Il collasso è inevitabile, prepariamoci al dopo

La crisi ambientale è irreversibile e nessuna green economy ci salverà dalla catastrofe. Ma è possibile sopravvivere all’apocalisse?

Nell’aprile del 2010 il vulcano islandese Eyjafjöll ha sfoggiato la sua potenza esplosiva sputando lava attraverso l’omonimo ghiacciaio e provocando una maestosa nube di cenere alta più di tre chilometri. Per paura di incidenti, in diverse aree dell’Europa il traffico aereo è stato interrotto, con un blocco dell’aviazione civile che non si vedeva dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Uno studio di Oxford Economics ha valutato l’entità del danno: tra le varie conseguenze ad ampio raggio, il blocco aereo ha provocato licenziamenti in Kenya, annullato operazioni chirurgiche in Irlanda e fermato tre linee di una fabbrica di BMW in Germania.

La vicenda dell’Eyjafjöll è uno degli esempi che raccontano la caduta uniformemente accelerata della nostra «civiltà» in rapporto alla natura nel libro Comment tout peut s’effondrer. Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présente. Il piccolo manuale di collassologia, pubblicato nel 2015 ma di cui si sta parlando molto negli ultimi mesi, descrive infatti l’imminente collasso della società termoindustriale e annienta ogni speranza di salvezza con una puntualità chirurgica. Gli autori sono due giovani ricercatori sfuggiti all’accademia: l’ingegnere-agronomo e instancabile conferenziere Pablo Servigne e l’esperto di filosofia della scienza e di sistemi complessi Raphaël Stevens.

Per quanto divulgativo, pieno di cose che già sappiamo sulla rovina del pianeta e punti esclamativi, Comment tout peut s’effondrer è un libro in grado di far deprimere anche i negazionisti climatici. Mette insieme in maniera organica una serie di dati, modelli, studi e prospettive largamente accreditati dalla comunità scientifica. Classici che vanno dalla simulazione matematica sui limiti della crescita del Club di Roma del 1972, alla teoria del picco petrolifero di Hubbert – secondo cui il costo dell’estrazione va aumentando nel tempo fino a diventare insostenibile – passando per gli studi sul collasso delle civiltà dell’antropologo Jared Diamond.

Secondo i collassologi le auto elettriche, il Green New Deal, la geoingegneria, l’omicidio violento di Donald Trump non porteranno a compimento il miracolo di cui abbiamo bisogno per mantenerci in piedi. L’assioma di partenza infatti è l’intuizione, puntualmente argomentata, che l’enorme torre Jenga su cui siamo in equilibrio crollerà presto e all’improvviso. L’evento da cui scaturirà l’effetto a catena, il tassello estratto dalla mano goffa, è in una rosa di possibilità infinite che vanno da una crisi finanziaria alla riproduzione incontrollata dei batteri anaerobici che producono metano negli abissi. La definiscono intuizione perché è impossibile fare previsioni precise su cause e tempistiche, ma il margine di dubbio è molto vicino allo zero.

Continuare a pensare che il problema riguardi le generazione future e che una riduzione delle emissioni possa arginarlo è un modo di negare la realtà. La società termoindustriale, ovvero il sistema globale in cui la maggior parte degli esseri umani è immersa suo malgrado fino al collo, ha un destino legato a doppio filo a quello dell’ambiente e degli altri esseri viventi che sta avvelenando. E attualmente il nostro sistema economico, ricordano i collassologi, è fragilissimo e instabile. Come dimostra l’episodio dell’Eyjafjöll, è una rete fatta di infiniti legami interdipendenti: senza api non abbiamo raccolto, senza supermercati qui in città non mangiamo, senza calcolatori potentissimi la finanza non esiste. E in alto, a sovrastare questa rete, c’è un crudele dio pantocratore: il petrolio.

Tutti gli oggetti e i servizi a cui siamo abituati sono intinti in questa potentissima droga energetica, di cui un barile corrisponde a due anni e mezzo di lavoro umano medio. Senza bruciare petrolio non saremmo mai arrivati a strutturare un sistema così esteso, veloce e complesso. Se dovesse aprirsi una qualsiasi crepa nel sistema, saremmo fottuti. E continuando a conservare i nostri privilegi – e non cose banali come avere una macchina, anche lavare i piatti con lo Svelto è un lusso – manderemo nel cesso, privilegi inclusi. Volendo fare un discorso individualista, che a quanto pare è la nostra specialità culturale, il punto potrebbe essere non tanto salvare la biosfera ma noi stessi. Se saremo tanto fortunati da sopravvivere all’autocombustione, ai blackout e all’ennesima crisi economica, insistono gli autori, ci ritroveremo quasi certamente a zappare la terra. Ed è meglio se iniziamo a cercarci una casa in campagna, a fare squadra coi vicini e a informarci sulla permacultura, perché nel nuovo medioevo non ci saranno trattori.

Anche se può sembrare banale e vagamente millenarista, Comment tout peut s’effondrer conduce a una presa di coscienza piuttosto oggettiva. Ha un approccio interdisciplinare, ben radicato nel mondo della scienza, che valuta il tracollo anche da un punto di vista dell’etica individuale. Problemi come la combustione incontrollata di petrolio, l’inquinamento da plastiche, l’estinzione degli animali riecheggiano nelle nostre orecchie da quando siamo bambini. E un libro che le ribadisce, soprattutto per i più informati, potrebbe sembrare ridondante. Ma la domanda è sempre la stessa e non ci siamo ancora dati una risposta: se anche noi siamo certi che questo Jenga non può reggere, se lo scricchiolare delle fondamenta è la nostra nuova ninna nanna, perché non valutiamo seriamente ‘sta cazzo di vita in campagna per anticipare il corso degli eventi? A parte qualche ritardatario, siamo tutti d’accordo con Greta Thunberg: aspettare le riforme strutturali non ha senso.

Secondo Pablo Servigne una possibile interpretazione della nostra noncuranza è nel modello delle fasi di elaborazione del lutto della psichiatra Elisabeth Kübler-Ross. In caso di perdita affettiva o ideologica si attraversano cinque fasi: la negazione, la rabbia, la negoziazione, la depressione e l’accettazione. Al momento, o siamo tutti masochisti o siamo impantanati nella negazione. Speriamo segretamente che i dati siano sbagliati, che gli USA firmeranno dei trattati, che Elon Musk ci regali delle utilitarie, che qualcuno inventi un maxi-aspirapolvere per togliere il CO2 dall’atmosfera. Continuiamo a parlare, a leggere e a scrivere del declino in maniera spesso poco lucida lo dimostrano le inutili polemiche sui Fridays For Future dopo il 15 marzo senza ancora riuscire a renderlo reale nella nostra percezione.

Forse davvero il nostro cervello è fatto per procrastinare le prese di coscienza, dev’essere lo stesso meccanismo che non ci fa smettere di fumare. O magari doveva semplicemente andare così, anche gli Antichi Romani hanno fatto crollare un impero, e non erano più stupidi di noi. Sul motivo di questo annebbiamento intellettuale, insomma, possiamo speculare all’infinito, ma nel 2019 arrivare a un punto teorico non è necessario. C’è una caratteristica culturale, non legata alla Storia né agli angoli ciechi della psiche, che secondo i collassologi possiamo decostruire per diventare un po’ più resilienti: l’idea che la cooperazione umana su larga scala sia impossibile, che lo stato di natura – qualsiasi cosa voglia dire – sia homo homini lupus e che l’unico futuro immaginabile, una volta crollato il sistema, sia una versione live di Mad Max.

Senza mai diventare naif, dopo averci fatto ingoiare l’amaro rospo dell’Apocalisse con i dati scientifici, Stevens e Servigne spostano il discorso su una consistente par costruens. Insistono su quanto l’individualismo sia stato imposto dalla modernità e dalla società del consumo: «perché aiutarsi a vicenda se ognuno di noi ha al suo servizio il corrispettivo energetico di mezzo migliaio di schiavi?» Il capitalismo ci ha anche abituati a pensare che in natura vige la legge del più forte. È per questo che è nato lo stato, dicono alcuni, per limitare i nostri istinti egoisti e violenti.

Se gli esseri umani non fossero stronzi, ovviamente, non ci staremmo suicidando a botte di CO2 e non staremmo scrivendo questa storia orribile. Ma se abbiamo creato degli stati e un sistema globale per quanto fragile e infame forse abbiamo abbastanza abilità sociali per evitare di estinguerci o di distruggere la vita sulla Terra. Nelle sue conferenze, Pablo Servigne cita spesso il biologo anarchico militante Pëtr Kropotkin, nemico giurato dei darwiniani. Nei suoi studi di inizio novecento sulla fauna della Siberia, Kropotkin ha osservato che le specie animali che sopravvivono alle condizioni più estreme sono quelle che si aiutano a vicenda. La sua teoria, estesa anche agli esseri umani, collega infatti evoluzione e mutuo aiuto. Ma nei manuali di scienze al posto di Kropotkin ci sono solo pessime interpretazioni di Darwin, ricordano i collassologi.

In definitiva, a meno di invenzioni disrupting da singolarità tecnologica, la situazione ambientale è irreversibile. Non possiamo risolvere nessuno dei numerosi «problemi» perché non sono dei problemi ma dati di fatto. Se proprio ci sta a cuore il genere umano, possiamo provare a cooperare come consigliano i collassologi per essere più resilienti ed evitare un futuro atroce sia a noi che a chi subisce le conseguenze delle nostre scelte. Altrimenti l’estinzione di massa resta un’opzione, e non è detto che sia un male. Sarebbe la realizzazione del sogno nichilista, la vittoria definitiva degli stronzi e allo stesso tempo la loro fine. L’epilogo perfetto per questa parte di umanità. Il grosso problema è che gli altri esseri viventi e parte della nostra specie forse non se lo meritano, ma tanto lo ammettiamo: non ce n’è mai fregato un granché.