Richard Mosse, Incoming

Arte, turismo e violenza

In che modo il rapporto tra mondo dell’arte e tecnologia hi tech sta provando a raccontare guerre e crisi dei migranti?

Crisi e rifugiati continuano a infiammare le politiche europee, mentre la retorica sui migranti dipinge i confini dello spazio fisico come sempre più stretti e soffocanti. Nel frattempo, abbastanza ironicamente, le opzioni per fuggire in verticale a tale limitatezza dello spazio si moltiplicano: su Amazon ormai si trovano visori VR anche a meno di 10 €, cifra che una manciata di anni fa sarebbe sembrata inconcepibile. Realtà virtuale a parte, sappiamo poi che con il passaporto giusto viaggiare è sempre facile; e allo stesso tempo, sappiamo anche che l’erosione della stabilità lavorativa tende a trasformare gli ideali palliativi del «nomadismo digitale» da trend a necessità, se non altro esistenziale.

In tempi di nomadismo diffuso, diventa conveniente prendere a riferimento lo «stack» teorizzato da Benjamin H. Bratton: una «megastruttura accidentale» composta da terra, cloud, città, indirizzo, interfaccia e utente, su cui è ormai inequamente distribuita una sovranità globale. Ed è proprio quando questa globalizzazione a mezzo tecnico ci fa sentire nomadi che è importante tracciare una linea tra nomadismo e turismo. È importante soprattutto da consumatori culturali, visto che l’esperienza artistica è ormai sempre più distribuita in ogni aspetto della vita e che proprio gli artisti sono forse la categoria più all’avanguardia nell’assegnazione di un senso culturale alla tecnologia. Artisti e turisti, come vedremo.

Negli anni Settanta Dean MacCannell scriveva un testo classico sulla figura del turista, poi divenuto influente ben oltre i propri confini disciplinari. Secondo il sociologo americano questa categoria contemporanea, in ascesa già allora, racchiudeva un modello ideale per capire l’uomo moderno. Da un lato il turista esprime la voglia di vedere, conoscere e assorbire il diverso – l’«autentico» – come contrappunto a uno stile di vita dove sono sempre di più il tempo libero e i consumi culturali a definire la persona. Dall’altro, proprio tramite questa costruzione arbitraria dell’autenticità e il rituale pellegrinaggio verso i suoi siti designati, la figura legittima l’instabilità moderna e la sua intrinseca moralità.

Tra i vari meriti del libro c’è quello di essere uscito rafforzato piuttosto che indebolito da tutto il dibattito successivo sul postmoderno. La celebrazione della differenza diventa infatti nel turista un feticismo della distanza e della differenziazione molto rischioso, mentre secondo MacCannell l’«utopia della differenza» dipende invece dalla capacità di riconoscere e accettare l’«altro» come radicalmente tale. Stabilendo, insomma, un dialogo tra intelligenze differenti.

Questa cosa delle intelligenze differenti mi colpisce molto, perchè se dovessi definire uno degli aspetti più affascinanti dell’esperienza dell’arte contemporanea – visitare uno spazio organizzato in un certo modo, con oggetti che lo occupano ciascuno a suo modo – è proprio l’incontro con un’intelligenza altrui. Anche senza scomodare il celebre saggio di Brian O’Doherty sul «white cube» – nel quale si parla proprio dell’ideologia dello spazio galleristico come una forza normalizzante e sacralizzante al tempo stesso, sicuramente affine al culto del sightseeing descritto da MacCannell – troviamo un collegamento tra turista e artista già nelle pagine della prefazione di Lucy Lippard all’edizione del 1999 di The Tourist. Secondo Lippard, turista e artista sono entrambi catalizzatori di cambiamenti sociali, anche in maniera involontaria. Questo incontro tra arte, turismo e modernità è abbastanza cruciale, quindi, se pensiamo a come l’arte contemporanea affronta l’esperienza di migranti e rifugiati.

Richard Mosse, The Enclave

Rappresentare la migrazione

Richard Mosse è un fotografo e artista irlandese, molto bravo nel combinare impatto estetico e concettuale. È noto principalmente per The Enclave (2013), un reportage di guerra dalla Repubblica Democratica del Congo per il quale ha utilizzato un tipo di pellicola infrarossa creato per scopi militari. L’effetto estetico del mezzo, che trasforma il verde delle colline e delle mimetiche dei soldati in un rosa molto vivace e quasi alieno, si combina con un’implicita critica al modo di guardare il Paese come luogo di oscurità e pazzia.

Se il tono cromatico di The Enclave resta comunque esotico, l’opera successiva di Mosse è più sottile e sinistra. Girato in numerose location sulla scia dei rifugiati, tra cui Calais e Lesbos, Incoming (2017) fa uso di una tecnologia molto più avanzata e significativamente digitale. La fotocamera, sempre militare, è stavolta un pesante macchinario dall’obiettivo teleguidato, capace di catturare variazioni di temperatura a 30 km e produrre immagini in scala di grigi dall’aspetto freddo e irreale. Nel dettaglio i volti sono anonimizzati dalla visione, che pare in notturna, levigati e ritagliati su uno sfondo anch’esso neutralizzato e reso generico dalla scala cromatica. I campi più lunghi permettono invece di ottenere paesaggi tanto ampi quanto definiti, un aspetto che il testo della mostra, presentata al Barbican di Londra, paragona ai quadri infernali di Bosch. La «dataficazione» del rifugiato si compie nella distanza – i lineamenti si sciolgono, le folle si mimetizzano nel paesaggio – ma è l’accuratezza dei dettagli a mascherare la loro normalizzazione: rianimazioni e corpi senza vita si alternano a divaganti sguardi sui riflessi dell’acqua e giochi di luce. Noi riconosciamo tutto, ma è come trascinato da un flusso di dati ai quali è più difficile affezionarsi.

Richard Mosse, Incoming

L’efficacia poetica del lavoro di Mosse è innegabile, ma nonostante la sua riflessione sia materialmente ambiziosa – usare tecnologia di controllo militare per rivelare il suo potenziale deumanizzante – non mi sono stupito eccessivamente quando, in un articolo di Morgan Quaintance apparso su e-flux, la sua operazione è stata bollata come «techsploitation». Il pezzo parla di tutt’altro, ma la critica (severa e troppo obliqua, per carità) non è proprio campata in aria. La verità è che l’opera di Mosse, per quanto impegnata, si scontra con i limiti della rappresentazione. Ma in un senso particolare.

Susan Sontag diceva che le immagini di guerra «paralizzano e anestetizzano», ma Incoming si posiziona già in cima a un sovraccarico mediatico lampante: Charlie Hebdo si appropria della foto del piccolo Alan Kurdi, il bambino siriano immortalato a faccia in giù su una spiaggia e divenuto simbolo degli orrori del suo paese; i corpi delle vittime afroamericane della police brutality americana diventano virali (Nehal El-Hadi ci ha scritto su un bel saggio); la pittrice bianca Dana Schutz espone un dipinto con il cadavere del quattordicenne afroamericano Emmett Till alla Whitney Biennial e causa proteste. Ma l’uso e abuso di riproduzioni più o meno grafiche e più o meno esotizzate si basa spesso sull’ineluttabile, mentre la dataficazione messa in atto da Mosse denuncia la propria stessa funzione normalizzatrice: non pornifica l’immagine della violenza o della disperazione, non ci anestetizza per eccesso. Nonostante questo, non resiste alla tentazione di apparire «bella», poetica, proprio mentre si lascia distrarre dall’astrazione del bianco e nero digitale che divaga sui riflessi del sole. Se The Enclave mi aveva lasciato subito un po’ dubbioso su questo aspetto, criticare Incoming è molto più difficile. Ma rimane importante.

Riflettere su simili argomenti non cambia il fatto che non ci si può aspettare che siano gli artisti a occuparsi di problemi come la crisi dei rifugiati. Un paio di anni fa la Refugee Challenge del festival olandese What Design Can Do?, per esempio, veniva vivacemente criticata in una lettera aperta di Ruben Pater a Dezeen: non solo per la rappresentazione dei rifugiati come folle di disperati nella comunicazione marketing relativa all’evento, ma soprattutto perché inquadrare il diluvio umano come problema di design distoglie dalle responsabilità politiche e istituzionali che lo circondano.

Forensic Architecture, The Left-to-Die Boat – The deadly drift of a migrants’ boat in the Central Mediterranean

Un approccio molto più affine alla posizione di Pater è quello di Forensic Architecture, un’entità davvero difficile da inquadrare ma proprio per questo estremamente interessante. Con sede al Goldsmiths di Londra, FA è un’agenzia indipendente che sfrutta la crescente disponibilità di dati e tecnologie forensi per investigare attivamente violazioni di diritti umani in ambienti urbani ormai profondamente dataficati. Per quanto la loro «estetica investigativa» venga presentata spesso in contesti artistico-culturali come l’ICA di Londra, il loro lavoro viene usato regolarmente in vere e proprie operazioni di attivismo che dialogano con contesti istituzionali.

Venendo da un background di critica architettonica (uno dei fondatori è Eyal Weizman, il cui bellissimo Architettura e occupazione parla del ruolo della disciplina nel controllo degli spazi in Israele e Gaza) FA parla spesso di spazio «urbano», ma come Forensic Oceanography si sono occupati anche di tragedie avvenute nel mezzo del Mediterraneo. Il progetto The Left-to-Die Boat, diretto da Charles Heller e Lorenzo Pezzani, riguarda infatti il caso di un’imbarcazione con decine di migranti libici a bordo, lasciata alla deriva per quattordici giorni in mezzo al Mediterraneo sotto la fredda sorveglianza e l’indifferenza istituzionale della NATO. Il video Liquid Traces di FO ricorre a mappe, dati, registrazioni, testimonianze orali dei sopravvissuti; ricostruisce insomma la vicenda – alla fine della quale 63 migranti erano morti – narrandola in modo asciutto e spietato, tramite le sue coordinate spaziotemporali. Piuttosto che rappresentare la sofferenza, FA la ricostruisce quindi materialmente, mettendo in comunicazione diversi strati dello «stack» e attivandolo come strumento politico. Rispetto all’opera di Mosse, lo sguardo dell’artista-turista (inteso come «ospite» sul campo profughi) viene qui sostituito da una figura scorporata ma non certo eterea, il cui punto di vista è tanto distribuito quanto cruciale.

Alejandro G. Iñárritu, Carne Y Arena

La promessa empatica del virtuale

La poetica di Mosse non è quindi priva di contraddizioni, ma non sembra promettere altro se non la restituzione di un quadro paesaggistico, per quanto preoccupante. Diverso il caso di Alejandro Gonzalez Iñarritu, la cui installazione Carne y Arena (2017) – esposta l’anno scorso alla Fondazione Prada di Milano – è un richiamo molto più esplicito al potere dell’identificazione nel suscitare empatia. Il premiato regista non parla di Mediterraneo, ma del suo analogo d’oltreoceano: il confine tra Messico e Stati Uniti; al visitatore veniva offerta la possibilità di attraversare questo confine insieme a un gruppo di clandestini, grazie alla magia della realtà virtuale. A livello di immersività, personalmente, non ho mai provato niente di simile.

La mostra funzionava così: dopo aver firmato un disclaimer piuttosto angosciante, vieni lasciato solo e senza scarpe in una stanza spoglia, in compagnia solo di fredde panche e scarpe altrui, abbandonate scenograficamente. Dopo un’attesa intenzionalmente prolungata, si entra nell’area centrale: uno stanzone buio dove lo staff ti istruisce e ti barda in vista dell’esperienza clou. I sei minuti di video VR non sono lunghissimi, ma intensi sì: di punto in bianco ci si trova catapultati in mezzo al deserto di Sonora, durante la notte. Oltre a potersi muovere in relativa libertà, sabbia vera sotto i piedi scalzi e venticello artificiale contribuiscono a rendere il tutto più reale. I compagni di viaggio sono realistici ma evidentemente digitali, e tu ti muovi attorno a loro ascoltandone i dialoghi. Inizialmente nessuno ti parla – ti rendi conto di essere un occhio vagante, provi ad allontanarti nella notte e a riavvicinarti, spingendoti addirittura dentro i migranti: sovrapporsi a uno degli altri modelli umani ti cala infatti letteralmente dentro ai loro organi vitali, ne vedi e senti il cuore battente.

Questo tocco di rispetto verso la materialità di corpi seppur virtuali, è pregevole; certo, quando arriva la pattuglia con gli elicotteri e loro vengono fatti inginocchiare c’è stupore piuttosto che empatia, e quando finalmente i fucili vengono puntati contro di te la reazione è più tipo «Hai capito, Iñarritu…» che di paura vera. Tolto il visore VR si procede verso l’ultima stanza, dove video molto più tradizionali raccontano le storie dei veri immigrati sulla cui esperienza è stato modellato il video VR, le cui storie appaiono sobriamente come testo su fotografie sfocate. L’inclusione di quest’ultima parte è cruciale nell’evitare la riduzione del tutto a un bel videogioco: leggere delle vicissitudini e delle difficoltà, ma anche della rivalsa, di questi soggetti commuove molto più delle due stanze precedenti.

Future Aleppo

Carne y Arena è da questo punto di vista parecchio migliore della controversa opera di Jordan Wolfson alla Whitney Biennial, Real Violence (2017), nella quale il VR è usato invece come «cura Ludovico» e il visitatore è costretto a guardare il brutale pestaggio di un modello animatronico (ma realisticamente postprodotto a umane fattezze) tramite mazza da baseball. In generale (e questo si applica anche a Iñarritu), l’uso del VR come macchina del realismo rimane un uso limitato del mezzo e ne tradisce il retroterra, per dirla alla MacCannell, turistico. In questo senso, più interessante è l’esperienza di Future Aleppo, progetto articolato e non strettamente artistico di Alex Pearson e Marshmallow Laser Feast che si basa sulla storia di un ragazzino siriano aspirante architetto di nome Mohammed Kteish. Io l’ho incrociato in una mostra al FACT di Liverpool, dove un modellino di carta della città siriana era trasposto in un ambiente virtuale e reso seminavigabile dal visitatore. Tu che guardi sei limitato a muovere la testa per seguire con gli occhi il racconto dei luoghi della città, mentre un Mohammed registrato ti parla di come se li ricorda lui e di cosa farebbe se potesse tornare a realizzarvi i propri sogni professionali.

Il paesaggio esplicitamente riduttivo aiuta a evitare la trappola della distrazione turistica e tutto il suo bagaglio orientalista, costringendoti ad ascoltare il punto di vista del bambino. In questo caso, l’«altro» e la sua intelligenza vengono celebrati e mantengono il timone, mentre in Carne y Arena sono i nostri cervelli europei a essere paracadutati in una situazione così estranea da apparire, a livello affettivo, incomprensibile. Inoltre, mentre l’inarrivabile realizzazione tecnica di Iñarritu contribuisce a sviare l’attenzione, l’installazione al FACT e la sua estetica molto «art attack» sicuramente non corrono questo rischio.

Filosofi come Mark Hansen hanno scritto tanto sul ruolo dell’arte nella comprensione della tecnicità intrinseca all’esperienza corporea, e su come ogni realtà sia una realtà mista. Squalificare l’esperienza della realtà virtuale come periferica e superficiale sarebbe senz’altro un errore, ma è proprio per questo che rimane importante concentrarsi sul mantenimento di una coscienza anche durante esperienze apparentemente scorporanti come questa.

Jordan Wolfson, Real Violence

Turismo responsabile

Per concludere, tornerei alla linea tra turismo e nomadismo accennata in apertura. Già nell’introduzione all’edizione di fine millennio del proprio classico, MacCannell anticipa una deriva problematica della nomadologia deleuziana – caratterizzata da toni emancipatori e celebrativa di un certo divenire comunitario, contrapposto alla fissità statale – scrivendo che sarebbe teoricamente e moralmente sbagliato mettere sullo stesso piano il nomadismo forzato del rifugiato e quello volontario del turista. Una risposta a questo rompicapo teorico la offre Rosi Braidotti, teorica del soggetto nomade ed erede della nomadologia deleuziana per eccellenza. Secondo la filosofa c’è una grossa differenza tra una figura sociologica e una figurazione filosofica; Braidotti ci tiene a precisare infatti che una «figurazione» come, appunto, la figura del nomade, non è un «modo di pensare figurativo», ma piuttosto una mappatura materiale di posizioni assolutamente situate e incarnate. Il soggetto nomade non è quindi una categoria universale del postumano (come quella del turista rispetto al moderno in un certo senso), ma dev’essere mappato accuratamente e riconosciuto nel proprio divenire e nella propria locazione: nomade, senzatetto, migrante, esule, turista, expat, eccetera – che non sono metafore, ma posizioni sociali. L’esperienza del viaggiare, del vagare, del migrare, non ha una qualità intrinseca in sé stessa, ma rimane inscindibile dal soggetto che la compie, nel contesto in cui la compie.

E gli artisti?

Mentre Mosse o Iñarritu inquadrano storie e movimenti altrui in interfacce esteticamente cariche che non danno spazio di azione ai soggetti rappresentati, opere come Liquid Traces o Future Aleppo offrono appunto cartografie del genere auspicato da Braidotti, favorendo nel secondo caso anche l’incontro di intelligenze descritto da MacCannell. Questo, quantomeno, è «turismo responsabile».