Ora e sempre Devilman

Col nuovo Devilman Crybaby appena uscito per Netflix, torna il capolavoro di Go Nagai. Celebriamo una delle opere più traumatiche di sempre

Go Nagai è stato a lungo il padre adottivo di una generazione, specie in Italia: sono passati quasi quarant’anni dal suo debutto nelle nostre lande con l’anime UFO Robot Grendizer, poi ribattezzato Goldrake. Lo scenario era pseudo-distopico: un contenitore della Rai chiamato Buonasera con… che alternava Quartetto Cetra, il mago Silvan, il grande Mario Carotenuto, e i cartoni animati coi robottoni; il sonnolento teledipendente dell’Italia di fine anni Settanta veniva gettato in pasto al brutale spettacolo degli anime giapponesi praticamente senza pietà. Ma presto il pubblico si è adattato, innamorato, appassionato fino alla nausea di questi robottoni – il loro vero nome è mecha – che prendono a cazzotti il mondo. Ne voleva ancora, e voleva conoscere l’autore di questa meraviglia sconosciuta. Quell’autore era appunto Go Nagai. Il papà di Goldrake, di Mazinga e di Getter Robot, ma anche l’uomo che nel Giappone del 1968 aveva inventato il manga erotico con Harenchi Gouken (pubblicato in Italia da J-Pop come La scuola senza pudore) e che pochi anni dopo avrebbe lanciato un’eroina distruggi-tabù come Cutie Honey.

Al pari di un altro padre adottivo come Hayao Miyazaki, anche Go Nagai è stato spesso incasellato nell’edenico quadretto dell’orientale saggio e sognatore. La realtà però è un’altra: e cioè che la tv italiana, importando robe a casaccio e scriteriatamente mandandole in onda in qualsiasi fascia oraria possibile, ha fatto entrare dalla porta di casa un estraneo pronto a far esplodere l’immaginario adolescenziale con storie ferine di sesso, macellamenti e possessioni. Goldrake e Mazinga a parte, la produzione di Nagai conserva la carica dinamitarda di un processo di liberazione per immagini che continua ancora oggi, e che raggiunge il suo apice con la forma primigenia dell’antieroe: sto ovviamente parlando di Devilman, il suo capolavoro del 1972 appena tornato con un anime diretto Masaaki Yuasa e da poco uscito per Netflix.

Il nuovo Devilman di Yuasa – il titolo completo è Devilman Crybaby – raccoglie un’eredità gigantesca: riadattare nel 2018 un’opera come quella che Nagai firmò a inizi anni Settanta è quasi un’impresa suicida, specie se quell’opera è un trionfo nichilista di – per riprendere le parole di Evil Monkey su Fumettologica – «bambini decapitati, mutilazioni, fucilate in pieno volto. Mostruosità grottesche, violenza a fiumi e corpi divelti con foga animalesca». Ora, per rispondere a una domanda secca: l’adattamento Netflix è fedele all’opera originale? Direi di no, e aggiungo per fortuna: dovremmo smetterla con la convinzione che una trasposizione debba per forza essere uno scambio di fedi tra due autori. Ma allora è una bestemmia tipo il Watchmen portato al cinema da Zack Snyder? Anche qui, la risposta è no: Devilman Crybaby è bello (mentre il film di Snyder era orrendo), ma sull’anime di Yuasa avremo modo di tornare poi. Prima dobbiamo capire cos’è stato il Devilman di Nagai, e perché la sua apparizione resta uno dei più grandi traumi della storia del fumetto mondiale.

Agli inizi degli anni Settanta Go Nagai era un autore già affermato e molto prolifico, capace di gestire in contemporanea più serie su più riviste, e sul punto di avere in contemporanea ben cinque manga in corso di pubblicazione. In più, i suoi stretti rapporti con il colosso dell’animazione Toei gli permettevano di realizzare le proprie idee non solo su carta (e cioè sotto forma di manga) ma anche sullo schermo (e quindi come anime): in Giappone, era quasi inevitabile sbattere contro una sua opera.

Nel 1971, Nagai aveva spaccato la sua produzione – fino ad allora concentrata perlopiù sulle commedie – con un manga cupo e dal nome evocativo: Mao Dante. Il protagonista, un placido studente delle medie di nome Ryo, si ritrova in mezzo a un conflitto millenario tra il demone Dante e le armate di Dio. Da una parte, l’espediente narrativo è un rovesciamento del vecchio adagio manicheo sul bene contro il male, dove Dio è un conglomerato di mostruosa energia aliena e i veri abitanti della terra sono i demoni. Dall’altra, l’opera è un tributo dichiarato alla Divina Commedia illustrata da Gustave Dorè e conosciuta da Nagai sin dalla prima gioventù; in effetti, con il suo stile drammatico e grottesco, l’incisore francese ha plasmato l’immaginario del mangaka tanto quanto Osamu Tezuka, l’autore di Astro Boy maestro dichiarato di Nagai: da questo strano incrocio viene quel tratto schizoide tipico di Nagai, che da morbido e rassicurante si tramuta in un incubo sanguinario e freddissimo.

La potenza di Mao Dante rimane purtroppo inespressa per via della chiusura della rivista che lo ospita (Weekly Bokura Magazine: la stessa dove tra l’altro apparvero le prime storie dell’Uomo Tigre e un adattamento manga fuori dal mondo di Hulk), ma questo alla fine importa poco. Perché è a questo punto che la Toei chiede a Go Nagai: «Mao Dante ci è piaciuto, puoi farne un anime?». Si arriva così all’estate del 1972: dalle ceneri del mostro si erge infine l’uomo diavolo, che più o meno nelle stesse settimane in cui viene trasmesso in televisione sotto il marchio Toei (in una versione «edulcorata», meno estrema e dai tratti più marcatamente superomistici) diventa anche protagonista di un manga, pubblicato per circa un anno dal settimanale Weekly Shōnen Magazine (adesso potete recuperare tutto in un’edizione massiccia edita nel 2017 sempre da J-Pop).

La storia di Devilman è semplice: Akira Fudo è un ragazzo debole e gentile che viene posseduto da un ferocissimo demone di nome Amon, tramutandosi egli stesso nell’arma che dovrà impedire ad altri demoni di impadronirsi della Terra. Comincia così una lunga serie di scontri tra l’uomo diavolo Akira/Amon e creature orrorifiche come il perverso Gelmer, l’alata e bellissima Sirène, il pachidermico Kaim, la crudele tartaruga gigante Jinmen e così via.

Già nel precedente Mao Dante trovavamo un demone che divorava il ragazzo e lo usava per condurre la sua battaglia; ma in Devilman questo tipo di fusione è ancora più intensa, oscena; la possessione spezza le catene della libido, e il risultato è una delle prime forme di anti-supereroe ben prima del famoso «rovesciamento» adoperato negli anni Ottanta dai vari Miracleman, Watchmen o Animal Man. Se insomma mettiamo da parte l’anime originario della Toei (che come detto non rende giustizia all’opera) e ci concentriamo sulla coeva versione manga, scopriamo un materiale talmente denso da scavallare il semplice orrifico, sia attraverso una critica dichiarata alla guerra, sia attraverso un lavoro sotterraneo di smascheramento dello stato di natura.

Ogni scontro di Akira è una tappa verso il superamento dell’umano che passa per la disintegrazione dei tabù e la macellazione dei corpi. L’incipit folgorante è il sabba (molto «psichedelico»: vedi l’immagine sopra) in cui Akira, convinto dal suo migliore amico Ryu, viene appunto posseduto da Amon. Qui la trasformazione del ragazzo in demone altro non è che la presentazione per immagini di quelle che per Freud sono le tre fonti della sofferenza umana: «la forza superiore della natura, la tendenza al deperimento dei nostri corpi, e l’inadeguatezza dei metodi usati per regolare i rapporti umani». Da subito insomma in Devilman non troviamo un banale «superamento» in senso superomistico, ma la deformazione mostruosa del reale.

Osservandola superficialmente, la trasformazione di Akira in Devilman fa pensare all’adolescente mite che assaggia il potere luciferino della natura e diventa un elemento dominante: i bulli che lo vessavano si trasformano in alleati, e Miki, la ragazza estroversa che lo considera un piagnone, inizia a innamorarsi di lui. Ma il vero fascino di Akira-Devilman – che possiede contemporaneamente il corpo dell’Altro e il cuore dell’uomo – sta nella distruzione delle tendenze fondamentalmente regressive e «conservatrici» della vita istintuale. Di fronte alla perenne ricerca inconscia di un Nirvana inteso come equilibrio costante delle pulsioni umane, Devilman spacca a sassate ogni pretesa di stabilità e con essa manda in frantumi il principio di piacere freudiano, ovvero «la tendenza a liberare l’apparato psichico da ogni eccitazione, o di mantenervi costante il quantitativo di eccitazione, o di tenerlo il più basso possibile». In una società dove la repressione è un ricorso storico, il ritorno del mostro umanizzato è una possibilità di fuga dalle tendenze civilizzanti e uterine della modernità.


Le motivazioni che spingono Go Nagai a immaginare
Devilman sono d’altronde ben riassunte in una celebre conversazione degli anni Novanta con Hideaki Anno, il creatore di Neon Genesis Evangelion: alla base dell’opera, c’è la sua naturale tendenza a simpatizzare per la parte oppressa e stigmatizzata dell’umano, o in questo caso dell’Altro. Non a caso, Nagai e Anno si intendono alla perfezione: il secondo è un diretto discendente della produzione traumatica del primo, e furono proprio i corpi smembrati di Devilman a dare propulsione all’immaginario di Evangelion, a sua volta un autentico trattato di psicanalisi  mescolata a misticismo nonché tentativo tuttora ineguagliato di postumanesimo applicato.

Devilman d’altronde è anche iconografia, e si può dirlo senza che appaia come un’esagerazione. Il design del personaggio ha influenzato profondamente i mecha di Evangelion, e proprio la descrizione che di questi fornisce Anno è la resa cosciente del lavoro inconscio di Nagai: «Penso che l’immagine di ciò che definiamo “potere” sia qualcosa di spaventoso. Per questo quando è giunto il momento di iniziare il design [dei mecha], abbiamo scelto di renderli terrificanti, al punto da renderli anti-eroici […]. Se i ragazzini iniziassero a piangere guardando anche solo un episodio sarebbe l’ideale. Per questo, Devilman era il modello perfetto».

Come in Evangelion, anche la potenza immaginifica e totemica di Devilman esplode per gradi, divenendo materiale inconscio «per ragazzi» con una leggerezza disarmante; la scena di Miki nella vasca da bagno (un siparietto erotico preso di peso da La scuola senza pudore per candore e leggerezza), si trasforma nella distruzione orrifica della dimensione privata e quindi dell’utero per eccellenza, qui violato dal demone Gelmer.

Per Akira, l’inizio della battaglia coincide insomma con la violazione del primo nucleo, quello familiare; il culmine si raggiunge con lo scontro contro l’arpia Sirène, la versione harem delle figure descritte da Dante nel canto XIII dell’Inferno. E qui si aggiunge una dimensione ulteriore, un elemento che nel fumetto occidentale viene perlopiù solo accennato quando non è del tutto assente: l’empatia verso il mostro. La commovente fusione tra Sirène e l’altro demone Kaim, che si immola per amore pur di non farla morire, viene omaggiata da Nagai nel monumento che appare tra i campi dopo che la coppia di demoni è stata sconfitta.

L’apice del manga per me è collocato nel suo massimo picco di visceralità: la breve storia del bambino e del demone che possiede sua madre. Qui il clima di sospetto viene riversato direttamente sui propri cari. L’intero Giappone è infestato. In Devilman si tratta di un episodio inquietante, che ha quasi i toni della commedia macabra. Prendendo di peso i caratteri comici della sua produzione precedente e gettandoli in pasto ai cani (letteralmente), Go Nagai raggiunge la forma più brutale di turbamento grazie a un cortocircuito emotivo: dovrei ridere? È grottesco? Perché c’è tutto questo nero nella tavola? E i germi del manga abissale iniziano a proliferare.

L’infanzia è un terreno che in Devilman viene ripetutamente abusato. Se Stephen King e i suoi mostri che fanno mattanze di bambini arriveranno solo anni dopo, col demone Jinmen – un’orripilante testuggine che nel carapace trattiene i volti e le anime delle sue vittime –  Go Nagai rende popolare un kaiju terrificante e sfacciatamente sadico. Jinmen è l’esaltazione della libido come esaltazione della lotta: nel capitolo che Krafft-Ebing dedica al sadismo nel suo Psychopatia Sexualis, una simile creatura non sfigurerebbe tra il tizio che staccò a morsi il naso della moglie e il torturatore di infanti Gilles De Rais. In Devilman, prima il mostro divora una bambina innamorata di Akira e si vanta del suo operato, rendendola parte del suo guscio; poi, quando Akira/Amon lo uccide, le sue lacrime diventeranno parte dell’icona (elemento in larga parte ignorato dai più, ma immediatamente notato nel nuovo adattamento animato diretto da Yuasa).

Infine, dopo una serie di incursioni storiche nel passato (disegnate BENISSIMO ma quasi dei filler), ecco che si arriva all’invasione dei demoni, alla guerra per la sopravvivenza della razza umana, e all’apparizione di Satana in persona. Questi non solo non poteva che essere un conoscente di Akira, cioè il suo migliore amico Ryo, ma anche un essere ermafrodito: l’idea di rendere il sommo demone portatore di entrambi i sessi sembra quasi mutuata da William Blake (che nel libro profetico incompiuto The Four Zoas parlava di un «oscuro ermafrodita, nero e opaco» definito Satana da alcuni soldati), e da lì riecheggia nell’opera dell’occultista inglese Austin Osman Spare, le cui visioni – che tra l’altro saranno di ispirazione per autori come Alan Moore e Grant Morrison – sono infarcite di esseri sessualmente ambigui e dalla potentissima carica luciferina.

In realtà, Nagai era rimasto affascinato dai dannati intrappolati da Dante nei ghiacci; la creatura che in Devilman, confusasi tra gli umani, viene intrappolata per mano di una divinità che non accettava la sua volontà di potenza, è specchio del demone Amon-Akira; a lui manca la pietà e l’empatia, ma si innamora del suo amico. L’elemento omoerotico di Devilman è sempre stato dibattuto: si muove in maniera sotterranea, ma Nagai – unendo l’iconografia del male con quella dell’Anormale – riesce comunque a presentare con cristallina semplicità quanto dibattuto da Michel Foucault nelle sue lezioni degli anni Settanta; si prenda il caso di Antide Collas, un ermafrodita arso vivo/a in quanto sospetto di satanismo, che arrivò a confessare di aver avuto rapporti sessuali con Satana stesso. Di questa potenza doppia parla Valerio Marchetti nel saggio L’invenzione della bisessualità, dandone peraltro una descrizione perfetta: «producendo un corpo doppio, ovvero un organismo che esibisce i sessi del maschio e della femmina fusi funzionalmente in una stessa persona , la natura non concede invano una potenza doppia. La concede proprio perché questa persona possa essere, nello stesso tempo, uomo e donna». È l’apice del turbamento e dell’intera epopea di Devilman, una lotta tra uomini-demoni e demoni-e-basta, con gli ibridi umanizzati catalizzatori di un potere libidico inespresso. E il finale, nell’armageddon orgiastico di corpi e mostri, distrugge le barriere della morale in un gigantesco richiamo all’empatia totale.

Come detto, Devilman conobbe una sua prima trasposizione anime contemporanea alla pubblicazione fumetti, che però resta opera «minore» se paragonata alla versione su carta. Fortunatamente, è dall’originario manga pubblicato tra 1972 e 1973 che Masaaki Yuasa riprende il discorso per il suo Devilman Crybaby targato Netflix. E in un certo senso, Yuasa era anche l’unico che poteva cimentarsi in una simile impresa.

Ormai da parecchi anni a questa parte, Yuasa si è segnalato come uno degli animatori migliori di sempre, ed è incredibile come se ne parli davvero troppo poco. Esordisce come animatore nel 1990, lavora per Crayon Shin-Chan nel 1992, dirige il pilot di Vampyian Kids nel 99 (da noi arrivato nel 2007 con un titolo criminale: Vampiriani – I vampiri vegetariani), adatta in un corto animato bellissimo Cat Soup di Nekojiro (fumetto altrettanto stupendo originariamente apparso su Garo Magazine), dirige nel 2014 un episodio acidissimo per Adventure Time e il suo primo lungometraggio Mind Game è tra i migliori film animati degli ultimi 15 anni.

Il suo capolavoro, a detta di molti (me compreso), resta la serie animata Kaiba: una meraviglia per animazione e contenuti, un approccio intensissimo alla memoria declinato nel genere sci-fi ma con un apparato visivo che manipola la materia di Osamu Tezuka creando qualcosa di unico. È del 2008, è su VVVVID, vedetelo. E vedetevi anche Tatami Galaxy, che sfida i canoni del dramedy con tecniche miste in 2d-3d e ritmi assassini dei fotogrammi; e Ping Pong  – The Animation, trasposizione del manga di Taiyo Matsumoto (presto pubblicato in Italia da Hikari), bellissima storia di amicizia e rivalità che conserva lo stile di Matsumoto inserendolo nel dinamismo mostruoso di Yuasa. Spenderei altre lodi per il recentissimo Lu Over The Wall diretto da Yuasa nel 2017, ma va bene: parliamo di Devilman Crybaby.

L’eredità come già detto è immane, secondo me NON è tra le cose migliori firmate da Yuasa, ma il fondamento dell’opera di Nagai non viene svilito, anzi. Crybaby, ovvero «piagnucolone», sottolinea da subito l’elemento empatico di Devilman, definendo Akira Fudo come un adolescente dalla lacrima facile che avverte il dolore del mondo anteponendolo al suo. La serie ripercorre tutta la saga, modificando alcune parti ma senza snaturare il sadismo, la perversione e l’ambiguità di fondo dell’uomo diavolo. La violenza e la sessualità vengono presentate senza filtri, uscendo dal territorio sicuro dell’erotismo accennato e presentando scene di masturbazione e gettate di sperma (in una scena che è tributo a quest’altra scena del The End Of Evangelion di Anno)

In alcuni passaggi Yuasa e lo sceneggiatore Ichiro Okouchi (che non posso che definire bravo, se non altro per avermi già fatto appassionare a un mezzo yaoi come Code Geass: Lelouch of the Rebellion) riescono persino a superare l’orrore di Nagai alzando la posta in gioco e devastando Akira nei suoi affetti: tutta la parte di Jinmen, per esempio, è se possibile ancora più straziante. Yuasa si conferma il regista perfetto per un tale progetto di restyling e ridefinizione iconica: il suo Devilman è gigantesco e deforme, i corpi mostruosi sono animati come macchie di colore antropofaghe.

Come d’altronde lo stesso Nagai, Yuasa è prima di tutto un regista d’insieme: le singole parti dell’anime sono strettamente collegate e riescono a partorire un blocco unitario e personalissimo. Dichiarava in un’intervista nel 2016: «Cerco di non soffermarmi solo sui movimenti. Penso che disegni, colori, musica, fondali, e doppiaggio siano tentativi per esprimere alcuni elementi; questa è diventata la mia principale motivazione. Ad esempio quando uso fotografie, mi curo non di riprodurre ma di esprimere nel disegno quello che vedo». L’attitudine espressionista di Yuasa, esasperando l’emotività di Akira, potrebbe repellere alcuni fan – e in quel caso l’operazione dell’anime sarebbe riuscita. Alcuni personaggi non ne escono benissimo (Miki parecchio depotenziata in certi punti), ma l’introduzione di elementi come la gang di rapper (gran flow) e il rapporto triadico di antagonismo/amicizia/amore dei protagonisti è uno spaccato del Giappone moderno che rende l’anime estremamente immersivo.

Se già nel 1972 Go Nagai puntò moltissimo su un «demone con il cuore di un uomo», nel 2018 il Devilman Crybaby di Yuasa è ancor di più un fortissimo grido dall’abisso, una ricerca di un’empatia completa attraverso la distruzione del bilanciamento delle passioni imposto dalla modernità. Non è una morality tale: al contrario, è un’opera profondamente immorale su come l’esibizione del ferale sia una tappa fondamentale verso l’accettazione universale. Se poi questo ci debba condurre all’apocalisse, così sia.