Alle origini del cyberpunk italiano

Decoder, gli anni Ottanta, Milano: un estratto da I pirati dei navigli di Marco Philopat

In occasione di Interregno, il festival su «futuro, tecnologie e utopia» che si tiene a Roma dal 20 al 22 ottobre, pubblichiamo a partire da oggi una serie di interventi che a vario titolo ruotano attorno ai temi al centro della rassegna. Cominciamo andando alle origini della cultura cyber in Italia attraverso una selezione di estratti da I pirati dei navigli, il nuovo libro di Marco Philopat appena pubblicato da Bompiani in cui (tra le altre cose) si racconta della genesi, nella Milano degli anni Ottanta, della più importante e radicale rivista cyberpunk italiana: Decoder. Ringraziamo autore e editore per la disponibilità.

Un’astronave dal futuro

Venerdì 28 marzo venite sull’astronave del futuro che si chiama Helter Skelter!

La puntata di Tensione radiozine lancia la serata in cui si proietterà il film di Klaus Maeck, che è in studio con noi e ne spiega il titolo, Decoder: «Vuol dire decodificare il presente, analizzare la tecnologia per modificarla e utilizzarla in modi diversi da quelli consueti.»

Abbiamo anche pubblicato un opuscolo, rilegato a spirale con copertina di cartone giallo su cui c’è il simbolo del film: due grosse «T» rovesciate, un cerchio e la scritta DECODER. I testi li ho scritti e raccolti io, e la grafica l’hanno realizzata Kix e Paoletta, che si sta appassionando a impaginare. All’interno c’è l’intera sceneggiatura del lungometraggio, tradotta in italiano da Jork, un ragazzo tedesco alto due metri entrato da poco nel collettivo dell’Helter.

«Le informazioni importanti rimangono segrete, solo una piccola parte raggiunge il pubblico», continua via radio Klaus Maeck. «Come possiamo sapere quanto siamo controllati? Cos’è la muzak? La musica dei supermercati che ci induce a livello subliminale ad acquistare quel determinato prodotto? Chi conosce la tecnica del cut-up inventata da Brion Gysin e Burrougs, che riesce a sovvertire la muzak? Anche noi possiamo utilizzarla per creare confusione e ribellione! Ecco, il mio film parla proprio di questo.»

Klaus è un uomo sui trentacinque anni. Indossa sempre un paio di occhiali neri e parla in un inglese germanizzato da barzelletta. Ora la trasmissione sta finendo e diamo le ultime indicazioni.

«Ve lo ricordiamo ancora, cari ascoltatori, dalle ventuno e trenta di venerdì prossimo, in via Leoncavallo 22, prima visione assoluta del film Decoder con Blixa Bargeld degli Einstürzende e William Burroughs.»

«Bisogna lavorare sull’uso sociale delle nuove tecnologie»

L’Helter Skelter è pieno di gente anche molto più anziana di noi. Ci sono alcuni del giro della Calusca e [Primo] Moroni è talmente contento che a notte avanzata si mette a ballare un rock’n’roll scatenato. Su «War», nella versione incisa nel 1970 da Edwin Starr, duetta insieme a Elena con giravolte e altre mosse acrobatiche. È una libidine stare lì a osservarli. Quando Primo è stanco viene a parlare con noi che sostiamo nei dintorni del bar. Cambia registro all’istante e ci spiega perché gli è piaciuto il film, ricorda alcune dichiarazioni di Burroughs sull’informazione come una banca da svaligiare e sulla riappropriazione dei mezzi di produzione. Cita un sacco di autori ma non riesco troppo a seguire il suo flusso di parole. «Bisogna lavorare sull’uso sociale delle nuove tecnologie…»

Poi quando parla di uno scrittore di fantascienza politica che io non ricordo, faccio l’errore di farmelo ripetere e Raf mi rimbecca: «Ma davvero non conosci James Ballard? Ma sì, dai, è anche citato in un fumetto di Ranxerox. Dovresti averlo letto, almeno quello.»

 

Milano, 1985: Primo Moroni dinanzi le saracinesche della libreria Calusca su Corso Ticinese

Decodificare il presente

Gomma insieme a Kix e Gianni chiede consigli per la nuova rivista che ha già un nome, Decoder. Gli occhi di Primo si stringono e il suo volto torna sorridente. «Titolo azzeccato, come uno strumento per decodificare il presente…»

Tra Toni Negri e la conquista dello spazio

Senza la Calusca ci sentiamo persi. Primo è a Roma a scrivere un libro insieme a Nanni Balestrini. Quando si passa per corso Ticinese sale la malinconia a non vedere più la saracinesca SADO MASO. I nuovi padroni del negozio l’hanno già coperta con il grigiosmog milanese. È triste persino andare da Rattazzo per l’aperitivo. Gli unici giorni che ci vediamo sono il martedì sera per la programmazione del clubbino e il giovedì alla cascina Moncucco, dove ci sono i libri e l’archivio di Moroni, con la redazione che sta preparando Decoder. Il primo articolo sarà sull’attuale fase della ristrutturazione del capitalismo con un parallelo sulle conquiste spaziali. Lo sta scrivendo Gianpaolo, che se la tira da seguace di Negri ma quando parla di teoria non si capisce nulla. Comunque, se gli altri stanno valutando di metterlo come apertura, vuol dire che sarà importante.

Raf sta studiando la storia della svastica per un suo articolo di fondo. Gomma farà un pezzo sulle nuove tecnologie e sulla patologia catodica. Oltre alle pagine su Burroughs che ho già scritto, mi sono sbobinato su una vecchia macchina da scrivere le parole di Primo che avevamo registrato a Tensioni radiozine, un ragionamento sulla militarizzazione del Ticinese. Gomma propone di mettere le illustrazioni di alcuni disegnatori facendo cenno alla scena underground inglese e statunitense. Altri conoscono bene la grande produzione di fumetti in Francia. Purtroppo dentro questa cascina fa un freddo boia, e alle volte si discute ad alta voce e si finisce per litigare. Soprattutto i miei interventi vengono giudicati fuori luogo se non inutili, allora m’innervosisco e, più di una volta, mi capita di partire per la tangente e di fare qualche gaffe, magari offendendo qualcuno senza manco accorgermi. Le notti dopo certe riunioni di Decoder le passo a rigirarmi nel letto. Ripensandoci bene capisco che mi sono comportato come un ragazzino demente. Mi sento male. Non c’è futuro per me. Un’altra volta… Sono solo un punk, ignorante come una capra.

Un documentario sul collettivo Decoder

Eroina, Burroughs e Psychic TV

Barricato in camera, sto leggendo in loop ossessivo i libri che prendo dall’archivio della Calusca. Ormai esco solo per un frugale pasto solitario con le poche cose stipate nel mio scomparto del frigo. Dalla camera nera al piano di sopra proviene la musica cupa degli Psychic TV. Continuo a pensare alla proposta di Paoletta di trasferirmi con lei nell’appartamento in Ripamonti, però sono indeciso. Mi sembra di mollare tutti gli altri qui nella merda, poi non mi va di ricreare la solita coppietta stereotipata che vive in un appartamentino nel centro di Milano. Lei dice che si può chiedere a qualcun altro di venire a vivere con noi, tanto c’è una stanza in più. Ma non so a chi chiedere. Preso dallo sconforto continuo a impuntarmi sulla lettura. Dopo qualche ora vado a trovare Kix, devo chiedergli quali materiali usare per mettere a posto le finestre e gli stipiti in Ripamonti. Mi apre Paolo, mi avverte che Kix è in un periodo nero e ora sta rinchiuso nella sua stanza. Busso, non risponde, entro. Dal soffitto pendono degli spezzoni di pellicola super otto che creano una specie di séparé con il basso soppalco dove lui sta dormendo in posizione fetale. Mi aggiro per la stanza, che è in perfetto ordine, e vedo i bozzetti della pagine di Decoder incollati sul tavolo tecnico, i manifesti e i modellini di polistirolo sparsi su tutti i ripiani disponibili. Non c’è un filo di polvere. Le pareti e i mobili li ha dipinti in due tinte di grigio diverse. Sul tavolo tecnico, tra le pagine della rivista, noto un articolo sui computer di un tale che si chiama UVLSI.

«Che vuoi?» mi grugnisce dal letto.
«Chi è questo UVLSI?»
«È Gianni. Il fratello di Paola.»
«Perché non scendi? Cosa fai? Dormi alle cinque del pomeriggio?»
Lui si alza, scende dal soppalco e quasi mi aggredisce: «Perché? Ci sarebbe qualcos’altro di meglio da fare?»

Capisco al volo che ha visto Silvana e commetto l’errore di nominargliela. Allora Kix mi urla in faccia cose senza un senso, poi risale sul soppalco e da sotto il cuscino mi tira fuori una bustina con dentro una polvere marrone.

«È per questa? Eh? È per questa? Potrei buttarla giù dalla finestra, così tu e tutti gli altri sareste contenti, no? Oppure potrei spararmela su per il naso e sarei contento solo io… Eccola la sostanza del passaggio…»
«Ma di quale cazzo di passaggio stai parlando, piuttosto fammi vedere i bozzetti del mio articolo sul cut-up

Tento di calmarlo ma ottengo lo scopo opposto.

«Burroughs, proprio lui… Il più tossico dei tossici.»
«Appunto. Leggi il Pasto nudo, ti fai risucchiare dal gorgo, vedi gli abissi e ti passa la voglia.»
«Una logica puerile. Come se fosse tutto così facile. Vattene, lasciami in pace.»

Esco sbattendo la porta ma forse ha ragione lui, è una cazzata colossale quella che ho detto, anche se era una mia convinzione. Quando vuole ferirmi ci riesce sempre. Non riesco più a leggere, mi sdraio a occhi aperti e muovo le gambe per scaricare. Non ho studiato e ho delle lacune mostruose che mi impediscono di capire e articolare bene i concetti. Cado in preda al panico e mi calmo solo pensando a un discorso che ho sentito in Calusca.

Vecchie controculture e nuovi psichedelici

Il lavoro redazionale procede a fatica. Decoder deve essere una pubblicazione che esprime il massimo delle nostre capacità. Raf ci insegna le regole fondamentali della grammatica e della stesura dei testi, poi le correzioni, i refusi, le grafiche a riempire gli spazi. Purtroppo ne sono tagliato fuori per due motivi. Quando leggo mi faccio prendere dal contenuto e non vedo mai gli errori, quindi la mia autostima subisce micidiali colpi da kappaò. Inoltre è previsto un maggio di fuoco all’Helter Skelter, con una serie di iniziative molto impegnative. Un gruppo lavora sulle bozze di Decoder, Paola e Kix sulla grafica, perciò per gli sbattimenti del clubbino rimaniamo in pochi e io sono sempre sul furgone a spostare materiale. Si inizia il 30 aprile con una tre giorni dedicata alla nuova psichedelia. Suoneranno diverse band italiane ed europee che si rifanno a questa scena.

Nel frattempo in Ticinese è tornato l’avvocato psichedelico, si chiama Giancarlo e finalmente mi ha spiegato l’origine del suo soprannome. Quando era in galera per Soccorso Rosso, durante gli interrogatori si dilungava sui free festival degli anni sessanta a cui aveva partecipato. Lo faceva anche per dimostrare che era in corso una rivoluzione a livello planetario, sosteneva che il suo compito era quello di difendere chi si batteva contro l’arretratezza culturale dell’Italia. I giudici erano allibiti per queste strane teorie, forse non capivano bene quei ragionamenti, così negli atti di accusa, per semplificare, l’avevano definito «avvocato psichedelico», scritto tra virgolette. Giancarlo è un’incredibile fonte di informazioni sulla controcultura, parla lentamente e come in un mantra ti porta nei lidi dei percorsi di liberazione, con collegamenti storici, aneddoti personali, i viaggi interiori e quelli reali che ti aprono la mente. Abbiamo anche scoperto che è un ossessivo archivista di movimento. Nel corso degli anni, a ogni tappa delle sue peregrinazioni si è messo in tasca volantini, manifesti e riviste, e adesso casa sua a Catanzaro è piena di tanta fuffa ma anche di materiale rarissimo.

Gomma ha avuto l’idea di fare una mostra con le fotocopie di una selezione del suo archivio per raccontare la storia delle controculture, dal beat agli hippie fino ad arrivare alla nuova ondata psichedelica. I Fugs a New York, la City Lights di San Francisco, le riviste underground a Londra, Re Nudo e il movimento del ’77 in Italia. Giancarlo ha lavorato qualche settimana giù a Catanzaro in un ufficio con la fotocopiatrice che gli ha prestato un suo amico. Siamo andati a prenderlo in stazione perché aveva due scatole di cartone pesanti come se dentro ci fossero pezzi di ferro. Poi, con l’aiuto dell’archivio della Calusca, abbiamo aggiunto foto, ritagli di giornale e didascalie. Infine Kix e Paola hanno incollato il tutto su una ventina di pannelli che ora sono esposti nel salone grande del Leoncavallo. Abbiamo aperto alle sei del pomeriggio, e alle nove c’era già la coda per visitare la mostra con Giancarlo che faceva da cicerone.

Giù all’Helter Skelter stanno suonando gli olandesi Last Train from Drug Hill, degli sconvoltoni che solo una città come Amsterdam può generare. Io sono abbastanza tranquillo, è da giorni che mi faccio canne per dimenticare i miei casini a Rogoredo, in Ripamonti e con Decoder. Seguo il concerto dal mixer nella beatitudine della musica neopsichedelica. Il clima è guastato da Kix che si aggira insieme a Marcello con fare losco ed elettrico. Li vedo nelle pause tra una canzone e l’altra. Mi irrita ogni cosa che fanno. Paola mi si avvicina.

«Se continua così, non può venire ad abitare da noi.»
«Perché, cos’è successo?»
«Si vede lontano un miglio che si sono fatti un pippotto.» Vado all’istante in paranoia. Ho chiesto a Kix se vuole venire ad abitare in Ripamonti e da qualche giorno sta pensando di accettare…

Il primo numero di Decoder

I preventivi per la stampa ci sorprendono, anche quelli delle ditte dei compagni che ci ha consigliato Primo sono esorbitanti. In più, su idea di Kix, vorremmo mettere le pagine in orizzontale e la rilegatura così diversa ci costerebbe un extra salatissimo. Troviamo finalmente una tipografia a Bologna che ci fa un prezzo abbordabile. L’unico problema è che il lavoro di legatoria sarà da fare a mano. Ai primi di giugno saliamo in sei a bordo del Volkswagen con le pellicole di Decoder e raggiungiamo il capoluogo emiliano. La tipografia si chiama Bold Machine e i tipi che la gestiscono sono ex settantasettini poco più grandi di noi. Seduti intorno a un grande tavolo rettangolare spiegano i procedimenti da eseguire. Con i macchinari ancora fermi, ci fanno vedere il processo dell’emulsione delle pellicole e la loro applicazione sui rulli. Si soffermano su ogni passaggio e, quando finalmente danno corrente, vediamo i primi sedicesimi uscire a getto. Poi il lavoro sulla grande taglierina meccanica, la divisione per pagine e, dopo qualche ora, novantasei pile di fogli stampati, davanti e dietro, sono piazzate in serie sul grande tavolo. A turno facciamo il giro prendendo una pagina per volta dai diversi mucchi e a poco a poco ci ritroviamo in mano l’interno della rivista. Sovrapponiamo i mucchi a zig zag su un carrello destinato all’incollatura, con la copertina stampata su carta spessa e lucida. È uno dei giorni più belli di quest’anno orribile. I tipografi raccontano di Radio Alice e degli scontri di dieci anni fa, noi ogni tanto ci fermiamo a commentare una pagina.

«Guarda com’è venuta bene questa grafica!» «Cazzo! C’è un refuso?» dice Paoletta. «Nooo…» «Di sicuro l’articolo sulla svastica farà discutere.» «La cosa che piacerà di più saranno le pagine con i fumetti underground.» In quelle ore di girotondo ci sono venute in mente molte idee per fare le presentazioni, chiamando a intervenire tutti i redattori della rivista. A tarda notte, dopo aver caricato le duemila copie sul furgone, partiamo pieni di energia verso Milano. Al casello di entrata in autostrada arriva l’alba e Kino coglie l’occasione per mettere The Golden Road dei Grateful Dead. Una canzone perfetta per festeggiare un momento per noi storico. Siamo su un’astronave psichedelica piena di buone vibre, compresa quella del motore che non mi preoccupa più.

I cyberpunk e gli hacker di Decoder a Mixer, Rai 2, 1991.

Prepararsi al balzo in avanti (a suon di Jimi Hendrix)

Dopo la prima assoluta del film Videodrome di David Cronenberg, proiettato in pellicola nel cortile affittando un proiettore e il tecnico che lo sa usare, c’è il concerto dei Borghesia, un gruppo iugoslavo molto conosciuto che riempie l’Helter Skelter anche se è un mercoledì sera. A seguire la tre giorni intitolata Muzak more than Music, dedicata all’esplosione performativa dei temi trattati su Decoder, con filmati di Burroughs e Brion Gysin, i Survival Research Laboratories di San Francisco, ex punk diventati ingegneri cibernetici che costruiscono robot e macchinari mostruosi, ma anche altri contributi più mainstream come Max Headroom, una serie televisiva su un possibile futuro prossimo trasmessa da Rai 3. Tutti elementi che dimostrano come il mondo si stia preparando a un balzo in avanti.

Durante gli ultimi concerti del mese non ce la facevo più. Quando finalmente lo stress è finito ho aiutato Paola a pulire l’appartamento di via Ripamonti, perché ormai i lavori sono terminati. Un sabato pomeriggio mi prendo una pausa meritata. Cazzeggio a Rogoredo ascoltando duemila volte «Purple Haze» di Jimi Hendrix. Usciamo in compagnia inebetiti dalle canne, vestiti con foulard, jeans scampanati e camicie a fiori, infilandoci nel mio furgone che da qualche giorno è arredato con un bel tappeto falsopersiano sul pavimento. Arrivati in piazza Sant’Eustorgio, diventata l’alternativa alla massa delle colonne, mandiamo ad alto volume la nostra musica. Non so chi abbia l’idea ma a un tratto ci togliamo le scarpe e ci muoviamo estasiati dal dio Hendrix. C’è anche la gang dei motociclisti, con Betty che balla con la sua telecamera in spalla. Nel momento più ridicolo della situazione arriva Roby. Mi squadra, vede i miei piedi nudi e comincia a ridere. In brevissimo tempo tutta la piazza mi sfotte.

“Venite a vedere Philopat, il punk a piedi nudi.”

I piedi sulla strada, la testa nei computer

Paoletta è andata in fissa per i Public Enemy, se li ascolta ovun- que e quando può si mette a ballare i loro pezzi canticchiando i ritornelli. «Don’t, don’t, don’t believe the hype…» Sul prossimo numero di Decoder ci saranno le traduzioni di tre canzoni della crew newyorkese. Se ne sta occupando la fotografa Monica, una creatura simile statunitense che da qualche mese fa parte della redazione. I Public Enemy sono il gruppo del momento. Con i loro testi militanti che richiamano le lotte delle Pantere Nere, ricordano in qualche modo la grinta e l’attitudine dei punk.

Fuori sta piovendo, in giro c’è poca gente, non è il caso di organizzare autoriduzioni. Siamo in una dozzina in Ripamonti. Roby sta parlando di una storia che gli è successa a Londra. Insieme a Paolo e ad altri punk avevano rubato un fusto a pressione di Guinness e, siccome non sapevano come spillarla, l’avevano rovesciata in una vasca da bagno lurida e se la bevevano da un mestolo. Si ride fino alle lacrime quando Roby spiega la sozzeria degli squatter inglesi, lui che alle volte si fa due docce al giorno. Nel frattempo Paoletta ha smesso di ballare e tira fuori le bozze di Decoder quasi pronte per la stampa. Mi ricorda che verso sera devo andare a casa di Gomma per scrivere l’articolo su Conchetta. Sul tavolo della cucina sfoglio le pagine della nuova uscita. L’editoriale rappato da William Gibson è intitolato Cyberpunk, un movimento nato negli Stati Uniti dopo la pubblicazione di un romanzo dello stesso Gibson, Neuromante.

Il cyberpunk è il pirata delle reti informatiche, il sabotatore dei sistemi computerizzati delle banche e delle multinazionali. Gomma ci ha spiegato in riunione che un altro scrittore statunitense, che si chiama Bruce Sterling, nella prefazione all’antologia di autori di fantascienza Mirrorshades segnala il cambio epocale rappresentato dal rapporto, sempre più intimo, tra essere umano e tecnologie. Il simbolo sono proprio gli occhiali a specchio, dietro ai quali il cyberpunk nasconde i sentimenti ma soprattutto la sua identità, per non farsi ingabbiare dalle reti del controllo. Occhiali che diventano, nell’incontro tra alta tecnologia e linguaggio pop, vere e proprie protesi che sostituiscono gli occhi e consentono visioni cibernetiche, precluse al normale essere umano.

«I piedi sulla strada, la testa nei computer», ha detto una volta Gomma in una sorta di sintesi tra i discorsi che sentivamo da Primo Moroni e le teorie dei due scrittori statunitensi. Non ci poteva essere introduzione migliore a una rivista internazionale underground che ha raggiunto novantasei pagine di contenuti da urlo. Un articolo di UVLSI sull’uso alternativo dei computer, il rap, il cinema underground di Nick Zedd, la musica industriale degli Einstürzende Neubauten. Poi Decoder dei piccoli con tante illustrazioni e fumetti: uno di Matteo Biolcati sulla storia di Conchetta e l’altro di Mao e Roby sulla motofficina. Nella parte dedicata alle controculture si parla di autogestione, della rivolta di Tompkins Square Park a New York e dei beat milanesi che nell’estate del 1967 occuparono un campo in periferia che i giornalisti chiamarono Barbonia City.

All’alba dei Novanta

Lo sgombero del Leoncavallo suscita una reazione emotiva e una solidarietà diffusa in città e forse in tutta Italia. Centinaia di persone si ritrovano ogni giorno nel centro sociale distrutto e spostano tonnellate di macerie per recuperare mattoni utili alla ricostruzione. I compagni sono diventati manovali, muratori e geometri. Il Leoncavallo sta rinascendo. Anche noi, nonostante l’attività dell’Acquario che continua, partecipiamo alle enormi assemblee che si svolgono nel cortile sventrato, con i primi muri alzati che stanno ridando forma al vecchio salone dei concerti. Gomma, Raf, Kix e Gianpaolo hanno prodotto un numero speciale di Decoder a seguito dello sgombero. Passo ore al banchetto della ShaKe con Gomma che mi parla del suo viaggio in Europa: a Londra da Tom Vague, ad Amburgo con il collettivo hacker Chaos Computer Club e a Berlino, dove ha incontrato un collettivo punk di artisti e costruttori di macchinari mutanti pazzeschi, la Mutoid Waste Company.

«Devi vedere cosa fanno. Sono poteenti», mi dice. «Dei camion che sembrano dinosauri meccanici, moto con ruote da trattore, automobili trasformate in blindati da combattimento. Una potenza. Hanno costruito un robot in ferro alto tre metri con un casco enorme in testa, poi l’hanno piazzato su un carrello ferroviario che correva lungo i binari. C’è stato un corteo che l’ha accompagnato direttamente a Berlino Est. Hai capito! Sono stati i primi ad andare al di là del muro!»

«Veramente già l’anno scorso dei nostri amici squatter avevano tentato di occupare una casa nella terra di nessuno…»
«Sì, i Mutoid sono insieme a loro.»
Con UVLSI e Raf si parla ancora di cyberpunk.
«Anche i Mutoid, persino Mao e le sue moto hanno quell’attitudine. Il cyberpunk mette le mani e il cervello dentro la macchina o il computer per modificare motori o software. Il Do It Yourself del punk che si incontra con il cyber delle nuove tecnologie.»

Per la prima volta ascolto un discorso sul no copyright. Considerato che la rivoluzione digitale sta cambiando i comportamenti e le abitudini delle persone, ma anche le modalità del consumo e della produzione, decade completamente la questione del diritto alla proprietà intellettuale. In sostanza con i computer si ha libero accesso a informazioni e file, si può prendere ciò che si vuole, farsene una copia e lasciare l’originale al suo posto, non si ruba niente…

La copertina de I pirati dei navigli, Bompiani 2017