Ripensare #metoo
Parecchi anni fa mi trovavo con due amici, un ragazzo e una ragazza, su un tram a Milano. Una volta scesi, mi accorsi che la mia amica era visibilmente scossa: uno sconosciuto, approfittando della calca, le aveva eiaculato addosso. Io ero indignata, le dissi che avrebbe dovuto fare qualcosa, mi misi – inutilmente – a rincorrere il tram decisa a fermare il responsabile e denunciarlo. La mia amica piangeva, umiliata e ferita dall’accaduto. Il ragazzo che era con noi, uno dei miei più cari amici fin dai tempi della scuola, non capiva il nostro sgomento. Minimizzò: era una scocciatura, ammise; ma bastava lavare il vestito.
Litigammo furiosamente, gli dissi che non poteva capire per via del suo privilegio, non capiva la paura che prova una donna in questi casi, né che cosa significasse subire un gesto che ti riduce a oggetto sessuale. Rispose che anche a lui era capitato di essere vittima di molestie sessuali, e anche di aver avuto paura: era ancora alle medie quando in una città straniera un tizio che gli aveva promesso del fumo si era fatto seguire in un vicolo e si era abbassato i pantaloni. Episodi sgradevoli, ammetteva lui: ma non più sgradevoli di altri, più pericolosi e/o più umilianti. A questo punto mi si aprivano due possibilità retoriche: minimizzare a mia volta le sue esperienze, sostenendo che non fossero paragonabili a quelle vissute dalle donne, in virtù di un essenzialismo che ho sempre rifiutato; oppure convincerlo del dramma che aveva vissuto, creando ex post un trauma che non era stato elaborato come tale. Quel poco di onestà intellettuale di cui disponevo allora, mi suggeriva che nessuna delle due strade fosse opportuna.
Certo, si può obiettare, c’è una terza via: quella di riflettere sulla differenza di percezione che distingue persone socializzate come maschi da quelle socializzate come femmine, per capire come mai quella che per i primi è semplicemente una «scocciatura» venga vissuto come un trauma dalle seconde. Ed è proprio quello che vorrei tentare in questo (lungo) intervento, che arriva nei giorni in cui si ritorna a parlare del dopo-Weinstein e degli effetti della campagna #metoo, appelli firmati Catherine Deneuve inclusi.
Dichiaro da subito che sono consapevole che le conclusioni a cui arriverò potrebbero essere lette come «fuori dal coro» se non addirittura come un tentativo di screditare il movimento e difendere il privilegio maschile. Come ha recentemente notato Loredana Lipperini, in questi giorni «non è quasi possibile tentare un distinguo senza finire dalla parte delle “nemiche delle donne”, senza sentirsi accusare di difendere il maschio padrone per proprio tornaconto personale, di essere ancelle del patriarcato […] o di essere indifferenti, essere le egoiste che pensano ad altro invece di saltare, ora, qui, di corsa, sulla barricata». Ma Lipperini si chiede anche, giustamente, «Quale barricata, intanto? E quel salto dove vuole portare?» È da qui che vorrei partire anch’io.
I meccanismi della confessione
Per scongiurare eventuali strumentalizzazioni, mi sembra in ogni caso doveroso premettere due cose: che il mio intervento intende offrire una riflessione interna al movimento femminista stesso; e che l’esistenza di due fronti (uno «pro-privilegio» e uno «anti», la cui linea di separazione pare corrispondere a quella tra generi maschile e femminile) fa precisamente parte del discorso mistificante sul quale una serie di avvenimenti di fondamentale importanza rischiano di venire appiattiti.
Come sappiamo, l’attenzione che i casi di molestie sessuali ricevono nella narrazione contemporanea – specie quelle che riguardano donne e bambini – tende a considerare l’abuso o la molestia sessuale «peggio» di altre forme di violenza (fisica, simbolica, sociale, economica, politica e così via). C’è un motivo: la sessualità, ci ripetono, è una sfera intima e individuale, un ambito «inviolabile» della nostra esistenza, così personale da risultare particolarmente sensibile. Eppure non è così per molte persone, come dimostra il mio amico di cui sopra. E a ben pensarci, solo Maria Goretti preferirebbe perdere la vita piuttosto che la virtù, così come esistono svariati fatti cui quotidianamente assistiamo altrettanto preoccupanti e lesivi della dignità degli interessati di molti racconti (sgradevoli, certo) che mi è capitato di leggere sulle bacheche di molte conoscenti durante la campagna #metoo; eppure non suscitano hashtag, né un’attenzione mediatica vagamente paragonabile all’ondata di «tutte le molestie, minuto per minuto» che ha affollato i social e la stampa negli ultimi mesi.
Il sesso vende, si sa. Nell’ossessività voyeuristica con cui sono stati riportati i fatti da parte dei media c’è sicuramente il desiderio di svelare cosa succede dietro le porte chiuse, di titillare il pubblico con storie osé, di sfruttare ancora una volta il corpo delle donne mentre se ne denuncia lo sfruttamento. Fin qui, niente di nuovo. È lo stesso paradosso a cui abbiamo assistito in Italia ai tempi del bunga-bunga: la difficoltà che molti (io inclusa) ebbero ad aderire al movimento Se Non Ora Quando, derivava in buona misura da un’indignazione morale di matrice conservatrice suscitata dallo scandalo sessuale. Questa indignazione puritana ebbe però l’effetto di mettere in ginocchio Silvio Berlusconi, come spiega Ida Dominijanni nel suo magistrale Il trucco: sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi. Un caso in cui il fine ha giustificato i mezzi, si potrebbe pensare col senno di poi. Nell’impossibilità di prevedere ora quali saranno gli effetti di questo nuovo sollevamento popolare, penso però ci sia un altro discorso da fare: partendo dalle dinamiche dei media e dall’interesse da questi dimostrato per la questione delle molestie, possiamo arrivare a capire quale sia l’investimento individuale in questo tipo di narrazione, a cominciare da quello delle vittime.
C’è una grande differenza tra Se Non Ora Quando e #metoo: mentre chi partecipava al primo movimento lo faceva nel segno dell’indignazione e della superiorità morale, #metoo ha avuto l’indubbio merito di portare a galla la vastità e le dimensioni delle molestie subite dalle donne; al tempo stesso, però, nel meccanismo di «confessione» di foucaultiana memoria, a emergere è anche un’incapacità di prendere le distanze dalla violenza subita. Su doppiozero, in un intervento per molti versi condivisibile, Franco Palazzi sostiene che la campagna #metoo «è focalizzata su una – potentissima – rivendicazione di spazi di autonomia e libertà, sul rifiuto dell’auto-colpevolizzazione, sul superamento della vergogna prodotta da norme sociali patriarcali». Ecco: da persona che avrebbe un lungo elenco di #metoo da consegnare alla rete, mi permetto qui di dissentire, specie sulla questione del rifiuto dell’autocolpevolizzazione e della vergogna. Al contrario, la mia impressione è che, nei modi in cui #metoo si è col tempo dipanata, l’accaduto narrato venga riportato come qualcosa che continua a perseguitare (haunt) la vittima: qualcosa che fa parte della sua identità, che addirittura la definisce.
Se nessuno vuole mettere in discussione le nobili intenzioni da cui #metoo è nato, mi pare però che i suoi meccanismi nascondano un rischio: e cioè quello di creare una gerarchia sociale che oserei definire competitiva tra episodi di diversa importanza, e allo stesso tempo una rete di «solidarietà» virtuale che polarizza i due «popoli» di vittime e carnefici in una petizione di principio che produce identità e senso di appartenenza. Il pericolo, è che il prodotto finale porti a un sillogismo perverso: sono stata una vittima (di un ricatto, una molestia, un abuso) ergo sum (femmina); viceversa, se sono di sesso femminile avrò sicuramente un episodio di discriminazione di genere o di molestia sessuale da raccontare: basterà andare a cercare nella memoria. Utilizza questa condizione di vittima per ribaltare le dinamiche, la tua parola è potere, esercitalo sui social, entra a far parte della nuova tribù di donne empowered!
Ma quello che mi interessa è, come dicevo, un discorso in buona fede. Né dietrologie né scapegoating mediatico, quindi mi domando: cosa fa sì che la molestia sessuale venga percepita come così imperdonabile, grave, traumatica da così tante donne? Una risposta, è che questa percezione sia legata a un «senso di colpa» che si pretende di eliminare attraverso la confessione e la pubblica accusa; la soluzione freudiana classica vuole proprio che la donna tema la seduzione perché in realtà la desidera: la necessità delle donne di reprimere il proprio desiderio in epoca vittoriana (e ancora oggi, come vedremo) era ciò che generava la paranoia e i traumi che riemergevano sotto forma del sintomo isterico. Come notoriamente sostiene Žižek, la donna per la quale lo stupro è più traumatico è quella che coltivava fantasie di stupro – cosa che rende lo stupro ancora più imperdonabile, contrariamente a quanto si potrebbe pensare. Sarebbe insomma il senso di colpa, il senso di coinvolgimento individuale, a rendere intollerabile il ricordo della molestia/violenza subita.
Ora, una simile posizione andrebbe intesa in modo un po’ più dialettico. Innanzitutto, se questo senso di colpa esiste, è legato a una sessuofobia connessa al corpo e al desiderio femminile che permane nella nostra società, e che il modo con cui si parla dei rapporti di genere dopo lo scandalo Weinstein non sta scalfendo, ma anzi confermando. Come sostiene Laurie Penny, ci hanno insegnato a pensare che per le donne il sesso sia qualcosa di subìto, più che desiderato. Pur non mettendo in dubbio il trauma percepito, possiamo però chiederci se questo trauma, più che nascere dai fatti stessi, in alcuni casi non nasca anche dal clima di terrore con cui si parla del sesso, dal fatto che il desiderio e il piacere femminile vengano ancora percepiti come un tabù, dal senso di colpa che le donne ancora provano e che per questo decidono di espiare addossando sull’uomo eventuali errori di valutazione che un clima diverso – un clima cioè in cui la sessualità femminile non sia più schiava di standard vittoriani – consentirebbe di archiviare con maggiore serenità.
È chiaro che non possiamo confondere il desiderio con un’imposizione; qui però voglio concentrarmi sulla narrazione emersa nel dopo Weinstein: e la narrazione che è emersa negli ultimi mesi, fatta di uomini predatori e donne che o si ribellano o acconsentono per opportunismo, riconferma una visione tutto sommato tradizionalista e rassicurante – un «discorso della vittima» che non sta facendo un buon servizio al redivivo femminismo degli ultimi anni, e che (come ha scritto Laura Kipnis) ha il problema di non essere abbastanza radicale. Ammesso che quello a cui si ambisce sia qualcosa di più del «buon senso», da parte dei maschi, di cambiare marciapiede se si vede una donna camminare da sola di notte. Quando uno dice «clima di terrore»…
Il problema è più profondo e più generale, e riporta al terrore di un conflitto sociale che ormai si è appiattito esclusivamente sul lato «bio» della diade biopolitica.
Lasciatemi essere se possibile ancora più esplicita: il terrore a cui alludo non è quello degli uomini che temono di «non poter più flirtare» senza rischiare di essere accusati di molestia; né mi riferisco a un generico terrore delle donne verso gli uomini. Il problema è più profondo e più generale, e riporta al terrore di un conflitto sociale che ormai si è appiattito esclusivamente sul lato «bio» della diade biopolitica: a fronte di un mondo sempre più deregolamentato e in cui tutele basilari e fondamentali sono state progressivamente smantellate, la società reclama contratti e tutele proprio in quella sfera che avrebbe senso restasse il più possibile a discrezione individuale, cioè il privato. Si vedano i matrimoni «per tutti» invocati dal mondo LGBTQI+, ma anche i «contratti» fatti di hard e soft-limits che vari esperti promulgano come bussola nel mondo degli incontri sessuali occasionali. E questo senza bisogno di arrivare a LegalFling, l’app in procinto di essere lanciata da un’azienda olandese che consente di garantire o rifiutare il consenso via smartphone prima di un rapporto sessuale.
La sessualità però è un luogo in cui il conflitto – che non equivale a dire l’abuso, né la violenza – è non solo inevitabile ma anche auspicabile, fruttuoso, necessario. Non c’è composizione senza differenza, non c’è incontro con l’altro se nel rapporto sessuale si incontra sempre e solo se stessi, l’idea di sé proiettata sull’altro, «rispettata» e mai «invasa» dall’altro. Chiaro, non si può negare che il livello di conflitto che ciascuno decide di tollerare nella propria vita sessuale vari moltissimo; e tuttavia, proprio per questo motivo ha senso che la sessualità rimanga personale, in un clima di apertura e ascolto (anche in sede giudiziaria, nel caso di accuse) che consenta a chi percepisce alcuni suoi limiti come violati di cambiare idea (se lo ritiene opportuno), di comportarsi riguardo al sesso sulla base del proprio desiderio, insomma di autodeterminarsi senza che esista una narrazione prescrittiva, normativa e aprioristica riguardo a ciò che il sesso dovrebbe essere.
I casi più eclatanti di «neopuritanesimo» emersi ultimamente (la petizione contro l’esposizione dei quadri di Balthus, il revisionismo di Libération riguardo a Blow Up di Antonioni, il finale della Carmen riletto in chiave «anti-femminicida») sono stati pesantemente strumentalizzati da chi intende screditare il movimento sorto attorno alle denunce; eppure va detto che l’incapacità di accettare l’esistenza di una zona grigia riguardo alla sessualità (e alla sua rappresentazione) non sempre può essere derubricata a «deriva grottesca» del movimento: talvolta sembra essere proprio alla base delle sue premesse teoriche. Quando Gloria Steinem irrompe nel pop-up store newyorchese di PornHub additando l’oggettistica sadomaso come esempio di «violenza contro le donne», cosa ci sta dicendo? Che l’industria pornografica nasconde casi di abuso e sfruttamento? O che una pratica «non conforme» come il sesso sadomaso è per sua natura contraria ai diritti della donna, e che tutte le donne a cui piace praticarlo (e che magari non disdegnano di consumare pornografia) non rientrano nel suo ideale di femminismo empowered?
E questo è un punto. Ce n’è poi un secondo che è, se possibile, ancora più impopolare del primo. Il senso di colpa (che altro non è che l’interiorizzazione della retorica del «te la sei cercata») con cui le donne vivono il ricordo del sexual harrassement potrebbe avere un fondo di verità. Qui ci spostiamo dal piano del desiderio a quello dello scambio di favori, dal piano del sesso a quello del potere. Una donna potrebbe «non dire no», potrebbe non ribellarsi a un’avance non gradita e acconsentire a un rapporto sessuale non desiderato per i più svariati motivi: per insicurezza, per paura, per volontà di piacere e assecondare, o anche per un misto di tutte queste cose, come dimostra bene il racconto/caso letterario di Cat Person apparso sul New Yorker qualche settimana fa. Oppure, ancora, una donna potrebbe volontariamente accettare per ottenere qualcosa in cambio: potrebbe insomma usare il sesso come moneta di scambio. Una pratica a cui le donne, in quel mercato dei corpi nato dal binomio capitalismo-patriarcato, sono ricorse per secoli.
Al mercato del patriarcato
Dopo #metoo, sempre più uomini si sono uniti a un «mea culpa» che sembra rigettare qualsiasi responsabilità collettiva, per riportare un discorso per sua natura politico alla confessione del singolo, costretto a un «esame di coscienza», a pubbliche scuse e in generale all’idea che il cambiamento possa avvenire solo sulla base di una sensibilizzazione individuale e dunque «morale».
Contemporaneamente però, a emergere è anche un discorso apertamente misogino (basta dare un’occhiata alla stampa destrorsa e a tanti commenti «di reazione» online), che a sua volta trae le mosse da una posizione vittimistica («è colpa delle donne!») che è proprio quella alla base di molti casi di violenza domestica. Per citare un breve passo da un articolo sui centri antiviolenza italiani rivolti agli uomini, «Un elemento che si può rilevare è che tutti [gli uomini che commettono violenza o temono di potere arrivare a farlo] parlano delle donne come persone incomprensibili, ne forniscono quasi una rappresentazione persecutoria». Questa condizione di inferiorità erotica ed emotiva che gli uomini denunciano, cosa ci racconta? È possibile scoprire quali dinamiche tradisce e seguirne le conseguenze?
Partiamo da quello che sembra a tutti gli effetti un paradosso: nel «mercato» del sesso, anche l’uomo è «vittima». Se questa vi sembra un’iperbole (lo è), mettiamola così: quantomeno, diciamo che si ritrova in una posizione di «eccesso di offerta». Un uomo che esce da solo e va in un club la sera, ha sicuramente meno della metà delle possibilità di non tornare a casa solo di una donna: la sua prestazione sessuale è meno richiesta. Detta in altri termini, nella dinamica dello «scambio di favori», gli uomini detengono ancora oggi il potere economico e sociale; ma le donne possiedono, e da molto tempo, il «capitale erotico».
Questa condizione «di minoranza», tende a sua volta a riflettersi in quell’autopercezione vittimista da cui siamo partiti poco sopra. Žižek osserva che «oggi la celebrazione delle “minoranze” e dei “marginali” è la posizione maggioritaria predominante, tanto che persino l’Alt Right che si lamenta del terrore provocato dal politicamente corretto, si presenta come protettrice di una minoranza in pericolo». Questa nozione del soggetto come vittima irresponsabile, trasforma ogni incontro con l’Altro in una potenziale minaccia al precario equilibrio dell’immaginario del soggetto. Detta altrimenti, il soggetto in questione si costituisce come tale proprio in quanto costantemente vittima potenziale, costantemente minacciato, inerentemente «a rischio» nel rapporto con l’Altro – e cioè, nel caso di molti uomini, con la donna.
Che molti uomini si sentano impreparati in un epoca in cui sempre più caratteristiche «tradizionalmente femminili» vengono messe a valore (dal multitasking al self-management, dalla capacità di cura alla comunicazione e all’empatia), è facilmente comprensibile. C’è poi un tipico caso di dialettica servo/padrone. Potremmo cioè dire che, se facciamo un parallelo tra padrone/maschio e operaio/femmina, la forza lavoro/capitale-erotico-femminile è qualcosa che eccede la moneta di scambio. E se il lavoro rappresenta la condizione sia dello sfruttamento che dell’emancipazione, il capitale erotico che la donna investe nella società attuale è legato a qualcosa di più profondo: riguarda il bisogno umano di riconoscimento come oggetto del desiderio. Un bisogno che accomuna uomini e donne, e che implica una posizione persino più liberante di quella di soggetto desiderante: una di quelle cose, insomma, che «i soldi non possono comprare».
E però, per tutto il resto c’è Mastercard.
Facciamo un passo di lato: non si capisce il caso Weinstein se non si riflette sul modo in cui oggi consideriamo la prostituzione. Da un lato i conservatori (a sinistra come a destra) additano lo scandalo della mercificazione della sessualità, evidentemente ultimo baluardo di una dignità umana che non dovrebbe poter essere sussunta; dall’altro i progressisti (anche qui, su entrambi i fronti) invocano il sacrosanto diritto di autodeterminazione sul proprio corpo. Le due posizioni sono le stesse che si trovano quando si parla di «maternità surrogata» e «gestazione per altri»: da una parte, chi si illude che esistano ancora spazi avulsi dal Capitale; dall’altra, chi impugna la riduzione del danno e la libertà individuale.
In entrambi i discorsi comunque il dibattito avviene sulla donna: la donna che «vende il suo corpo», la donna che «affitta l’utero». Ciascuna delle due posizioni (quelle in buona fede almeno) crede di tutelare il soggetto donna. D’altra parte però, il soggetto donna si trova di fronte a una scelta: usufruire o meno del capitale di cui dispone. Perché di questo capitale, se mai servisse ribadirlo, c’è una domanda.
Questa domanda però, non viene mai indagata: la sua «naturalità» viene data per scontata e raramente messa in discussione. Una serie come The Deuce sullo sfruttamento della prostituzione e successivamente del porno a New York, pur nel suo minuzioso affresco di un mondo fatto di prostitute, protettori, poliziotti e uomini d’affari, ai clienti non dà un volto: sono l’unico segmento della filiera a cui non viene assegnato un personaggio. Perché? Perché potenzialmente chiunque potrebbe essere interessato ad acquistare prestazioni sessuali – o almeno così sembra.
Nella narrazione collettiva e contemporanea, la «necessità» di comprare sesso non sembra suscitare alcun interrogativo. Il desiderio di fare sesso deve essere soddisfatto, specie per un uomo. A qualunque costo. Questo ha a che fare da un lato con il «diritto alla felicità», ideologia tardo capitalista fatta di pubblicità di prodotti e stili di vita che in sempre meno possiamo permetterci; ma coinvolge anche qualcosa di più strettamente legato alla costruzione del maschile, nella misura in cui il maschio è il soggetto (neutro) per definizione. O almeno lo è stato finora.
Chi si comprerebbe la mucca quando può avere il latte gratis?
Il desiderio sessuale maschile è non solo accettato, ma anche incoraggiato e celebrato con straordinaria trasversalità in molte culture. Questo desiderio che si vorrebbe ipertrofico, questo diktat della virilità, questo indice dell’attività trasformativa dell’uomo sulla natura, è però spesso parecchio frustrato nella prassi, ancora oggi. Lo dimostra la sproporzione di uomini e donne sulle varie dating apps. E questo è senz’altro curioso, visto che la popolazione umana è divisa in uomini e donne circa al 50% . Come mai, allora? Forse che le donne hanno meno voglia di scopare degli uomini, etero o gay che siano? Ovviamente no.
Del «capitale erotico» costituito dalla sessualità femminile, abbiamo già detto. Ma poi c’è anche il fatto che per le donne «starci» è sempre stato (ed è ancora) un big deal. Viviamo ancora in un mondo in cui, per una donna, a chi la dai determina chi sei. Che tu lo faccia per voglia, per soldi o per noia, la tua scelta di darla andrà sempre e comunque giustificata. Non ci siamo mossi di un passo: per un uomo avere un alto numero di donne scopate alle spalle è un indice di valore; per le donne il contrario: lo dimostrano i casi di cyberbullsimo e slut shaming dalle conseguenze tragiche come nel caso di Tiziana Cantone.
Ma non è solo la paura della condanna morale e dello stigma sociale a fare sì che le donne se la tengano tanto stretta; o meglio, condanna morale e stigma sociale sono le sovrastrutture culturali che si intersecano a una questione molto materiale: e cioè che il sesso rappresenta per le donne, come dicevamo più sopra, un valore di scambio molto più alto di quanto non lo sia per gli uomini. Per le donne il sesso è un capitale su cui possono investire. Anzi: è l’unico capitale di cui poterono beneficiare quando la divisione del lavoro capitalistica – come spiega bene Silvia Federici in Calibano e la strega – stabilì che compito delle donne era quello di restare a casa a procreare. Quindi, a fronte di maschi non educati alla gestione della frustrazione e invitati a prendersi sesso con tutti i mezzi a disposizione – soldi/prostituzione, potere/ricatti, violenza/stupro – ci sono donne invitate a fare bene i loro calcoli. Perché, ad esempio, «chi si comprerebbe la mucca quando può avere il latte gratis?».
La cultura dello stupro, infatti, non si basa solo sull’elemento di violenza, ma anche su quello di repressione: mentre agli uomini non viene insegnata la sublimazione, alle donne viene imposta una repressione a cui è legato anche il neopuritanesimo benintenzionato dell’ultimissimo femminismo, che fa equivalere tout court il cat calling allo stupro, il complimento alla violenza, lo scambio di favori consapevole all’abuso. Piangere le vittime, in questo senso, è un po’ la stessa cosa che additare la svergognata carrierista: una donna che accetta di fare un pompino per lavorare in tv diventa una donna «disposta a tutto» per la carriera. È la stessa constatazione, sia che venga espressa con dolore dalle anime belle di Hollywood, che con sdegno dai fascio-misogini di Libero. Quando in realtà un pompino, dovrebbe essere autoevidente, è potenzialmente preferibile al lavorare in miniera, al non sapere come pagare le bollette e essere sfrattati da casa, ma anche a tanti lavori precari e sottopagati – o almeno lo è per molte donne.
Ribadendo la mia totale solidarietà alle vittime di attenzioni sessuali non desiderate e imposte in vario modo, resto molto scettica riguardo al manicheismo con cui l’opinione pubblica (anche di stampo liberal) ha affrontato il caso Weinstein. Far equivalere una dinamica sistemica al «trauma» dello stupro, conduce di nuovo a vedere le donne come inevitabilmente vittime di un desiderio maschile intrinsecamente predatorio, e dunque necessitanti di «protezione»: da parte di un uomo (ancora una volta), o da parte del potere costituito. Perché, di nuovo, sul posto di lavoro un ricatto sessuale ci sembra inaccettabile, quando sempre più persone pur di lavorare accettano ricatti che riguardano non solo il proprio salario e i propri diritti minimi, ma anche il proprio tempo, i propri sentimenti, la propria sfera intima ed emotiva? Non è la «partecipazione emotiva» il primo prerequisito essenziale che ci viene richiesto quando accettiamo un posto di lavoro (solitamente precario e mal pagato)?
Mettere alla gogna Weinstein come pura incarnazione del patriarcato, come porco impenitente che si approfittava del proprio potere, è problematico: perché la questione del potere è legata al genere solo nella misura in cui oggi sono storicamente e contingentemente gli uomini a esercitarlo in misura maggiore. Lo dimostra bene un altro esempio di fiction recente che si occupa proprio di dinamiche di genere: il romanzo Ragazze elettriche (in originale, non a caso, The Power) di Naomi Alderman. Nella distopia dell’autrice inglese, in cui il mondo diventa governato dalle donne che scoprono l’abilità di inviare scariche elettriche attraverso l’imposizione delle mani, si ripete spesso che l’esercizio della violenza e dell’abuso è una conseguenza diretta e innata della detenzione del potere. Perché lo fanno? «Perché possono farlo», è la risposta altamente «democratica».
E quindi: un mondo in cui le donne sono al potere avrebbe premesse migliori? Con buona pace di chi ancora crede nel binarismo di genere (incluse le differenzialiste), mi dolgo di rispondere che no. Perché il problema non risiede nell’impulso sessuale «intrinseco» ai maschi: un esempio ci viene dal fatto che sempre più donne ricorrono al turismo sessuale, o riescono a farsi sposare da giovani immigrati offrendo in cambio un permesso di soggiorno e un tetto sopra la testa. Questo non è sfruttamento? Non è un ricatto? Eppure, mentre tendiamo a compatire queste donne come «sole», «così tristi da ridursi a tanto», un uomo che fa lo stesso nel migliore dei casi ci fa solo ribrezzo, in quello peggiore è un «furbo», o addirittura un «bomber».
Concentrandoci esclusivamente sul dramma vissuto dalle donne molestate da Weinstein (che nessuno nega), continueremo a pensare che chi cede è vittima, mentre chi si rifiuta di cedere è un’eroina o una santa, mentre magari era solo nelle condizioni di rifiutare l’offerta. Si tratta invece di comprendere quanto le donne siano implicate nella questione come «agenti» (nel senso di attori dotati di agency, e cioè «coscienza della propria capacità di agire»). Non si tratta di andare a guardare i singoli casi e valutare quanto queste donne fossero opportuniste e/o consapevoli, né di fare victim-blaming: le donne hanno vissuto per secoli in una condizione di subalternità, e questo è un fatto; ma proprio per questo hanno adottato delle strategie di sopravvivenza – e non è certo colpa loro, come spiega bene Paolo Mossetti ancora su doppiozero.
Decolonizzare il sesso
In un contesto in cui ci viene continuamente imposto di mettere a mercato i nostri corpi e la nostra sfera più intima e individuale, cosa ci sorprende del fatto che qualcuno utilizzi il sesso per acquistare un po’ di potere? Se voler approfittare del proprio potere per ottenere del sesso, come fa Weinstein, ci sembra «inevitabile», perché non dovrebbe esserlo anche il contrario?
Come nel caso della gestazione per altri e della prostituzione, mi pare che il problema di questa sex negativity – che si applica sempre ed esclusivamente al corpo femminile, che non è che il rovescio di una società che utilizza il sesso sempre più massicciamente per vendere e che sempre di più vende sesso e corpi, ancora una volta femminili – abbia un’unica soluzione possibile. Prima di abbozzarla vorrei però riassumere quali sono i problemi che ho voluto evidenziare qui facendo un po’ d’ordine.
Il mio intervento, ripeto, non vuole misconoscere l’importanza capitale ed emancipatrice di quanto accaduto a livello di immaginario collettivo negli ultimi mesi; piuttosto, riguarda la necessità di non abbassare la guardia rispetto alle alte probabilità che questo cambiamento di paradigma venga nuovamente sussunto dal potere. Il primo problema è quello dell’interesse morboso per il sesso mostrato dai media, in cui il sesso, oltre a funzionare da «distrazione» rispetto ad altri urgenti problemi della contemporaneità, è utilizzato secondo la tipica dinamica dello scandalo: da un lato il discorso sul sesso viene sfruttato (quello che titilla, vende), dall’altro tacitamente e simultaneamente sanzionato.
Il secondo problema riguarda il primato eticista di stampo anglosassone/puritano. La questione politica scompare, e il problema viene affrontato come una questione di morale (e di etica – o etichetta – sessuale, per di più) cui segue una condanna spropositata che punendo magistralmente i «colpevoli» (è il caso di Kevin Spacey o di Louis C.K.) pretende di isolare le mele marce e lavare via il problema sistemico. Invece di incoraggiare l’occupazione femminile, di fare educazione sessuale nelle scuole, di finanziare i centri antiviolenza, di garantire aborto e contraccezione gratuiti, di stabilire il diritto al congedo di paternità (misure effettive che correggono la disparità tra uomini e donne) si lascia la questione alla condotta individuale, come si è sempre fatto, con i risultati a cui assistiamo oggi.
Poi c’è un terzo problema ancora più profondo e strutturale, e riguarda la tacita reiterazione del binarismo sessuale e della norma eterosessuale, accettate come un destino e sulla base delle premesse peggiori, che costruiscono maschile e femminile come due poli non solo distinti ma opposti nello spettro della violenza, tra chi perpetua e chi subisce. Quando si parla di questioni di genere, è d’altronde sempre «la donna» l’enigma da decifrare: il desiderio femminile, il linguaggio della donna, i diritti della donna… Questo dipende dal fatto che, mentre al maschio è concesso di essere individuo neutro, la «donna» (rappresentando da secoli il risvolto fantasmatico di una società tutta al maschile, l’«Altro», il diverso, l’alieno, in un processo di distanziamento e esotizzazione costruito a tavolino come in tutta la storia del colonialismo), ha iniziato a rappresentare un soggetto da scoprire, da definire. Come se dei bambini, giocando in giardino, decidessero che un cespuglio è una giungla inesplorata e poi ci si perdessero per davvero. E se invece invertissimo il problema? Se invece cominciassimo a ragionare sulla costruzione della mascolinità? Che di «naturale», se ancora non lo si fosse capito, non ha proprio un bel nulla: e allora perché non indagare questa mascolinità, decostruirla, smaschernarne il carattere di costrutto sociale?
Per chiudere, torniamo al trauma iniziale della mia amica e alla questione della prostituzione. Molti dei punti problematici che ho elencato sopra smetterebbero di essere un problema se iniziassimo a considerare davvero il sesso alla stregua di una qualsiasi altra attività umana. Questo implicherebbe come minimo una «riduzione del danno», e sancirebbe una volta per tutte la possibilità di autodeterminazione dei subalterni, autorizzati finalmente a disporre delle proprie risorse come meglio credono. Vale per gli «uteri in affitto», vale per le prestazioni sessuali dei sex workers, per i pompini in cambio di un lavoro.
Messa così, può sembrare l’ennesimo invito alla deregulation. E invece, una volta avvenuto questo (che non è che una misura cautelare e se vogliamo un pizzico accelerazionista) si potrebbe finalmente iniziare a riflettere sulla necessità di non applicare un cartellino col prezzo anche alla sessualità. Si potrebbe ragionare sul paradosso dello sdoganamento sessuale e della sua mercificazione senza alcuna remora, e lì attivarsi per demercificare e decolonizzare dal Capitale anche tutti gli altri spazi della vita, a cominciare dal lavoro. Potremmo insomma tornare a pretendere di lavorare di meno e scopare di più: a partire dagli uomini, la cui abissale solitudine non risiede in una qualche paura della «donna emancipata», quanto nella costruzione sociale stessa di una mascolinità che si illude di potersi accontentare di comprare o «rubare» un corpo per appagare il desiderio sessuale. In fondo non c’è niente di meglio del rapporto sessuale per comprendere che la proprietà privata è un furto.