cui la  polemichetta ha di fatto sostituito le forme più istituzionali di quello che una volta chiamavamo «dibattito culturale». Sappiamo che i personaggi pubblici sono spesso fomentati ad aumentare il proprio tasso di engagement sui social network; e quando ad esempio un nome più o meno importante dell’universo culturale italiano riprende sulla sua bacheca l’argomento caldo del giorno, si può generare una discussione tra intellettuali potenzialmente in grado di offrire enormi spunti di riflessione – o almeno una volta sarebbe stato così, in un continuo carteggio capace di seguire passo dopo passo l’evoluzione del confronto, i diversi punti di vista, i diversi approcci allo stesso tema.

La polemichetta però, più che costruzioni sul lungo periodo, produce semmai una specie di fornitura just-in-time di tanti piccoli J’accuse monodose. Sprofonda la rilevanza – e a volte la gravità – del tema al centro del confronto in una guerra di posizionamento transitoria e al tempo stesso eterna, che non incide su nient’altro se non sull’autoalimentarsi della polemichetta stessa, ma solo per un periodo di tempo circoscritto e condannato a obsolescenza certa. Una cosa del genere è successa per esempio con la polemichetta tardoestiva che ha seguito un’ospitata di Christian Raimo al programma televisivo Dalla Vostra Parte subito dopo gli sgomberi di piazza Indipendenza a Roma. Polemichetta fomentata dallo stesso Raimo sulla propria bacheca, o per meglio dire scatenata involontariamente dalla scelta di Raimo di commentare la sua apparizione televisiva – con connotazioni ideologiche anche importanti – sulla sua bacheca Facebook invece che su un articolo di giornale. Il fatto che Facebook sia un pozzo senza fondo in cui la sparizione dei contenuti è un assunto di base, ci costringe a vivere in una situazione di stallo culturale simile a quella di cui parlavo in apertura per il tramonto milanese: ogni volta ogni discussione riparte dall’inizio, e ognuno sente il bisogno di posizionarsi nello stesso esatto punto dello spettro politico dove s’era posizionato la volta precedente. Se alla fine sia utile o meno andare a rompere le scatole alle trasmissioni gentiste di destra, diventa a quel punto irrilevante.

Le polemichette possono anche generare fratture, ribadire per via perversa il recinto identitario dei partecipanti, partorendo null’altro che trincee impermeabili da accettare come non-detto condiviso (oltre che profitti per Facebook, ovvio). Prendiamo ad esempio due delle più infuocate polemichette che più hanno mandato in crisi il minuscolo mondo della cultura «indie» italiana: quella seguita all’articolo di Violetta Bellocchio sulla stazione di Milano Rogoredo (uscito per Internazionale) e quella sugli intellettuali della «veterosinistra» nata da un articolo di Cristiano De Majo per Rivista Studio. Se cercassimo su Google tracce di questi due dibattiti ricaveremmo solo una lontana eco dello scontro che hanno generato, e in un arco di tempo sufficientemente lungo verrebbe da considerare gli articoli in questione come trascurabili pezzi di giornalismo culturale che non hanno suscitato reazioni particolarmente sopra le righe. Per certi versi sarebbe un po’ come cercare di spiegare il già citato J’accuse senza fornire alcun riferimento storico della faccenda. La verità è che su Facebook, al momento in cui quegli articoli uscivano, si è scatenato un torrente di interventi capace di toccare le vette vertiginose dei Grandi Temi – il ruolo dell’intellettuale nel mondo di oggi, la destra e la sinistra, le politiche securitarie, le questioni di genere ecc. – sancendo addirittura inimicizie e rivalità. Dopodiché ecco ridursi il tutto allo stanco «chi sta con chi» che della polemichetta sembra essere – ad oggi – l’unico effetto realmente misurabile. Le inimicizie e le rivalità magari rimangono, ma i casus belli si perdono in una nuvola che col tempo diventa un misterioso apriori di cui nessuno sa individuare l’origine o la motivazione. Resta la posizione, sparisce il contenuto. Più o meno come nelle risse tra adolescenti o tra curve.

La funzione Accadde oggi, in questo aspetto, si evolve sulla quotidianità intellettuale fino a diventare il feed scalare di un album dei ricordi dell’adolescenza, magari consultato su base quotidiana, in cui l’identità dei partecipanti è quasi sempre intuibile e quasi mai riconoscibile appieno. D’altra parte è la stessa internet a essere adolescente: non ha assunto ancora la propria conformazione definitiva, si regge su modelli economici che non la permettono (il sistema dei budget in perdita giustificati dal meccanismo di investimenti venture capital, IPO dopate e compravendite a sedici zeri si giustifica soltanto in uno scenario di incertezza e costante rovesciamento dei fronti) e spinge su uno strano clima di inquietudine intorno alla conservabilità temporale dei contenuti che propone. In questo senso l’uomo-polemichetta che prospera su Facebook, indignandosi a getto continuo senza mostrare mai segnali di evoluzione oltre il quotidiano, è semplicemente diventato il perfetto abitante del contesto ambientale che lo ospita, un mutante cognitivo il cui impianto di base preesiste e sopravviverà a ogni polemichetta, come il fantasma di un’ideologia passata che si reincarna ogni giorno per dare un’interpretazione dell’esistente che la sera dopo sarà già finita in cenere.