L’era del sapere militare diffuso

Cosa succede quando l’industria bellica si trasforma in cultura pop? Oltre Call of Duty e i thriller tecnologici, storia di come abbiamo militarizzato il nostro sguardo

Qual è la natura del rapporto tra gli apparati bellici e la produzione di immaginario? È una domanda ambiziosa e a cui non è facile rispondere, certo; tuttavia, è bene porsela se vogliamo porci come obiettivo quello di analizzare in che modo, nella nostra epoca, si è creato quello che chiamerei «sapere militare diffuso» e quali ne sono le principali conseguenze. Per provare ad abbozzare una risposta potremmo dire che le forme di questo rapporto si configurano sempre entro due poli distinti e ben precisi: da una parte la produzione bellica di immagini; dall’altra la produzione di immagini belliche.

Credo che una delle migliori definizioni del primo di questi due termini la si possa trovare in quel celebre saggio di cultura visiva nel quale Paul Virilio definisce con l’espressione «logistica della percezione» il complesso rapporto che lega le tecnologie della guerra con quelle della visione, e in particolare con la tecnica cinematografica. Tra questi due apparati c’è infatti una relazione diretta: le moderne tecniche belliche sono anche tecniche di visualizzazione, attraverso le quali si produce l’obiettivo da distruggere. È una realtà che oggi diventa particolarmente evidente nel funzionamento dei moderni droni da attacco al suolo, macchine automatizzate in cui la funzione di sorveglianza e quella di annientamento si fondono insieme. Una sintesi in base a cui è il drone stesso, attraverso i suoi apparati di visualizzazione, a creare le condizioni per cui gli si danno le possibilità di sferrare un attacco distruttivo. Il drone perciò distrugge il suo obiettivo nel momento stesso in cui lo crea come tale. Ed è a questo genere di azioni, che hanno una lunga genealogia che va indietro fino alla Prima Guerra Mondiale, a cui mi riferisco quando parlo di una «produzione bellica di immagini».

Diverso è il caso della «produzione di immagini belliche». Con questa espressione faccio riferimento a tutte quelle pratiche mirate a creare immagini della guerra da far circolare nella società per ottenere determinati effetti. Ad esempio, la famosa immagine della bandiera americana issata a Iwo Jima è un caso perfetto di produzione di un’immagine bellica usata come forma di propaganda. Allo stesso modo, è un’immagine bellica l’immagine della bambina con la pelle liquefatta dal napalm, che è diventata una delle icone più durevoli del conflitto vietnamita. Ecco: il sapere militare diffuso i cui tratti vorrei provare a delineare qui, mi pare possa occupare una posizione a cavallo tra queste due polarità del rapporto tra guerra e immagini, ed è questo il suo principale motivo di interesse.

Apocalisse nel deserto: il destino delle immagini nella Prima Guerra del Golfo     

È la notte della vigilia di Natale del 1990. Con pochi, misurati gesti comando un F/A-18 Hornet nel buio, sorvolando il deserto iracheno con movimenti precisi, impressi al velivolo attraverso la cloche. La configurazione da attacco al suolo dell’aereo non lascia dubbi in merito alla mia missione: di lì a pochi minuti dovrò bombardare Baghdad. Ora, in caso ve lo stiate chiedendo, la risposta è no: non ho mai pilotato davvero un caccia da bombardamento e non ho mai nemmeno bombardato Baghdad. Eppure questa scena è accaduta davvero nella mia immaginazione di settenne. Quello che sto manovrando è in realtà soltanto un rozzo modellino di F/A-18 attaccato a una cloche con due pulsanti, premendo i quali si generano due diversi effetti sonori: il crepitare di una mitragliatrice, e la detonazione di una bomba ad alto potenziale. Il modellino fa parte di una serie di giocattoli molto pubblicizzata nei mesi precedenti al Natale del 1990, che sono anche i mesi in cui si sta svolgendo l’operazione Desert Storm, iniziata il 2 agosto dello stesso anno e passata alla storia come Prima Guerra del Golfo.

Dagli storici e dai teorici della dottrina militare, Desert Storm viene descritta come l’ultima grande battaglia campale prima che la guerra passi ad assumere quella dimensione «asimmetrica» che viene ormai considerata come la forma di conflitto più caratteristica della  contemporaneità digitale. Una forma di conflitto che vede opporsi agli eserciti invasori una galassia di forze insorgenti tanto atomizzate quanto efficaci nello spostare la dimensione temporale dello scontro dall’eccezionalità alla quotidianità, e per i cui esiti la capacità politica è senza dubbio più determinante della potenza tecnologica. La campagna in Afghanistan scatenata dopo gli attacchi al World Trade Center dell’11 settembre 2001 è forse l’esempio più eclatante di questa transizione. Nonostante la soverchiante superiorità tecnologica americana, la guerriglia dei talebani non solo non è stata sconfitta, ma ha avuto modo di rafforzare le sue posizioni a causa dei numerosi errori (politici) di valutazione commessi nel corso del più lungo conflitto della storia americana. Desert Storm è dunque il canto del cigno di una dottrina della guerra figlia del clima da «fine della Storia», che caratterizzava gli anni immediatamente successivi alla caduta del muro di Berlino e che poneva il primato tecnologico americano come il principale fattore globale di stabilità.

Desert Storm però è anche una guerra invisibile: l’apparato militare americano ne controlla ogni inquadratura, espungendo dallo spazio del visibile tutte le immagini più cruente; allo stesso, è una guerra fin troppo visualizzata, perché è caratterizzata da una produzione di immagini abbondante e attentissima, che mira a calibrare ogni informazione prodotta in funzione del suo effetto sull’opinione pubblica. Al tempo del Vietnam infatti, la produzione incontrollata di immagini cruente e scioccanti aveva costituito uno dei fattori più decisivi del conflitto, o se non altro uno dei più forti nell’alimentare l’opposizione interna alla guerra. Messi a diretto contatto con l’orrore di un conflitto caratterizzato da una soverchiante disparità di forze, anche gli americani più patriottici avevano avuto modo di interrogarsi sulla legittimità di un’impresa condotta a migliaia di chilometri di distanza contro un nemico che, per quanto potesse fare paura sul piano ideologico, si dimostrava tanto arretrato quanto tenace.

Se in una democrazia liberale non si può impedire ai giornalisti di coprire i teatri di guerra, ci si può sempre trasformare nel provider che fornisce loro i materiali.

Negli anni Settanta, il fallimento sul fronte interno aveva costretto i vertici militari americani a prendere atto di un panorama mediatico inedito e a confrontarsi con le sue conseguenze in termini di efficacia. Il controllo dell’informazione declinato nei termini della classica propaganda si era dimostrato insufficiente ad affrontare le sfide della società dell’immagine; era così emersa la necessità di ripensare su nuove basi il rapporto tra apparato bellico e sistema dell’informazione. Quella che stava nascendo dalle ceneri del conflitto nel sud est asiatico, era una logica inedita dei rapporti tra media e apparato bellico: all’inizio degli anni Novanta, Desert Storm ne avrebbe fornito un perfetto banco di prova.

Fu infatti in occasione dell’invasione dell’Iraq che l’apparato militare americano poté testare le strategie e le tattiche messe a punto per confrontarsi con lo spazio mediatico, presentandosi nel ruolo di produttore e controllore di immagini. Perché se in una democrazia liberale non si può impedire ai giornalisti di coprire con resoconti e reportage i teatri di guerra, ci si può sempre trasformare nel provider che fornisce loro i materiali e le occasioni per farlo. Nascono così, da questa necessità, la pratica di incorporare (embedding) i giornalisti alle unità militari in azione, e la creazione di sale di controllo dedicate alla stampa, raccontate da una serie come Generation Kill e da un documentario come Control Room (entrambi ambientati durante la Seconda Guerra del Golfo). Da qui nasce una nuova concezione della logistica bellica che incorpora l’informazione non più come forma di propaganda, ma come utente di una piattaforma di produzione e distribuzione di contenuti, il cui scopo ultimo – lo vedremo più avanti – è la creazione di quel sapere militare diffuso i cui contorni stiamo cercando di definire. Ora ci basti riconoscere che questa concezione, come abbiamo già visto, ha da un lato lo scopo di prevenire la circolazione di immagini sconvenienti, e dall’altro quello di determinare una produzione mirata e controllata non soltanto in termini di distribuzione e circolazione, ma anche in termini di resa estetica.

Estetica del sapere militare

Qualche anno dopo aver bombardato Baghdad nel soggiorno della casa dei miei nonni al comando di un modellino che riproduceva uno dei più famosi e longevi caccia d’attacco americani, mi trovo in un’edicola ad acquistare il primo numero di una collana di fascicoli della casa editrice De Agostini. Si tratta di una serie intitolata War Machine. Tecniche e impiego delle armi moderne. Il primo numero è dedicato proprio a uno dei sistemi d’arma più iconici della prima spedizione irachena: il carro armato da combattimento, ovvero il mezzo che aveva caratterizzato l’avanzata di terra della coalizione trasformandola in una folle corsa attraverso il deserto, diretta al cuore del regime di Saddam Hussein. A scanso di equivoci, sulla copertina del fascicolo campeggiava una foto a tutta pagina di un carro armato M1A Abrams, il più recente schierato dagli americani in Iraq, impegnato in quello che sembra essere a tutti gli effetti uno scenario desertico.

Dai libri fotografici alle videocassette, passando per le carte da gioco e le iniziative editoriali da edicola (oltre alla stessa War Machine se ne potrebbero citare decine di altre), negli anni Novanta immediatamente successivi a Desert Storm, si assiste a un fiorire di pubblicistica a tema militare. Protagonisti di questa ondata di prodotti editoriali non sono però le ricostruzioni storiche, le narrazioni di eroismo o di valore militare, e neppure le dissertazioni su tattica e strategia. A guadagnarsi le luci della ribalta in quegli anni furono invece le armi e gli armamenti. È abbastanza chiaro che la diffusione massiccia di queste immagini è una conseguenza del rinnovato ruolo di produttore assunto dall’apparato militare che, fedele alle logiche produttive capitaliste, aveva trovato un nuovo modo di mettere a valore i suoi stessi prodotti. Perché se durante lo svolgimento del conflitto la diffusione di immagini belliche era funzionale al controllo degli effetti sull’opinione pubblica, nel dopoguerra questa poteva diventare parte di una strategia comunicativa volta a rinforzare l’impressione di superiorità tecnica dell’apparato militare americano, proprio attraverso la creazione di quel sapere militare diffuso che la trasformazione in provider di immagini e informazioni della macchina bellica aveva reso possibile.

Ad accomunare tutta questa produzione è un’estetica che unisce la precisione del dettaglio tecnico (riportato con tabelle, dati e infografiche) a una forte componente emozionale, costruita attraverso un materiale fotografico sempre caratterizzato da un nitore di grado elevatissimo. Emerge così quella simbiosi tra l’elemento soggettivo, la bellezza emozionante della fotografia, e quello oggettivo, la visualizzazione della prestazione attraverso la presentazione del dato, che costituisce il cuore dell’estetica del sapere militare e che ha come effetto quello di rimuovere dall’orizzonte dello spettatore lo scopo ultimo di quelle macchine: ovvero il loro impiego come tecnologie di morte e distruzione.

Illusioni di realismo

A questa produzione bellica di immagini che consiste nella visualizzazione estetizzata delle tecnologie di guerra e nella presentazione sotto forma di dati delle loro prestazioni, corrisponde una precisa strategia testuale: il realismo. Tutto, in quelle immagini, mira a dare una rappresentazione veritiera, diretta e concreta dei sistemi d’arma. Essi rappresentano, in queste immagini, il solo orizzonte di possibilità entro cui può darsi il dominio di una superpotenza sul resto del mondo. Ovviamente non si tratta di una caso. A uno sguardo retrospettivo, il realismo sembra infatti essere il regime di senso dominante di un decennio che si era aperto con la caduta del muro di Berlino – la famosa fine della Storia, appunto. Secondo tale tesi, la fine del XX secolo coincideva con l’esaurimento di qualsiasi possibilità di trasformazione dell’esistente, e nella cristallizzazione del capitalismo come unico orizzonte plausibile. In quel tramonto del pensiero utopico – da cui ancora oggi, a quasi vent’anni di distanza, facciamo fatica a liberarci – l’esortazione a «essere realistici» e a riconoscere il capitalismo come unica modalità di articolazione dei rapporti economici e sociali, poteva essere ritrovata non soltanto nei discorsi dei politici, ma anche nelle estetiche dei prodotti di intrattenimento.

Basti pensare ad esempio ai videogiochi, nella cui resa grafica, proprio in questo periodo, comincia ad affermarsi (grazie all’aumento della potenza di calcolo degli hardware a disposizione) la tensione verso una forma di realismo fotografico che ha proprio il mondo fisico come suo termine di paragone. Alle estetiche 8 bit che avevano caratterizzato la totalità della produzione durante il decennio precedente, la rivoluzione a 16 bit degli anni Novanta affianca giochi che ricercano una rappresentazione realistica dei propri soggetti; prodotti che suggeriscono ai giocatori espressioni come «assomiglia a un film» o «sembra vero».

Il sapere militare, con la sua estetica oggettiva e iperrealistica, si inserisce alla perfezione lungo questa linea di sviluppo. Uno degli esempi più interessanti degli esiti di questo innesto lo possiamo ritrovare in Call of Duty, la celebre serie di first person shooter. Una delle sue caratteristiche più apprezzate è la vastissima scelta di armi a disposizione, che il giocatore può combinare tra loro per variare il proprio stile. Tutte le armi riportate nella simulazione sono realmente esistenti, presentate con tutti i crismi dell’estetica del sapere militare che abbiamo provato a descrivere finora: alle fotografie estetizzanti dei diversi fucili presenti nel gioco, si affiancano una serie di statistiche utili a descriverne gli effetti nella finzione ludica. Potere d’impatto, velocità, stabilità, sono solo alcuni dei parametri con cui vengono valutate le diverse opzioni presenti nel gioco.

Allo stesso modo della realtà, queste armi vengono presentate come tra loro differenti quando in effetti, nello spazio della simulazione, fatte salve le macrodifferenze che separano una categoria di armi dall’altra (un fucile da cecchino, ad esempio, ha un funzionamento differente da un fucile d’assalto che, a sua volta, si comporta diversamente da un fucile a pompa), non sembra esserci alcuna differenza nel loro comportamento. In Call of Duty un M4 spara all’incirca nello stesso modo in cui spara un ACR, e questo nonostante le differenze nelle statistiche che li descrivono. Viene quindi da chiedersi: visto che non producono alcun effetto sostanziale nelle meccaniche di gioco, queste statistiche a cosa sono funzionali? La risposta dovrebbe essere abbastanza chiara: alla produzione di quell’illusione di realismo che è uno degli effetti ideologici della diffusione del sapere militare, ovvero l’orizzonte testuale all’interno del quale si produce l’idea di una superiorità tecnologica che giustifica il dominio di un sistema economico e politico all’interno di una dimensione caratterizzata da un tempo continuativamente presente, depurato da ogni possibile tensione trasformativa.

Tecnofinzioni contemporanee

Come abbiamo cominciato a vedere, la diffusione del sapere militare non si esaurisce nella trasformazione dell’apparato militare in provider di informazioni, né negli adattamenti di carattere logistico che questa situazione comporta; piuttosto, si prolunga quando questo diventa un player nel panorama dell’intrattenimento. La storia dei rapporti tra l’apparato produttivo hollywoodiano e l’apparato bellico americano è emblematica di questo passaggio. Non è mia intenzione affrontarla qui nel dettaglio – altri lo hanno fatto in modo più esaustivo e teoricamente fondato – ma basti sapere che si tratta di una relazione duratura, in cui l’esercito ha fornito consulenza e mezzi all’industria del cinema in cambio della possibilità di accedere a uno dei più potenti strumenti in grado di plasmare l’immaginario collettivo. Dai film più dichiaratamente di propaganda come Top Gun fino alle pellicole catastrofiste, il sapere militare diffuso è diventato parte del linguaggio della cultura pop mondiale, presentandosi con i suoi canoni estetici e circolando molto liberamente all’interno del corpo sociale.

È nato così tutto un filone di intrattenimento tecnologico di cui fanno parte non solo film e videogiochi, ma anche romanzi dal taglio «popolare». È in particolare in questi ultimi che si delineano i confini di uno dei generi privilegiati delle tecnofinzioni contemporanee nate dalla diffusione del sapere militare. Con l’espressione «thriller tecnologico» si intende infatti un genere in cui elementi thriller, fantascientifici e di spionaggio convergono in narrazioni caratterizzate da una tensione e da un ritmo narrativi molto elevati. Ma al di là della tecnica di racconto utilizzata in queste opere, quello che interessa notare di più è il tipo di mondo che tali tecnofinzioni dipingono. Spesso e volentieri vengono infatti raccontate le conseguenze apocalittiche di uno sviluppo tecnologico potenziale e già esistente e già in atto. La dimensione fantascientifica viene qui declinata non tanto nei termini di una visione del futuro collocata in un altrove rispetto al tempo che stiamo vivendo, bensì in una visione del futuro «a corto raggio» che non è altro che il tempo che ci appartiene, solo leggermente sfalsato in avanti.

Su questa matrice s’innestano così narrazioni che propongono l’esplorazione di teorie del complotto e scenari fantapolitici che sembrano figli di un tentativo di modellare lo sviluppo storico in base all’analisi dell’esistente. Un caso emblematico è il secondo romanzo di uno dei più importanti esponenti di questo genere: sto parlando di Red Storm Rising di Tom Clancy, un romanzo del 1986 dove lo scrittore americano immagina uno scenario in cui, spinti da un attentato terroristico che ne mina le riserve energetiche, i vertici del Patto di Varsavia dichiarano guerra alla NATO con l’obiettivo di occupare il Medio Oriente. Ha così inizio un conflitto aperto tra i due blocchi, che si svolge per buona parte in mare e termina quando, messo di fronte alla possibilità di un conflitto nucleare, il comandante in capo della forze sovietiche mette in atto un colpo di stato e avvia trattative che conducono alla cessazione delle ostilità tra le due parti. Nel romanzo di Clancy, ci sono in nuce tutti gli elementi chiave dell’immaginario distillato dal sapere militare diffuso: la precisione tecnica nella descrizione dei sistemi d’arma e del loro utilizzo, la componente emozionale della guerra e, soprattutto, l’affermarsi di un tempo astorico in cui il dominio americano sul mondo è l’unico orizzonte di possibilità.

Che ha aspetto ha il mondo nell’epoca del sapere militare diffuso?

Affermatasi come scelta strategica per la gestione delle immagine belliche, la diffusione del sapere militare si è configurata come un’estetica in grado organizzare la visualizzazione della tecnologia bellica entro i termini di una emozionalità razionalmente fondata, funzionale all’affermazione di un realismo privo di temporalità ed elemento fondante del predominio capitalista su ogni altra forma di organizzazione della società. Tutto questo è stato possibile grazie soprattutto alla colonizzazione di importanti leve dell’immaginario pop, resa fattibile dalla relazione tra l’apparato militare e l’industria dell’intrattenimento. Tutto ciò quali conseguenze produce?

La prima, più evidente conseguenza dell’era del sapere militare diffuso, è senza dubbio la sua normalizzazione. Trattati come oggetti estetizzati, i sistemi d’arma e le tecnologie belliche perdono la loro funzione di strumenti di morte e distruzione, per diventare oggetto di ammirazione da cui distillare numerose forme di «sapere» grazie alla descrizione delle loro performance sotto forma di dati. Questa normalizzazione delle tecnologie militari consente loro di circolare più liberamente nel corpo sociale, producendo uno sguardo armato sul mondo e sul reale che ci circonda. Quanto più il sapere militare si diffonde, tanto più esso diventa una modalità di visualizzazione delle cose che, appunto, trasforma la visione in un’arma. Questo appare molto chiaramente in alcuni video in cui l’ISIS attinge a piene mani dall’estetica del sapere militare diffuso e la utilizza per i propri scopi di propaganda. Quelle immagini, rovesciando lo stereotipo dell’insorto jihadista che siamo abituati a fruire e trasformandolo da combattente resistente a tecnoforza in grado di competere con la potenza militare avversaria, servono insomma a militarizzare lo sguardo dei futuri militanti, trasformando la loro visione della realtà che li circonda in un’arma al servizio della lotta contro gli infedeli. Lo stesso processo che avviene a noi tutte le volte che le immagini con cui mediamo il mondo non lasciano spazi o interstizi tra la rappresentazione ipersoggettiva incorporata sul campo di battaglia e quella iperoggettiva e oggettivante delle visualizzazioni di dati.

La seconda conseguenza è, come già detto, il modo in cui questo tipo di visualizzazioni facilita l’affermazione di un tempo in cui la proiezione del futuro è pensabile soltanto nei termini di una progressione tecnologica che non ha alcun effetto trasformativo sull’esistente, se non quello declinato nelle forme e nelle conseguenze dell’apocalisse totale globale. Smilitarizzare l’immaginario e disarmare lo sguardo, si pongono dunque come un’urgenza per tutti coloro che, oggi, stanno lavorando per inventare il futuro e decostruire quella dimensione atemporale a cui il nostro reale sembra essere stato condannato più di vent’anni fa.