Naturalismo MIDI
Con la loro «ambient del futuro passato», il loro mix di elettronica hi-fi e naturalismo, le loro stranianti atmosfere che sembrano rimandare alle nitide e ipertecnologiche superfici del Giappone anni Ottanta, i Visible Cloaks sono sicuramente uno dei gruppi più affascinanti degli ultimi anni, portatori di una visione interessante e pensata, che riesce tanto a essere «piacevole all’ascolto» quanto a dirci qualcosa di importante del tempo che stiamo vivendo. Il loro secondo, fondamentale album, Reassemblage, è uscito a febbraio di quest’anno per Rvng Intl.,e i due si esibiranno oggi a Torino – alla Reggia di Venaria – in apertura della nuova edizione di Club To Club. Ho quindi cercato di capire qualcosa di più sulla loro visione parlando con Spencer Doran, titolare del progetto assieme al socio Ryan Carlile, che comincia descrivendomi i Visible Cloaks come «musica ambientale arrangiata in forme composite. O forse sarebbe meglio una categoria mimetica come “musica concreta/iperreale/ambientale”, per dirla con Allen S. Weiss».
Bella definizione. A tal proposito, so che vieni da studi di filosofia… È un percorso che ha avuto un impatto anche sulla tua produzione musicale? Ci sono idee o concetti dietro al tuo lavoro che hai adottato a partire dai tuoi studi?
Certamente. In un senso ampio, il tempo che ho speso nel mondo accademico è stato cruciale per disfarmi di ogni traccia di approccio tradizionale alla composizione, attraverso un più generale riallineamento del mio modo di pensare: ho imparato ad esempio a immaginare la struttura musicale come qualcosa che si può ridurre a elementi-base da riassemblare a volontà. Anche se probabilmente ho imparato di più immergendomi in biblioteca nei libri su Xenakis o sul minimalismo…
Ma segui anche il dibattito filosofico contemporaneo? Ci sono correnti o pensatori che trovi particolarmente interessanti in questo momento?
Qualcosa sì. Di sicuro seguo le correnti della sinistra contemporanea, e trovo entusiasmante come, all’interno della sfera politica, comincino a essere trattate seriamente idee come quella secondo la quale l’automazione possa portare a un reddito non dipendente dal lavoro. Pensa al solito accelerazionismo: d’accordo, all’interno del mondo dell’arte sta già un po’ stancando, ed è stato usato come giustificazione per molti lavori vistosi e sgargianti che non incontrano granché il mio gusto; ma ha il potenziale per rivelare discorsi genuinamente futuristici. In generale però non leggo più tantissimo di filosofia contemporanea o teoria critica… Tendo a interessarmi di più agli scritti filosofici sul suono e l’acustica: per esempio ho appena finito The Order of Sounds, l’ultimo libro di François Bonnet, e l’ho trovato molto appassionante.
Sai che c’è in corso un grande dibattito sul tema dell’«appropriazione culturale» e sulla persistenza di visioni orientaliste dell’«altro»… Visto il vostro continuo riferimento a immaginari come quello giapponese degli anni Ottanta, come situi un progetto come Visible Cloaks all’interno di questo contesto?
Dialoghiamo con questo tipo di dibattito e ne siamo del tutto coscienti. In particolar modo sono interessato a far emergere gli aspetti di sfruttamento che stanno dietro concetti come «quarto mondo» (nel senso di Fourth World dato da Jon Hassel) o «villaggio globale», per far sì che vengano messi in discussione: ma è un processo che spesso può essere male interpretato. Per esempio, in Reassemblage c’è un pezzo che usa informazioni MIDI generate da un frammento di musica degli Aka, il popolo pigmeo. Storicamente, la loro musica è stata campionata un’infinità di volte sia all’interno dell’avanguardia sia nella musica pop, in un modo che ha creato una disconnessione affascinante tra il contesto originale della musica e quello del mondo contemporaneo e tecnologicamente connesso (c’è un ottimo saggio di Steven Feld a riguardo). La musica vocale del popolo aka viene spesso utilizzata come un significante o un riferimento a una forma di musica pura e incontaminata, o anche solo come un vago sapore di alterità…
Ecco, usare solo le informazioni MIDI di quel pezzo è un modo di chiedersi quale sia la vera essenza di quella musica. È nelle sue note – una traccia lasciata al loro interno, un’impronta del frammento musicale originario – o sta al di là di quello? Quali sono le implicazioni di un campionamento, dove finisce la composizione e comincia la ricontestualizzazione? Dove finisce Jon Hassell e dove cominciano i Deep Forest? Ci sono tracce di «quarto mondo» nei cd di global fusion della Putumayo che trovi alla cassa di catene come Whole Foods? Queste cose conducono all’omogeneizzazione? Siamo alla forma finale e distopica di quella che pensavamo fosse un’utopia? Sono queste le cose cui ho pensato…
Penso che sia possibile mantenere un senso della storia e della propria identità personale anche in un mondo culturalmente fluido: l’idea che queste cose siano incompatibili è una delle bugie del nazionalismo.
Ma nonostante i sottostanti problemi di sfruttamento (che spesso sono del tutto evidenti nel contesto dell’industria musicale), penso tuttora che le idee utopiche offerte dal concetto di «villaggio globale» restino particolarmente importanti visto il proliferare del nazionalismo in America, nel Regno Unito e in Europa: vedi Trump, la Brexit e l’ascesa di politici di estrema destra il cui focus è sulle politiche contro l’immigrazione e i rifugiati, e la demonizzazione di ciò che è «altro» all’interno della società. È parte del motivo per cui è così piacevole fantasticare su un futuro fatto di sradicamento dei confini e di ibridazione culturale, e anche se in senso assoluto questi futuri immaginati possono essere impossibili, aiutano comunque a dare forma a una prospettiva nel presente: la comunicazione transculturale può cominciare in campi teorici come la musica e poi estendersi più facilmente nel più realistico mondo della politica. La fantascienza (che forse è il modo migliore per capire il «quarto mondo») può essere un modo per dissezionare in astratto i problemi reali del presente. Il rischio che si corre è sempre quello dell’omologazione, certo; ma penso che sia possibile mantenere un senso della storia e della propria identità personale anche in un mondo culturalmente fluido: l’idea che queste cose siano incompatibili è una delle bugie del nazionalismo.
A proposito di «orientalismo», fammi dire una cosa: io non vedo musicisti giapponesi come Haruomi Hosono o Satoshi Ashikawa in modo differente da, chessò, Brian Eno o Morton Feldman; le problematiche «orientaliste» arrivano quando si etichetta un’ispirazione come «appropriazione» e un’altra come «influenza» per via delle differenze di contesto culturale. Ma per quanto io voglia capire e prendere in considerazione la cultura che crea il contesto da cui nasce il loro lavoro, non sono le qualità esotiche a interessarmi, quanto aspetti musicali che sembrano al di fuori della cultura o del tempo in generale. È interessante come il Giappone, durante la bolla degli anni Ottanta, guardasse moltissimo all’Europa, al Regno Unito e all’America; a dare forma a quelle musiche era anche una francofilia che riportava a figure storiche come Erik Satie e a collaboratori diretti come Pierre Barouh. Non è così diverso dal modo in cui noi guardiamo a quell’epoca dal nostro privilegiato punto di vista occidentale. Considera anche che questo loop non ha un vero e proprio inizio: in Francia, quelle figure guardavano a loro volta a forze culturali esterne (prendi l’interesse di Debussy per il Gamelan dell’isola di Giava). In senso ampio è tutto ciclico, un ouroboros.
Il nostro lavoro come Visible Cloaks è anche molto influenzato da musicisti italiani, come il circolo allargato che stava attorno a Franco Battiato negli anni Settanta e Ottanta, o anche da gente come Riccardo Sinigaglia… Lo dico sempre nelle interviste, ma raramente sono nomi che vengono citati quando si parla di noi: è interessante chiedersi come mai. In ogni caso, credo sia importante trattare i musicisti al di fuori della tua cultura con un rispetto e una reverenza che non siano diversi da quelli che hai per i tuoi colleghi (o per i tuoi idoli) che stanno all’interno della tua stessa cultura; penso che sia quando separi le cose e autorizzi questo rispetto a essere «diverso» (e lo fai usando spiegazioni come l’esotismo) che la questione diventa un problema.
D’accordo, ma come mai avete deciso di concentrarvi molto sul Giappone degli anni Ottanta? Ok, ai tempi produceva musica fantastica, ma c’è anche qualcosa di più? Perché se pensiamo al Giappone del periodo, c’era uno specifico contesto culturale che ha molto a che fare con la relazione con la tecnologia, con la cultura nerd (il fenomeno otaku), il senso del futuro, quindi tutte cose molto attuali… Pensi che, per via di questo bagaglio, il Giappone anni Ottanta possa rappresentare una specie di possibile «immaginario folk» per il 2017?
Non saprei. Ho un sacco di ossessioni musicali, e il mio interesse per la musica giapponese degli anni Ottanta e dei primi Novanta è uno di quelli che sembra essersi sviluppato per ragioni che non so pienamente comprendere. Continua a essere usato per spiegare il mio lavoro, il che è un po’ frustrante, ma penso sia in gran parte colpa mia che ne parlo in continuazione… Al di fuori del Giappone, c’era e continua ad esserci una scarsa comprensione del contesto nipponico di quegli anni: anche perché poco veniva distribuito al di fuori del paese, e il materiale era in gran parte destinato a un mercato interno. Di certo la relazione con la tecnologia è un fattore importante, e aiuta a capire come mai un sacco di quella musica continui a suonare così contemporanea e resti così rilevante ancora oggi. Un altro grosso aspetto che trovo molto interessante è quanto quella musica fosse mainstream, il che offriva un’importante intersezione tra tecnologia di altissimo livello e processo compositivo decostruttivista. Probabilmente era dall’epoca dei Beatles che l’avanguardia culturale non si ritrovò così vicina alla musica pop.
Gli anni Ottanta sono stati il serbatoio da cui negli ultimi anni hanno attinto un sacco di immaginari «passatisti»: pensa solo all’hypnagogic pop, alla chillwave, o anche alla stessa vaporwave. I Visible Cloaks però suonano in modo diverso. Non sono lo-fi, non c’è traccia di «nostalgia»… È un suono molto hi-tech, freddo, moderno.
Sì, lo penso anch’io.
Allo stesso tempo però, la cosa interessante è che nel vostro lavoro c’è anche tutto un lato naturalistico/ecologico, diciamo pure ambientalistico. Si tratta di una sorta di dialogo tra il naturale e l’artificiale?
Non credo che il moderno mondo digitale e hi-tech e quello naturale/ecologico debbano essere per forza di cose separati: sono entrambi in grado di comunicare la stessa essenza. Uno esiste all’interno dell’altro e viceversa. Sicuramente sono interessato a rendere sempre più sfumato il confine tra queste distinzioni. C’è sempre stato una sorta di tira e molla tra astrazione e rappresentazione; quello che noi facciamo si può forse descrivere come un collage di questi due approcci: un ibrido organico e sintetico, che barcolla tra il figurativo e il non figurativo. Di certo non è una novità nella musica elettronica: prendere il reale e forzarlo nel mondo dell’irreale attraverso la tecnologia è stato un aspetto centrale del genere per molto tempo. Ma penso che, nonostante i molti precedenti storici, ci sia ancora un bel po’ da esplorare in questo campo.
A proposito di «ambienti», mi interessa anche un altro tuo interesse parecchio evidente, quello per l’architettura…
I miei gusti in fatto di architettura sono del tutto modesti, ma è vero: si tratta comunque di un linguaggio che mi interessa. Sicuramente uno dei miei preferiti è Alvar Aalto: la biblioteca dell’abbazia di Mount Angel in Oregon è un mio frequente pellegrinaggio. Ma amo anche Le Corbusier, Mies van der Rohe, il Bauhaus… Se poi ci ricolleghiamo al mio interesse per la musica giapponese della cosiddetta bubble era, mi piace molto anche l’architettura postmoderna degli anni Ottanta, e quindi nomi come Fumiohiko Maki, Kunihiko Hayakawa, Shin Takamatsu, Arata Isozaki… Quest’anno abbiamo suonato al MOCA di Los Angeles, che è un palazzo di Isozaki, e anche al centro congressi ICE di Cracovia, dove sempre Isozaki ha lavorato come design consultant. Per estensione ci sono anche postmodernisti italiani che apprezzo molto come Mario Botta (che in realtà è svizzero) o Aldo Rossi. Penso però che la più bella architettura che abbia mai visto sia quella dei palazzi indiani che già ispirarono Ettore Sottsass ai tempi di Memphis Milano: l’architettura locale spesso è tanto interessante quanto l’avanguardia contemporanea.
Per quanto invece riguarda come questi interessi si riflettano sulla musica che faccio, devo dire che durante la composizione penso molto allo spazio fisico, magari usando effetti come il riverbero per creare spazi virtuali e giocare in modo psichedelico con la loro artificialità; è un aspetto che ho sempre apprezzato molto in una musica come il dub: la manipolazione dello spazio dello studio in un modo che riveli il proprio artificio. In qualche modo si tratta di una specie di «architettura dell’ascolto»: il modo in cui si possono usare cose come lo spazio bianco in una composizione o la stereofonia, si basa su impulsi di quel tipo. Anche il lavoro di Brenna Murphy che accompagna le nostre musiche più recenti include costruzioni architettoniche digitali immaginarie, sia in forma di video musicali che come ambienti interattivi.
Com’è un live dei Visible Cloaks?
Usiamo diversi modi di suonare e manipolare informazioni MIDI (strumenti digitali a fiato, un controller-mallet, varie tastiere…) e anche la mia voce trasformata in MIDI. Prendiamo i suoni e gli ambienti dai nostri pezzi (anche inediti) e li espandiamo usando queste forme di controllo, sovrapponendo elementi da un pezzo all’altro nel tentativo di creare un unico brano lungo e scorrevole. Il tutto accompagnato dai video creati sempre da Brenna Murphy e da un software che reagisce ai suoni che arrivano dal nostro segnale audio generando e manipolando colori.