Design vs. Macchine del tempo

Dexter Sinister, paradossi temporali, Bruno Munari e la sua controversa eredità: incontro con David Reinfurt, tra i più importanti designer della sua generazione

David Reinfurt è un graphic designer e saggista di New York, tra i più importanti della sua generazione e del panorama contemporaneo in generale. I suoi lavori sono disseminati lungo una trama complessa, di natura collaborativa, spesso difficile da seguire e tracciare: è co-editor di The Serving Library, una rivista che si colloca tra progettazione, arti visive, tecnologia e letteratura, composta da pdf scaricabili on demand e raccolti ogni sei mesi in formato fisico da Sternberg Press; O-R-G è invece una piccola software house con cui progetta e vende app, screensaver e siti dalla vocazione sperimentale; infine, con Stuart Bertolotti-Bailey ha fondato Dexter Sinister, uno studio/libreria nel Lower East Side che indaga l’editoria e le tecniche di produzione secondo il modello Just-in-Time, utilizzando cioè strumenti economici disponibili nel breve raggio e strategie di distribuzione alternative.

Nella sua ricerca, Reinfurt ha sempre messo in crisi i confini tra design e arte, indagando (anche da un punto di vista «concettuale») i rapporti dati per consolidati tra tecnologia, ricerca, scrittura e editoria. Molto del suo lavoro ha a che fare con il tempo: come medium, come misura, a volte come soggetto. Come ci ha raccontato David in una recente conversazione, «nel 2011 con Dexter Sinister abbiamo pubblicato A Note on the Time, un testo che spiega come i computer in rete si sincronizzano all’ora corrente. Ma la conclusione a cui siamo arrivati, è di tipo paradossale. Perché, come spesso ripeto, il tempo è sia punto sia durata: è così che può piegarsi e curvarsi. Una settimana, un secondo, una stagione: sono tutte equivalenti discrete, ma nessuna è la stessa. Il presente può essere qualsiasi tipo di lunghezza, dalla singola vibrazione di un atomo di cesio al ciclo di vita di una pubblicazione».

Dal 7 aprile fine al 9 giugno di quest’anno, a Dexter Sinister è dedicata una mostra alla galleria COLLI di Roma; è la seconda volta che COLLI ospita il lavoro di Reinfurt: la prima fu esattamente un anno fa, e in entrambe le occasioni a tornare sono linee di ricerca comuni e tra loro collegate. Se infatti l’appuntamento del 2018 porta il titolo di How to Design (Multiples), quello dell’anno scorso rileggeva l’eredità di una figura che il concetto di «multiplo» (vedi oltre) l’ha a lungo indagato, ovvero Bruno Munari. Ma di nuovo, se di eredità munariana è possibile parlare a proposito di Dexter Sinister, è impossibile non partire da quello che è il nucleo centrale – addirittura in senso «filosofico» – della prassi di Reinfurt. E cioè sempre lui: il tempo.

Nel 2014, Dexter Sinister riunì alcuni lavori in una mostra al CAC di Vilnius. Tra i progetti esposti, compariva anche una stampa in particolare – questa:

A raccontarcela è Reinfurt in persona: «È un lavoro del 2009: si intitola Watchscan 1200dpi ed è stato ottenuto appoggiando il mio orologio Omega su un normale scanner, e lanciando una scansione a risoluzione molto alta. Ora: la lampada dello scanner si muove più lentamente della lancetta dei secondi, così nell’immagine risultante la lancetta sembra piegarsi. Osservando più da vicino, si frammenta addirittura in rosso, verde e blu, i canali che compongono le immagini proiettate o digitali…»

Dettaglio della lancetta frazionata in tre colori di Watchscan 1200dpi

La stampa presentata a Vilnius non è l’unica versione di Watchscan 1200 dpi. O meglio: diciamo che, più che diverse versioni, Watchscan 1200 dpi ha conosciuto diverse vite; nel tempo, la sua immagine è stata prima usata per la locandina della mostra AVANT-GUIDE TO NYC: Discovering Absence, poi pubblicata come cartolina, poi presentata come stampa serigrafica dalla stessa galleria COLLI di Roma. Ma è stata anche «pubblicata» come semplice .jpg da Badlands Unlimited (la casa editrice di Paul Chan), ed è forse in questa incarnazione che l’opera acquisisce il suo vero significato: perché in un certo senso, quello che si vede nell’immagine accade proprio a causa della creazione per via digitale dell’immagine stessa.

Con Reinfurt nulla sembra mai essere veramente concluso e tutto si muove sull’ambigua linea del paradosso: Watchscan 1200dpi è un classico esempio, tanto che sembra contagiare finanche il mondo che lo circonda. Prendiamo un caso che ci riguarda da vicino: nel 2011, in un workshop con Karel Martens, uno dei due autori dell’articolo che state leggendo (per la precisione Federico Antonini) si accingeva senza saperlo a produrre un plagio di un altro lavoro firmato Dexter Sinister – solo che questo lavoro ancora non era stato concepito. In effetti, più che di plagio si tratta di un’anticipazione dai connotati bizzarri, una sorta di predizione che, ancora una volta, chiama in causa la categoria di tempo: nello specifico, il lavoro in questione consisteva in una serie di scansioni di orologi, e in particolare di un modello digitale Casio, l’f-91. Qui un esempio:

Federico Antonini, 19:1*, 2011

L’obiettivo era evidenziare il paradosso della relazione inversa tra risoluzione della scansione e leggibilità dell’immagine, colta nel momento in cui i due strumenti di misurazione (orologio e scanner) s’incontrano. Il processo aveva chiaramente molto in comune col Watchscan, 1200 dpi di Reinfurt, ma oggetto e risultato portavano comunque a un risultato diverso. Solo che…

Solo che, ricorda Reinfurt, «qualche anno dopo Watchscan, 1200 dpi, ci venne chiesto di lavorare alla visualizzazione del tempo su un esemplare Casio. Era un modello digitale, e per essere precisi un f-91w. Abbiamo pensato avesse senso procedere con lo stesso approccio usato per la scansione dell’orologio analogico e applicarlo materialmente ai sette segmenti dello schermo LED. Alla fine ci siamo trovati a progettare un modello Casio che rallentava la visualizzazione del tempo sullo schermo da sinistra a destra. La cosa assurda – e direi quasi magica – è che lavorando su questa idea mi misi a cercare su Google Immagini qualcosa tipo “dexter sinister watchscan 1200 dpi casio digital watch”… E quello che Google mi ha restituito è stata l’immagine del tuo lavoro sullo stesso modello Casio! Sembrava quasi che il progetto fosse stato realizzato prima di essere partito…»

Dexter Sinister, Watch Wyoscan 0.5 Hz, 2012

Paradossi temporali del genere spiegano bene l’elusivo scenario in cui si muove Reinfurt. Quantomeno, diciamo che il fatto che i Dexter Sinister siano casualmente inciampati nel Casio f91w scansionato da Federico porta la storia a un livello non lineare di eventi: ma a dire il vero tutto, quando si parla di Dexter Sinister, tradisce caratteristiche che di lineare hanno poco. Uno degli aspetti più interessanti della pratica di Reinfurt, è per esempio la generazione e gestione «editoriale» delle molteplici incarnazioni di una stessa idea di fondo. Raramente un loro progetto è autoconclusivo, e ogni variabile sembra costantemente rimandare a infinite altre: basti pensare al rapporto che lega il disegno del font m.t.d.b.t.f., il logo concepito per la galleria Kadist, e il saggio intitolato Letters and Spirit.

m.t.d.b.t.f. sta per Meta the Difference between The Two Fonts: il carattere è stato disegnato da Dexter Sinister nel 2010 utilizzando Metafont, un sistema di disegno parametrico progettato da Donald Knuth nel 1979. Solitamente, gli editor di caratteri tipografici tradizionali sono basati sul disegno di outline (i contorni) che definiscono i glifi; Metafont invece utilizza un set di parametri tramite i quali il disegno varia istantaneamente ogni volta che questi parametri sono modificati, tramite un processo di disegno «stroke based» (in sostanza, una serie di pennini calligrafici che tracciano il disegno lungo uno scheletro preordinato). La cosa notevole è che un carattere Metafont è definito da un sistema di equazioni piuttosto che da una lista di coordinate su un sistema cartesiano: detta altrimenti, è un font per sua natura aperto, che muta in continuazione. Per Dexter Sinister, questo carattere tipografico è diventato non solo un elemento distintivo dei propri progetti, ma anche un vero e proprio manifesto ideologico.

Le caratteristiche di Metafont raccontate da Dexter Sinister in Letter and Spirit

Nel logotipo di Kadist, Dexter Sinister sviluppa ulteriormente il lavoro su m.t.d.b.t.f., e lo fa aggiungendo – guarda caso – proprio la dimensione del tempo: la tipografia, infatti, cambia lievemente ogni giorno lungo un lasso di tempo programmato di dieci anni. Nel saggio Letter and Spirit, i Dexter Sinister indagano quindi le possibilità implicite di un meta-carattere che, potenzialmente, contiene al suo interno già tutte le versioni e permutazioni possibili e immaginabili. È insomma chiaro come la natura intrinsecamente variabile del processo di disegno del meta-carattere rafforzi quel concetto di variazione e paradosso temporale su cui ragiona lo stesso Watchscan 1200dpi.

La prima volta che ci imbattemmo in Watchscan 1200dpi fu nel 2013, nel corso di un talk di Dexter Sinister nei giorni di apertura della Biennale di Venezia. In quella stessa edizione della Biennale, all’Oo Pavilion (il padiglione congiunto Cipro-Lituania) Dexter Sinister presentò anche The Last ShOt Clock: versione modificata di due tabelloni segnapunti elettronici da basket. Nell’ambiente brutalista del padiglione, il visitatore poteva inoltre comporre una guida raccogliendo dei fogli A4 stampati in bianco e nero. Uno dei fogli riportava questo scambio di battute (forse proveniente da questo blog):

Interlocutor: I never thought that this could happen. Can a time traveler go back in time one, two or three seconds with a time machine? I refer to its precision.
Kether: Correct, time machines have that precision.

Per Reinfurt, «è chiaro come il tempo possa essere tanto il “punto” quanto la “durata” esperiti all’interno di un certo intervallo. “Punto e durata” è solo un altro modo per raccontare la dualità onda/particella, il modello prevalente che i fisici usano per descrivere la natura della realtà quantistica – che poi sarebbe a dire la “realtà” e basta, no?». Questa dualità apparentemente inconciliabile, fa tornare alla mente la dialettica tra quadrato e cerchio e a sua volta richiama una delle opere più note dell’artista Gino De Dominicis: il filmato intitolato Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua (1969). Nel video di De Dominicis, quella a cui assistiamo è apparentemente una frustrazione: com’è possibile, gettando un sasso nell’acqua, produrre dei quadrati anziché dei cerchi? Eppure al centro dell’opera c’è proprio la potenzialità che si cela nell’atto del tentare, la possibilità di infinite, infrasottili variazioni tra due estremi.

La prassi del tentativo, è per inciso quella che (in quanto designer) ci interessa come Superness, il progetto di studio e ricerca dei due autori dell’articolo che state leggendo. Il nome Superness ci viene ancora una volta da Metafont, il sistema di disegno parametrico utilizzato da Dexter Sinister per m.t.d.b.t.f. Nel sistema di Metafont, col nome «superness» viene indicato un parametro in particolare: e cioè proprio quello che permette di controllare le varianti di possibilità tra un quadrato e un cerchio, influenzando la forma di un intero carattere tipografico. Così come «punto» e «durata», è interessante come il quadrato e il cerchio siano matematicamente opposti e non compatibili, anche nel disegno automatizzato: la crescita del quadrato tende al cerchio ma non lo raggiunge mai. È qui che torna utile l’esempio di De Dominicis: a essere interessanti sono proprio le posizioni intermedie, il dubbio come forma d’indagine che spinge al «workaround», alla deviazione e alla ricerca di metodi alternativi a quelli tradizionali.

Per Reinfurt, c’è un altro nome – sempre italiano – che incarna alla perfezione quella che Reinfurt stesso chiama «la tensione formale tra cerchio e quadrato»: e questo nome non può che essere Bruno Munari. Reinfurt si riferisce in particolare a un progetto classico come il Tetracono: un cubo di 15 cm con dentro quattro coni rotanti, le cui relative basi appoggiano sulle quattro facce del cubo. Il risultato è un oggetto contenente quattro coni bicolori (metà rossi e metà verdi) che ruotando producono combinazioni cromatiche sempre diverse. Un’opera d’arte cinetica, insomma.

Il Tetracono di Bruno Munari, 1965.

Munari progettò e presentò il Tetracono nel 1965, allo showroom Danese di Milano. Nel giugno 2017, al termine della sua residenza all’Accademia Americana di Roma, David Reinfurt ha invece presentato alla galleria COLLI di Roma Meet the Tetracono, un lavoro in parte installativo che – com’è facile intuire dal titolo – proprio al progetto originario di Munari si ispira, e che è nato da una ricerca poi documentata nel bollettino di The Serving Library e in un talk itinerante.

Ad attirare Reinfurt è stata quella che il designer americano chiama «la trasparenza geometrica» del Tetracono originale: «Munari fu molto specifico sulla relazione precisa e razionale tra le parti del Tetracono, al punto da produrre anche un diagramma che descriveva nel dettaglio la sua costruzione fisica. Io sono partito proprio da lì, dal ridisegno dei diagrammi e dal “DNA” del progetto». Inevitabilmente, si torna alla dimensione del tempo; il Tetracono come detto è un’opera cinetica: quattro coni che ruotano ciascuno a una velocità diversa (rispettivamente 60, 72, 90 e 108 secondi), in cicli complessivi da 1080 secondi (18 cicli da 60 secondi). Questo movimento rotatorio, molto lento e svolto su tempi diversi per ciascun cono, avrebbe dovuto facilitare la moltiplicazione delle mutazioni cromatiche (rosso-verde, rosso, verde, verde, rosso, verde-rosso ecc.) percepite dallo spettatore. Non a caso, come ricorda lo stesso Reinfurt, «Munari incluse anche un diagramma dei suoi aspetti temporali – la sua programmazione».

David Reinfurt racconta il progetto Meet the Tetracono, 2017

Nonostante il Tetracono incorpori vari aspetti del pensiero di Munari (la struttura geometrica ▲ ■ ⬤ degli oggetti naturali e artificiali, l’etica dell’arte moltiplicata ecc.) è stato comunque uno «strumento» dal percorso controverso. L’edizione prodotta da Danese nel 1965 era una versione non motorizzata dell’originale, che invece era mosso da quattro motori elettrici: questo particolare sembra entrare in contraddizione con le linee guida per la progettazione dei multipli proposte da Munari. L’arte moltiplicata non prevedeva, infatti, alcun rapporto di dipendenza da un oggetto originale: ogni singolo esemplare del multiplo aveva una sua legittimità in quanto opera d’arte. Nel caso del Tetracono però assistiamo al passaggio da un oggetto contemplativo (che misura il tempo grazie alla rotazione automatizzata dei quattro coni) a uno interattivo (da ruotare «a mano»), dove si perde la funzione di misurazione temporale dello «strumento» Tetracono.

Anche Reinfurt insiste sulla differenza tra le due edizioni: «la prima, chiamata semplicemente Tetracono, era leggermente più grande e usava dei motori per far girare i quattro coni alla velocità stabilita. Ne furono prodotti dieci esemplari. La seconda edizione era più piccola e senza motori: veniva azionata a mano e fu prodotta in un’edizione di cinquanta pezzi (il numero minimo suggerito da Munari in Codice ovvio): il suo nome era Tetracono SM, dove SM stava per Senza Motore».  Per Reinfurt, «non credo che la prima versione del Tetracono fosse “il vero” oggetto originale: era semplicemente una prima versione che non è andata a buon fine, perché i motori che la azionavano si ruppero. In più, era fuori mercato per gran parte del suo potenziale pubblico. Così la seconda versione – quella SM – fu un ripensamento “commerciale” dell’idea iniziale, e si affidava esplicitamente ai metodi di produzione industriale per esistere come oggetto seriale».

In questo disallineamento tra le due edizioni, Reinfurt intravede una delle qualità più avvincenti del lavoro di Munari: quella di gioco. «Ma non il “gioco”, inteso in senso infantile», sottolinea Reinfurt, «semmai un “gioco” tra due cose che non combaciano perfettamente, due o più realtà (o affermazioni) entrambe vere ma che competono e si sfidano tra loro. Adoro questa accezione di “gioco”: a dirla tutta, credo sia un buon modo per pensare al design».

In questo senso sorprende poco che tra i riferimenti utilizzati e assimilati da Dexter Sinister torni spesso il testo di George Kubler La forma del tempo, in cui lo studioso americano rilegge la storia dell’arte come storia delle cose e, tra le prospettive introdotte, riordina gli artefatti umani in «utili» e «inutili». «Sicuramente il gioco tra utilità e inutilità è interessante», nota Reinfurt; «personalmente non ho mai pensato a questa distinzione in termini binari, ma più come a un’area grigia. Persino la concezione dei due termini cambia in funzione dei contesti e del tempo: qualcosa che può essere stato assolutamente inutile nel momento della sua creazione, potrebbe iniziare a essere utile (o comunque istruttivo) vent’anni dopo».

Dexter Sinister, Stampa programmata, da Meet the Tetracono, 2017

Nell’istallazione di Reinfurt Stampa Programmata, esposta da COLLI per il Meet the Tetracono del 2017, quattro serigrafie mostrano i quattro passaggi del processo di stampa CMYK: ogni telaio di stampa fissa sulla carta (e sovrastampa sul precedente) in ciano, giallo, magenta e nero quattro momenti diversi della fase di rotazione dei coni del Tetracono. La stampa finale è composta dalla sovrapposizione di questi quattro momenti. La traduzione in immagine stampata genera quindi colori e combinazioni che non esistono nell’oggetto originale: è anche questo il «gioco» (quasi un’interferenza, un effetto moiré tra l’originale e la rappresentazione “fissa”) di cui parla David Reinfurt.

«Quello che mi piace di Stampa programmata è l’assurdità di come il sistema (industriale) che l’ha prodotta si addica perfettamente al lavoro umano (artigianale) di allineare ogni stampa, di presa di ogni foglio, eccetera», racconta David. «Per non parlare della realizzazione dei telai. Lo stampatore deve essere attento alla macchina mentre stampa e muoversi continuamente tra macchina e essiccatoio. In un processo di stampa a colori offset la messa a registro dei colori allinea le lastre di CMYK contemporaneamente; nella stampa serigrafica invece si stampa un colore per volta, con un tempo di asciugatura fogli e lavaggio impianti tra un colore e un altro. Ma in questo caso la “registrazione” prende un altro significato, riferendosi non solo alla messa a registro dei colori ma anche alla registrazione del tempo!»

Vale a questo punto ribadire come il tema del tempo, che così ostinatamente torna nel lavoro di Reinfurt, in Munari occupi una posizione altrettanto centrale. Un esempio celebre sono le Macchine inutili, prodotte dagli anni Trenta in poi sia come multiplo tridimensionale, sia come serie di stampe serigrafiche (raccolte nel portfolio Variazioni Cinetiche) che fermano il tempo e ritraggono i multipli di Macchine Inutili in alcune delle infinite configurazioni che offrono. Nelle Sculture da viaggio c’è invece un uso dell’oggetto legato a uno stato d’animo specifico, ancora una volta in funzione del passare del tempo. Infine, nel corto Tempo nel Tempo (commissionato da Tissot) la capriola dell’atleta richiama la circolarità di un orologio e si basa sulla distorsione del tempo in slow-motion, una tecnologia piuttosto avanzata per quei tempi.

Il portfolio munariano entra naturalmente in risonanza con il lavoro di Reinfurt per COLLI: a proposito delle Macchine inutili, Reinfurt nota come «sono senz’altro oggetti tridimensionali (o meglio, a quattro dimensioni), ma io le vedo più come generatori bidimensionali. In altre parole, più che percepirle come forme nello spazio, le leggo come forme grafiche che si riconfigurano nel tempo. Ma se le Variazioni Cinetiche di Munari sono dei “punti” nel tempo estratti da un processo dinamico, il mio Stampa programmata è qualcos’altro: una sorta di “time sandwich” o, tirando la metafora, una “temporal layer cake”. Incorpora quattro momenti distinti del ciclo di una stampa finita e statica. È anche per questo che preferisco pensare a Stampa programmata come a una fedele registrazione del tempo, piuttosto che a una traduzione “con perdita”. Perché incarna esattamente il paradosso fondamentale che si affronta lavorando con il tempo come medium: il tempo è infinitamente elastico, non puoi tagliarlo nelle sue parti più piccole, e con la giusta terminologia/tecnologia puoi affrontare nanosecondi e anni luce con la stessa facilità. Credo insomma che queste stampe, come anche il Tetracono in sé, siano lavori nel tempo e non sul tempo».

L’angolo lettura di Dexter Sinister su Bruno Munari presso la galleria COLLI di Roma

Ma al di là del senso profondamente concettuale del lavoro di Reinfurt, il rapporto che lo lega a Bruno Munari può anche servirci a riconsiderare l’eredità di quello che, ancora oggi, resta il nostro più famoso e mitizzato designer, e che fu una personalità assai meno naif e infantile di quanto si creda qui in Italia. Torniamo all’installazione di Reinfurt da COLLI: a essere esposte, erano anche le copie di alcuni libri firmati da Munari, tra cui diversi saggi diventati classici della divulgazione sul design. Il particolare però, era che di ogni copia erano state strappate la copertina e la quarta di copertina.

Questo gesto apparentemente violento, cela in realtà un ragionamento profondo: nelle edizioni più recenti dei saggi di Munari, le gabbie di testo sono uguali a quelle originali, ma riposizionate in nuovi formati che alterano il design della pagina, a volte progettato da Munari stesso. Le copertine, invece, sono ciclicamente riprogettate. Un esempio ci viene dalle nuove edizioni munariane pubblicate da Laterza, le cui copertine sono state progettate da Riccardo Falcinelli. Falcinelli stesso ha affermato di aver disegnato le nuove copertine nel modo più munariano possibile, ma il risultato è quantomeno controverso. Perché è proprio il concetto di «stile» che, oltre a essere una nozione fin troppo abusata, è anche poco calzante parlando di Munari, che costruì intere ontologie sull’opposizione tra stilisti, artisti e progettisti.

La copertina di Arte come mestiere di Bruno Munari in tre successive evoluzioni, dall’originale del 1966 all’ultimo redisegn di Riccardo Falcinelli

Reinfurt ricorda come «le copertine di Falcinelli hanno iniziato ad apparire nelle librerie durante la primavera in cui ho vissuto a Roma. Mi dispiacque molto vedere le vecchie copertine sparire dagli scaffali. Le precedenti erano molto understated, utilitarie, ma soprattutto non cercavano di competere con il lavoro di Munari. Almeno non cercavano di impacchettarlo, commercializzarlo nello “stile” di Munari. È la tragedia delle nuove copertine, con questo nuovo branding universale applicato: i libri sembrano provenire da una collana, cosa che non è. Le qualità principali di questi libri ai tempi della loro apparizione – l’ampia tiratura, i prezzi abbordabili e la qualità dei contenuti, pensati per portare al grande pubblico tematiche fino ad allora riservate e pochi specialisti eletti – sono ridotti semplicemente al “brand” MUNARI. E questo è un vero peccato».

Se insomma il lavoro di Falcinelli su Munari resta discutibile, dalla prassi paradossale di Reinfurt è forse possibile trarre altre linee di fuga che non riducano il design a mero brand, anche nel campo del design per l’editoria: «alla mostra di COLLI del 2017 abbiamo affrontato il problema, ma solo su scala molto ridotta», ammette Reinfurt; «ma magari il nostro lavoro ispirerà qualcun altro a strappare le copertine e a lasciare che i libri siano quello che sono».