Fine del lavoro, vita magica

Uscire dall’economia, subito! Un estratto dall’antologia definitiva del Comitato Invisibile

Pubblichiamo un estratto da Comitato Invisibile, l’antologia pubblicata nella collana Not delle edizioni NERO che potete acquistare qui.

Durante il conflitto innescato in Francia dalla legge Lavoro fu questione di governo, di democrazia, di costituzione, di violenza, di migranti, di terrorismo, di tutto ciò che si vuole – ma si parlò appena di lavoro. In confronto, nel 1998 – al tempo del «movimento dei disoccupati» – non si parlò che di quello, fosse anche per rifiutarlo. Fino a non molto tempo fa, quando si incontrava qualcuno era ancora del tutto naturale domandargli: «E allora, che fai nella vita?». E la risposta veniva anch’essa naturalmente. Si riusciva ancora a dire che posizione si occupava nell’organizzazione della produzione. Poteva servire da biglietto da visita. Nel frattempo, la società salariale è andata talmente in pezzi che ormai si preferisce evitare di porre simili domande, visto che tendono a instaurare un certo imbarazzo. Tutti fanno cose, si sbattono, provano, biforcano, fanno una pausa, riprendono. Non è socialmente che il lavoro ha perso il suo splendore e la sua centralità, quanto esistenzialmente.

Di generazione in generazione, siamo sempre di più a essere in sovrannumero, «inutili al mondo» – quantomeno al mondo dell’economia. Sono già passati sessant’anni da quando gente come Wiener profetizzava che l’automazione e la cibernetizzazione avrebbero «prodotto una disoccupazione in confronto alla quale le attuali difficoltà e la crisi economica degli anni 1930-36 appariranno come uno scherzo», ed era quindi ora che ci arrivassimo. Stando alle ultime notizie, Amazon medita di aprire negli Stati Uniti 2000 negozi interamente automatizzati, senza casse e dunque senza cassieri, sotto controllo totale, con riconoscimento visuale dei clienti e analisi in tempo reale di ciascuno dei loro gesti. Una volta entrati si fa bippare il proprio smartphone su un dispositivo d’accesso, e poi ci si serve. Quello che prendete viene automaticamente addebitato sul vostro conto Premium grazie a un’applicazione, e quello che rimettete a posto riaccreditato. Si chiama Amazon Go. In questa distopia mercantile dell’avvenire, non esiste più denaro liquido, non ci sono più code, niente furti e quasi nessun impiegato. La previsione è che questo nuovo modello possa rivoluzionare l’intero campo della distribuzione, ovvero il più grande fornitore di lavoro degli Stati Uniti. A breve termine, dovrebbero sparire ¾ degli impieghi nel settore dei negozi di prossimità. Più in generale, se stiamo alle previsioni della Banca mondiale, entro il 2030 scomparirà, sotto la spinta dell’«innovazione», il 40% della massa degli impieghi esistenti nei paesi ricchi. «Noi non lavoreremo mai» era una bravata di Rimbaud. Sta diventando la lucida constatazione di un’intera gioventù.

Dall’estrema sinistra all’estrema destra, non mancano gli imbonitori che continuamente ci promettono di «ristabilire il pieno impiego». Quelli che vogliono farci rimpiangere l’epoca d’oro del lavoro salariato classico, che siano marxisti o liberali, hanno l’abitudine di mentire sulla sua origine: pretendono che il lavoro salariato ci abbia affrancati dal servaggio, dalla schiavitù e dalle strutture tradizionali – che insomma sia stato un «progresso». Ma ogni studio storico minimamente serio dimostra che, al contrario, è nato come prolungamento e raddoppiamento dei rapporti di servitù anteriori. Fare di un uomo il «detentore della propria forza lavoro» che questa forza è disposto a «venderla» – cioè far entrare nella consuetudine la figura del Lavoratore – ha richiesto non poche spoliazioni, espulsioni, saccheggi e devastazioni, un bel po’ di terrore, misure disciplinari e morti. Non vedere che il vero significato del lavoro non è tanto la produzione di merci ma la produzione di lavoratori – ovvero un certo rapporto a sé, al mondo e agli altri – vuol dire non capire nulla del carattere politico dell’economia. Il lavoro salariato fu la forma di mantenimento di un certo ordine. La violenza fondamentale che contiene – quella che ci viene fatta dimenticare dal corpo spezzato dell’operaio alla catena, dal minore portato via da un’esplosione di gas in miniera o dal burn out degli impiegati sotto pressione manageriale estrema – riguarda il senso della vita. Vendendo il suo tempo, diventando il soggetto di quello per cui lo si impiega, il salariato mette il senso della sua esistenza tra le mani di coloro per i quali questa è indifferente, vale a dire di chi quell’esistenza è votato a calpestarla. Il lavoro salariato ha permesso a generazioni di uomini e donne di vivere eludendo la questione del senso della vita, «rendendosi utili», «facendo carriera», «servendo». Al salariato, è sempre stato possibile rimandare tale questione a più tardi – diciamo: fino alla pensione – continuando nel frattempo a condurre un’onorevole vita sociale. E visto che tale questione, una volta pensionati, diventa «troppo tardi» per porsela, non resta che attendere pazientemente la morte. Si sarà riusciti così a passare un’intera vita senza essere mai entrati nell’esistenza. È così che il lavoro salariato ci ha alleggerito dell’ingombrante peso del senso e della libertà umana. Non è un caso che a indicare il vero volto dell’umanità contemporanea sia ancora oggi L’urlo di Munch. Quello che quel disperato non trova sulla banchina è la risposta alla domanda «come vivere?».

Alla maestosa figura del Lavoratore succede quella, rachitica, del Pezzente – perché il denaro e il controllo possano infiltrarsi ovunque è necessario che ovunque manchi del denaro.

Per il Capitale, la disgregazione della società salariale è allo stesso tempo un’opportunità di riorganizzazione e un rischio politico. Il rischio è che gli umani facciano un uso imprevisto del proprio tempo e della propria vita, cioè che prendano a cuore la questione del suo senso. Si è dunque fatto in modo che, fornendogli molte simpatiche distrazioni, non gli sia possibile usarla a proprio piacimento. Tutto accade come se dovessimo lavorare sempre di più in quanto consumatori, nello stesso momento in cui lavoriamo di meno in quanto produttori. Come se il consumo non significasse più una gratificazione, ma un obbligo sociale. D’altra parte, l’apparecchiatura tecnologica del divertimento si avvicina sempre più a quella del lavoro. Mentre, quando ci trasciniamo su Internet, ognuno dei nostri click produce dati che i GAFA rivendono, ciascuna fase del gioco viene abbellita a furia di score, tappe, bonus e altri messaggi infantilizzanti. Piuttosto che vedere nella fuga in avanti securitaria e nell’orgia di controllo attuali una risposta agli attentati dell’11 settembre, non sarebbe insensato vedervi una risposta al fatto economicamente stabilito che è proprio a partire dal 2000 che, per la prima volta, l’innovazione tecnologica ha provocato un abbassamento del volume degli impieghi. È necessario ormai poter sorvegliare in massa ognuna delle nostre attività, ognuna delle nostre comunicazioni, ognuno dei nostri gesti, disporre telecamere e sensori in ogni luogo, perché la disciplina salariale non è più sufficiente a controllare la popolazione. È solo a una popolazione perfettamente sotto controllo che si può pensare di offrire un reddito universale.

Ma non è questo l’essenziale. Bisogna soprattutto mantenere il regno dell’economia al di là dell’estinzione del lavoro salariato. Questo passa per il fatto che, se c’è sempre meno lavoro, tutto viene mediato dal denaro, fosse anche in quantità infime. In mancanza del lavoro, bisogna mantenere la necessità di guadagnare soldi per sopravvivere. E anche se un giorno il reddito universale sarà instaurato, come raccomandano molti economisti liberali, sarà necessario che il suo ammontare sia appena sufficiente per non morire di fame, ma assolutamente insufficiente per vivere, anche poveramente. Stiamo assistendo a un passaggio di consegne in seno dell’economia. Alla maestosa figura del Lavoratore succede quella, rachitica, del Pezzente – perché il denaro e il controllo possano infiltrarsi ovunque è necessario che ovunque manchi del denaro. Tutto, ormai, deve essere occasione per generare un po’ di moneta, un po’ di valore, per fare «un piccolo affare». L’offensiva tecnologica in corso deve essere compresa anche sotto forma di maniera per occupare e valorizzare tutti quelli che il lavoro salariato non permette più di sfruttare. Quello che viene troppo rapidamente descritto come uberizzazione del mondo si sviluppa in due maniere molto diverse. Da un lato ci sono Uber, Deliveroo e simili, questa offerta di lavoro non qualificato che non necessita di altro capitale che il proprio vecchio scooter. Ogni conducente è libero di autosfruttarsi quanto vuole, sapendo che, se vuole raggiungere l’equivalente di un salario minimo, dovrà correre almeno cinquanta ore alla settimana. Poi ci sono Airbnb, Blablacar, i siti per gli incontri, il «coworking» e persino il «co-homing», il «co-stoccaggio» e tutte le applicazioni che permettono di estendere all’infinito la sfera del valorizzabile. Ciò che si gioca nella sharing economy, con le sue infinite possibilità di valorizzazione, non è solo una mutazione della vita – è una mutazione del possibile, una mutazione della norma. Prima di Airbnb, una camera libera in un appartamento era una «camera per gli amici» o uno spazio suscettibile di qualche nuovo uso: oramai è un vuoto da riempire per guadagnare qualcosa. Prima di Blablacar, un tragitto da soli nella propria vettura era un’occasione per fantasticare o di prendere a bordo un autostoppista o che so io: adesso è un’occasione per fare un po’ di soldi in nero – e dunque, economicamente parlando, uno scandalo. Quello che prima si buttava nel cassonetto o che si regalava agli amici, ormai lo si vende su eBay. Bisogna che incessantemente e da ogni punto di vista non smettiamo mai di fare di conto. Che la paura di «perdere un’opportunità» sia il pungolo della vita. L’importante non è lavorare per un euro all’ora o guadagnare qualche centesimo scansionando contenuti per Amazon Mechanical Turk, ma ciò a cui potrebbe un giorno portare questa partecipazione. Tutto deve ormai entrare nella sfera della messa a profitto. Tutto diventa valorizzabile nella vita – anche i propri rifiuti. E noi stessi diventiamo dei pezzenti, rifiuti che poi ci scambiamo a vicenda con la scusa dell’«economia della condivisione». Se sempre più persone sono destinate a essere escluse dal lavoro salariato, non è per lasciar loro il piacere di darsi alla caccia ai pokemon al mattino e a pescare nel pomeriggio. L’invenzione dei nuovi mercati lì dove l’anno precedente non li si immaginava, illustra un particolare molto difficile da far comprendere a un marxista: il capitalismo non consiste tanto nel vendere ciò che viene prodotto, quanto nel rendere contabilizzabile quello che non lo è ancora; rendere valutabile ciò che la sera prima sembrava ancora essere assolutamente senza prezzo, creare nuovi mercati: è questa la sua riserva oceanica d’accumulazione. Il capitalismo è l’estensione universale della misura.

In economia, la teoria del Pezzente si chiama «teoria del capitale umano». È più presentabile. L’OCSE la definisce ancora oggi come «l’insieme delle conoscenze, qualifiche, competenze e caratteristiche individuali che facilitano la creazione del benessere personale, sociale ed economico». Joseph Stiglitz, l’economista-di-sinistra, stima che il «capitale umano» rappresenti oggi tra i 2/3 e i 3/4 del capitale totale; di che dare ragione al titolo senza ironia del libro di Stalin: L’uomo, il capitale più prezioso. Secondo Locke, l’uomo era «il proprietario della sua persona. Nessun altro se non egli stesso possiede un diritto su di essa, il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani gli appartengono in proprio» (Trattato del governo civile); cosa che secondo lui non escludeva né la servitù né la colonizzazione. Marx ne fece il proprietario della sua «forza lavoro» – un’entità metafisica abbastanza misteriosa, a dire il vero. Ma, nei due casi, l’uomo era proprietario di qualcosa che poteva alienare restando comunque intatto. Era formalmente altra cosa da ciò che vendeva. Con la teoria del capitale umano, l’uomo è meno il detentore di un’aggregazione indefinita di capitali – culturale, relazionale, professionale, finanziario, simbolico, sessuale, medico – di quanto non sia egli stesso questa aggregazione. Lui è capitale. Arbitra di continuo tra l’accrescimento di ciò che è in quanto capitale, e il fatto di monetizzarlo su questo o quel mercato. È inseparabilmente il produttore, il prodotto e il venditore del prodotto. I calciatori, gli attori, le star, gli youtuber di successo sono logicamente gli eroi dell’epoca del capitale umano, coloro il cui valore coincide integralmente con quello che sono. La microeconomia diviene allora la scienza generale dei comportamenti, che sia nell’impresa, in chiesa o in amore. Ciascuno diventa un’impresa vitale di autopromozione. L’uomo diviene per essenza la creatura ottimizzatrice – il Pezzente.

Il regno del Pezzente è un aspetto di quello che la rivista Invariance chiamò, alla fine degli anni Sessanta, l’antropomorfosi del Capitale. A misura che il Capitale «realizza nel presente, sull’intero pianeta, come sull’intera specie, come sull’intera vita di ciascun uomo, i modi di una colonizzazione integrale dell’esistente che si connota nei termini di un dominio reale […], l’Io-capitale è la nuova forma che il valore vuole assumere, inseguito dalla svalorizzazione. In ciascuno di noi il Capitale chiama al lavoro la forza viva» (Cesarano, Apocalisse e rivoluzione). Questo movimento è quello attraverso cui il Capitale si appropria di tutti gli attributi umani, e tramite il quale gli umani si fanno supporto neutro della valorizzazione capitalista. Il Capitale non determina solamente la forma delle città, il contenuto del lavoro e dei divertimenti, l’immaginario delle folle, il linguaggio della vita reale e quello dell’intimità, le maniere d’essere alla moda, i bisogni e la loro soddisfazione; produce anche il proprio popolo. Genera la propria umanità ottimizzatrice. Qui, tutte le cantilene sulla teoria del valore fanno la loro entrata al museo delle cere. Prendiamo il caso del dancefloor di una discoteca: nessuno è lì per i soldi, ma per divertirsi. Nessuno è costretto ad andarci come si va al lavoro. Non c’è uno sfruttamento manifesto, non c’è circolazione visibile di denaro tra i futuri partner intenti a ballare. E tuttavia tutto, in quel momento, non è altro che valutazione, valorizzazione, autovalorizzazione, preferenze individuali, strategie, appropriazione ideale, sotto la costrizione dell’ottimizzazione, di un’offerta e di una domanda – in breve: puro mercato neoclassico e capitale umano. La logica del valore coincide ormai con la vita organizzata. L’economia in quanto rapporto al mondo eccede da molto tempo l’economia in quanto sfera autonoma. La follia della valutazione domina evidentemente ogni aspetto del lavoro contemporaneo, ma è anche regina di tutto ciò che gli sfugge. Determina finanche il rapporto a sé di un corridore solitario il quale, per migliorare le sue performance, deve già conoscerle. La misura è diventata il modo di essere obbligatorio di tutto quello che intende esistere socialmente. I media sociali indicano del tutto logicamente l’avvenire della valutazione onnilaterale che ci è promessa. Su questo punto, ci si può affidare alle profezie di Black Mirror come a quelle di un entusiasta analista dei mercati contemporanei: «Immaginate che domani, a ogni piccola parola postata sulla rete, per qualsiasi chiacchiera, scambio, incontro, transazione, condivisione o comportamento online, dovrete prendere in considerazione l’impatto che questo avrà sulla vostra reputazione. Considerate poi che la vostra reputazione non sarà più una sorta di fragranza immateriale che alcuni potranno sondare presso i vostri amici e partner professionali, ma un vero certificato di affidabilità universale stabilito da algoritmi complessi basati sull’incrocio delle mille e una informazioni che vi concernono e che circolano in rete… Dati che a loro volta vengono incrociati con la reputazione delle persone che avrete frequentato! Benvenuti nel futuro imminente, dove la vostra “reputazione” sarà concretamente schedata, universale e accessibile a tutti: un sesamo relazionale, professionale, commerciale, capace di aprirvi o di chiudervi le porte di una candidatura all’autocondivisione su Mobizen o Deways, di un incontro amoroso su Meetic o Attractive World, di una vendita su eBay o Amazon… E ancora oltre, stavolta nel mondo tangibile: un incontro professionale, una transazione immobiliare o un credito bancario… Ormai e in maniera sempre crescente, le nostre manifestazioni in rete vanno a costituire il fondamento della nostra reputazione. Di più: il nostro valore sociale diventerà un indicatore del nostro valore economico».

Quello che c’è di nuovo nell’attuale fase del Capitale è che dispone oggi dei mezzi tecnologici per una valutazione generalizzata, in tempo reale, di tutti gli aspetti degli esseri. La passione per i voti e la valutazione reciproca è scappata dalle aule scolastiche, dalla Borsa e dai registri dei capireparto per invadere tutti i campi della vita. Se si ammette la nozione paradossale di «valore d’uso» per designare «il corpo stesso della merce […], le sue proprietà naturali […] un complesso di molte qualità» (Marx), il campo del valore si è affinato al punto che arriva ad afferrare da molto vicino questo famoso «valore d’uso», le caratteristiche degli esseri, dei luoghi e delle cose: aderisce oramai ai corpi fino a coincidervi, come fosse una seconda pelle. È quello che un economista-sociologo, Lucien Karpik, chiama «l’economia delle singolarità». Il valore delle cose non si distingue più, tendenzialmente, dalla loro esistenza concreta. Un finanziere francolibanese, Bernard Mourad, ne ha fatto un romanzo: Les Actifs corporels. Può essere utile sapere che l’autore è passato dalla banca d’affari Morgan Stanley alla presidenza di Altice Media Group – il ramo della holding di Patrick Drahi che controlla notoriamente Libération, L’Express e i24 News – prima di diventare il consigliere speciale di Emmanuel Macron durante la sua campagna elettorale. In questo romanzo immagina l’entrata in Borsa di una persona – ovviamente un banchiere – che porta con sé un bilancio psicanalitico, uno professionale e un check-up biologico. Il racconto dell’introduzione sul mercato di una «società-persona» nel quadro di una «Nuova Economia Individuale» era al tempo della sua pubblicazione, nel 2006, un’anticipazione. È ormai il Medef che propone di applicare un numero SIRET [numero identificativo delle imprese, NdT] a ogni francese che nasce. Il valore degli esseri diviene l’insieme delle loro «caratteristiche individuali» – la loro salute, il loro humor, la loro bellezza, il loro savoirfaire, le loro relazioni, il loro «saper-essere», la loro immaginazione, la loro «creatività», ecc. È questa la teoria – e la realtà – del «capitale umano». Il campo del valore si è annesso così tante dimensioni da diventare uno spazio complesso. È divenuto l’insieme del dicibile, del leggibile, del visibile, socialmente. Il valore che era formalmente sociale, lo è diventato realmente. Allo stesso modo in cui il denaro ha perduto il suo carattere di impersonalità, di anonimato, di indifferenza, per trasformarsi in informazione tracciabile, localizzata, personalizzata, anche la moneta è diventata vivente. «Il mondo moderno», scriveva Peguy, «non è universalmente prostituzionale per lussuria. Ne è del tutto incapace. È universalmente prostituzionale perché è universalmente interscambiabile». Qualcosa di prostituzionale entra dovunque regna il nostro «valore sociale», ovunque si scambia una parte di noi contro la più piccola retribuzione, che sia finanziaria, simbolica, politica, affettiva o sessuale. I siti d’incontro contemporanei mostrano un notevole caso di prostituzione fun e reciproca, ma ormai ci si vende sempre e ovunque. Chi può dire, in tempi in cui ogni capitale reputazionale è così facilmente convertibile in plusvalore sessuale, che non siamo in una «fase industriale in cui i produttori hanno i mezzi d’esigere, a titolo di pagamento, degli oggetti sensibili da parte dei consumatori, essendo questi oggetti degli esseri viventi. […] In quanto mercato parallelo alla moneta inerte, la moneta vivente al contrario [è] suscettibile di sostituirsi al valore aureo, impiantarsi nelle abitudini e istituirsi nelle norme economiche»? (Pierre Klossowski, La Moneta vivente).

La vertigine del denaro si deve al suo carattere di pura potenzialità. L’accumulazione monetaria è il rinvio di ogni godimento effettivo in quanto il denaro mette in equivalenza come possibili l’insieme di quello che permette di comprare. Ogni spesa, ogni acquisto è innanzitutto perdita, rispetto a quello che il denaro può. Ogni godimento determinato che permette di acquistare è prima di tutto negazione dell’insieme degli altri godimenti potenziali che contiene in sé. All’epoca del capitale umano e della moneta vivente è ciascun istante della vita, ogni relazione effettiva ad essere ormai avvolta dall’insieme dei possibili equivalenti che la pregiudica. Essere qui è innanzitutto un insopportabile rinuncia ad essere altrove, lì dove la vita è apparentemente più intensa – almeno stando a quello di cui si incarica di informarci il nostro smartphone. Essere con questa persona è un insostenibile sacrificio nei confronti dell’insieme delle altre persone con cui si potrebbe essere. Ogni amore viene immediatamente annientato dall’insieme degli amori possibili. E quindi impossibilità di essere qui, incapacità di essere insieme. E dunque malessere universale. Tortura dei possibili. Malattia mortale. «Disperazione», avrebbe diagnosticato Kierkegaard.

L’economia non è soltanto quello da cui dobbiamo uscire per smettere di essere dei pezzenti. È semplicemente quello da cui bisogna uscire per vivere, per essere presenti al mondo. Ogni cosa, ogni essere, ogni luogo è incommensurabile in quanto è qui. Possiamo misurare una cosa quanto vogliamo, sotto tutti i suoi aspetti e le sue dimensioni, ma la sua esistenza sensibile sfugge eternamente a ogni misura. Ogni essere è irriducibilmente singolare, se non altro perché lo è qui e ora. Il reale ne è l’ultima, incalcolabile, ingestibile, istanza. È per questo che c’è bisogno di tante misure di polizia per preservare una parvenza di ordine, di uniformità, di equivalenza. «La stupenda realtà delle cose / è la mia scoperta di tutti i giorni / Ogni cosa è quel che è / e è difficile spiegare quanto questo mi rallegri, quanto questo mi basti / Basta esistere per esser completo […] Se stendo il braccio, arrivo esattamente dove arriva il mio braccio / Non un centimetro più lontano / Tocco solo dove tocco, non dove penso / Mi posso sedere solo dove sto / E questo fa ridere come tutte le verità assolutamente veritiere / Ma ciò che fa ridere sul serio è che pensiamo a un’altra cosa e siamo vagabondi nel nostro corpo» (Alberto Caeiro). L’economia – è il suo principio – ci fa correre come topi, così che non ci troviamo mai qui, in modo da non poter scoprire l’altarino della sua usurpazione: la presenza.

Uscire dall’economia significa far emergere il piano di realtà che essa ricopre. Lo scambio mercantile e tutto quello che comporta in termini di aspra negoziazione, di sospetto, di imbroglio, di wabu wabu – come dicono i melanesiani – non è una specificità occidentale. Lì dove si sa vivere, rapporti del genere vengono praticati solo con gli stranieri, cioè con delle persone con le quali non si ha alcun legame e che sono abbastanza lontane perché un imbroglio non possa finire in una conflagrazione generale. Pagare, in latino, viene da pacare: «soddisfare, calmare», ad esempio distribuendo denaro ai soldati perché possano comprarsi del sale – un salario, insomma. Si paga per avere la pace. Tutto il vocabolario dell’economia è in fondo un vocabolario della guerra evitata. «C’è un legame, una continuità, tra le relazioni ostili e la fornitura reciproca di prestazioni: gli scambi sono delle guerre risolte pacificamente, le guerre sono il risultato di transazioni sfortunate» (Lévi-Strauss). Il vizio dell’economia è quello di ridurre tutte le possibili relazioni a rapporti di ostilità, tutte le distanze all’estraneità. In questo modo occulta tutta la gamma, la gradazione, l’eterogeneità tra le diverse relazioni esistenti e immaginabili. A seconda del grado di prossimità tra gli esseri vi è comunità dei beni, condivisione di certe cose, scambio a reciprocità equilibrata, scambio mercantile, assenza totale di scambio. E ogni forma di vita ha il suo linguaggio e le sue concezioni per dire tale molteplicità di regimi. Far pagare i bastardi è giusto. Chi ama non calcola. Lì dove il denaro vale qualcosa, la parola non vale niente. Laddove la parola vale, a non valere niente è il denaro. Uscire dall’economia vuol dire essere in grado di distinguere nettamente tra le condivisioni possibili, dispiegare a partire da dove si è tutta un’arte delle distanze. È respingere il più lontano possibile i rapporti ostili e la sfera del denaro, della contabilità, della misura, della valutazione. Significa spingere ai margini della vita ciò che oggi ne è la norma, il cuore e la condizione.

Non esiste «un’altra economia»: quello che esiste è un altro rapporto all’economia. Un rapporto di distanza e di ostilità, giustamente.

C’è un sacco di gente, ai nostri giorni, che tenta di sfuggire al regno dell’economia. Diventano panettieri anziché consulenti. Si mettono in disoccupazione appena possono. Fanno delle cooperative, cercano di «lavorare diversamente». Ma l’economia è così ben costruita che ha ormai un settore, quello dell’«economia sociale e solidale», che funziona proprio grazie all’energia di chi cerca di sfuggirgli. Un settore che ha diritto a un ministero particolare e che pesa per il 10% del PIL francese. Si sono disposte tutta una serie di reti, di discorsi, di strutture giuridiche, per raccogliere i fuggiaschi. Questi si dedicano il più sinceramente possibile al proprio sogno, ma la loro attività viene socialmente ricodificata, e questa codificazione finisce per imporsi su quello che fanno. Si prende in carico collettivamente la manutenzione delle fonti d’acqua del proprio villaggio, e un giorno ci si ritrova a «gestire i beni comuni». Pochi settori hanno sviluppato un amore così fanatico per la contabilità, per la cura della legalità, della trasparenza o dell’esemplarità, quanto quello dell’economia sociale e solidale. In confronto, qualsiasi «piccola e media impresa» è un lupanare contabile. Abbiamo centocinquant’anni d’esperienza di cooperative per sapere che queste non hanno mai minimamente minacciato il capitalismo. Quelle che sopravvivono finiscono, presto o tardi, per trasformarsi in imprese come altre. Non esiste «un’altra economia»: quello che esiste è un altro rapporto all’economia. Un rapporto di distanza e di ostilità, giustamente. Il torto dell’economia sociale e solidale è di credere alle strutture di cui si dota. Significa pretendere che quello che vi accade all’interno coincida con gli status, con il suo funzionamento ufficiale. Il solo rapporto che si può avere con le strutture delle quali ci si dota è di utilizzarle come paraventi al fine di fare tutt’altra cosa rispetto a quello che l’economia autorizza. Significa dunque essere complici di questo uso e di questa distanza. Una tipografia commerciale tenuta da un amico metterà a disposizione le sue macchine nel weekend, quando non sono ufficialmente in funzione, e la carta sarà pagata al nero perché niente compaia. Una banda di amici falegnami utilizza tutto il materiale al quale hanno accesso nella propria bottega per costruire una capanna per la ZAD. Un ristorante, la cui insegna è onorevolmente conosciuta in tutta la città, accoglie, al di fuori dei suoi orari di servizio, le discussioni tra compagni che devono sfuggire agli occhi della questura. Possiamo ricorrere a delle strutture «economiche» solo a condizione di perforarle.

In quanto struttura economica, nessuna impresa ha senso. Essa è, tutto qui; ma non è niente. Il senso le può arrivare solo da un elemento estraneo all’economia. Generalmente è compito della «comunicazione» rivestire la struttura economica del senso che le fa difetto – d’altra parte, bisogna considerare le ragioni d’essere e l’esemplare significato morale che volentieri si danno le entità dell’economia sociale e solidale come una banale forma di «comunicazione», diretta tanto verso l’esterno che al proprio interno. Questo permette ad alcune di loro di convertirsi in nicchie che si permettono da un lato di praticare dei prezzi incredibilmente alti, e dall’altro di sfruttare la gente in modo altrettanto «vergognoso» ai fini «della causa». La struttura perforata, al contrario, prende il suo senso non da ciò che comunica, ma da quello che mantiene segreto: la sua partecipazione clandestina a un disegno politico molto più vasto, il suo uso a fini economicamente neutri o insensati ma politicamente giudiziosi, i mezzi che in quanto struttura economica ha vocazione ad accumulare senza fine. Organizzarsi in maniera rivoluzionaria sotto la copertura di un maquis di strutture legali che fanno scambi tra loro è possibile, ma rischioso. Tra le altre cose, potrebbe fornire una copertura ideale a relazioni cospirative internazionali. Nondimeno, la minaccia resta sempre quella di ricadere nella routine economica, di perdere il filo di ciò che si fa, di non percepire più il senso della cospirazione. Rimane il fatto che bisogna organizzarsi, organizzarsi a partire da quello che amiamo fare e darsene i mezzi.

La sola misura dello stato di crisi del capitalismo è il grado di organizzazione delle forze che vogliono distruggerlo.