Santa Maria Mieli
Capita giusto a proposito la ristampa di Elementi di critica omosessuale, mai replicata dopo l’edizione Feltrinelli del 2002 che faceva seguito all’originaria edizione del 1977 e anticipata da una petizione che la chiedeva fortemente. Un bel San Sebastiano del Perugino (1493 circa) in copertina, un’edizione maneggevole e tascabile, un volume tutto sommato all’apparenza innocuo: il santo protettore di noi povere frocie c’è, la veste rispettabile del volume teorico pure, e per di più il tutto arriva finalmente in edizione economica (12 euro; nel frattempo, sia detto per dovere di cronaca, continua a circolare su internet la trascrizione condotta da Antagonismo Gay sull’edizione Einaudi del 1977). Fiancheggiamento delle politiche queer nell’intuizione di un loro ritorno di fiamma all’indomani delle unioni civili? O piuttosto – il dubbio è lecito – si tratta del fiuto per l’individuazione di una nicchia di mercato (non grandissima, per carità) che individua in Mario Mieli, autore del libro, una figura cruciale e un punto di conflitto irrinunciabile?
Indizio: questa ristampa arriva non tanto a seguito della petizione su Change.org che ne chiedeva il ritorno in libreria, e che pure deve aver giocato qualche ruolo; piuttosto, andrebbe collocata nel contesto in cui da qualche tempo la figura di Mario Mieli è stata rimessa al centro del dibattito prima dalle destre neofasciste e clericali, e poi dalle figure emergenti della Alt-Right all’italiana. È curiosa – ma non inaspettata – la linearità con cui si manifesta questo «panico eterosessuale» attorno a una personalità come Mieli: vera diva del FUORI! (il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), «regina» del movimento frocialista alla fine degli anni Settanta e performer più che sopra le righe, Mieli diventa – a oltre trent’anni dalla sua morte – l’obiettivo polemico perfetto per quei neofondamentalisti che nel migliore dei casi considerano gli studi di genere una «marginalissima moda intellettuale non più rilevante del balconing», nei peggiori paventano l’avvento di un’apocalisse queer anticipata da un gigantesco complotto ordito dal giender!!1!1 a partire da fantomatici progetti di omosessualizzazione generale della società e neutralizzazione delle «naturali» differenze di genere (un lavoro di ricostruzione delle strategie neofondamentaliste sta venendo condotto egregiamente dal blog Playing the Gender Card, da Sara Garbagnoli e Massimo Prearo nonché da Lorenzo Bernini).
Ma andiamo al sodo. Mentre il dibattito interno al mondo LGBT, queer e femminista riguarda come replicare all’avanzata di questi sinceri difensori della famiglia e dei valori tradizionali, resta il fatto che l’edizione mummificata di Elementi riproposta senza eccessivi sforzi da Feltrinelli (forse sarebbe stata più utile un’edizione rivista da chi attualmente si occupa, dentro e fuori l’università, di questioni di genere e queer) venga in aiuto solo in parte a una pluralità frammentata di movimenti. C’è una fatica evidente nel rilanciare una riflessione organica che da una parte tenga insieme il debunking del «complotto gender», e dall’altra elabori un approccio radicale e rivendicativo che andrebbe adottato su tutt’altro livello: e cioè nel dibattito pubblico vero e proprio, quantomeno per impedire che la battaglia per l’accettazione di pratiche, orientamenti sessuali e identità di genere non-etero e non-cis si trasformi in una gigantesca operazione di «inclusione differenziale».
La figura e l’elaborazione di Mario Mieli sarebbero, su questo specifico livello, fondamentali. I nuovi clericofascisti se ne sono accorti capendo Mieli meglio di quanto si possa pensare, e sembrano ansiosi di togliere le bende alla mummia e farla camminare nuovamente sulla terra, così da inverare la tesi del gender-complotto. Dopo l’impasse delle unioni civili (di cui ha beneficiato soltanto la Norma che proprio Mieli pretendeva di «traviare»), nella palude dei gruppi WhatsApp per genitori preoccupati e delle petizioni contro il gender, nel marasma che ha costretto persino il Ministero dell’Istruzione ad adottare delle linee guida che scongiurino rosario dopo rosario l’ipotesi che tu c’abbia il figliolo finocchio, resta quindi solo una cosa da fare: smetterla una volta per tutte con le posture difensive, i travestimenti, i no, non è come pensate, noi frocie, lelle, bi, pan, trans*, asex siamo come voi. È insomma l’ora di essere incivili, di rivelare il Nuovo Ordine Mondiale dell’Apocalisse Queer. È il momento di riportare in non-vita Mario Mieli.
Fase 1. Il risveglio della Faraona: Mieli zombie
Togliamo allora le bende a questa mummia, e torniamo al luogo del delitto – anzi, di sepoltura. In un libro relativamente recente, Massimo Prearo sintetizza così la coincidenza cronologica tra la fine del FUORI, che dopo complesse vicende si estingue all’inizio degli anni Ottanta, e il suicidio di Mario Mieli nel 1983: «Il FUORI si era formalmente sciolto nel 1982. Con il suicidio di Mario Mieli, la politica rivoluzionaria della liberazione sembrava simbolicamente dismessa dall’immaginario militante omosessuale». Si apre così la (macro)stagione di militanza gay che conosciamo oggi, o quantomeno che oggi è maggioritaria.
Intanto, grazie all’«interesse» dei vecchi e nuovi clericofascisti nei suoi confronti, Mieli è già in una condizione di non-vita, o se non altro di non-morte. Come gli «spettri di Marx» abitano il mondo post-sovietico e interrogano ancora ogni movimento di liberazione, il corpo zombie di Mieli scuote i sonni dei neofondamentalismi e interroga la condizione presente dei movimenti LGBT e queer. Ed è un corpo mostruoso e abietto, difforme e non binario, un’esile figura androgina che batte il tacco e beve il piscio. Mieli zombie: d’altro canto è proprio la figura dello zombie che, specie al cinema, meglio incarna l’ossessione per la pressione crescente di masse di diseredati sempre più messi al margine, espulsi persino dalle periferie in cui erano stati relegati, e di volta in volta riemergenti con esplosioni violente di vetrine sfasciate, iPhone trafugati direttamente dal negozio, taccheggio generalizzato, incendio folgorante di auto e cassonetti; talvolta insorgenza che brucia in una notte, talvolta azione kamikaze individuale pronta a essere rivendicata dall’ISIS, talaltra ancora movimento organizzato e solido che con intelligenza individua i cervelli da mangiare dei vivi.
Il reincantamento è quindi già avvenuto, e non a caso nella forma di una mostrificazione stigmatizzante: se contro il corpo zombie di Mieli si scagliano esplicitamente i neofascismi, il suo spettro (suo, e del sepolto movimento frocialista) è continuamente esorcizzato da una parte delle tante persone che, per esempio, cercano coraggiosamente di portare l’educazione alle differenze nelle scuole. Anche gli uomini eterosessuali che meritoriamente vorrebbero riabilitarne la figura non riescono a sottrarsi dall’operazione (teorica e psicologica) di presa di distanza dall’estremismo di Mieli; «Mario Mieli, estremo e dimenticato», titola un recente intervento di Federico Sardo sul Tascabile: ed ecco quindi una Mieli depressa, pazza scatenata, figura estrema del conflitto con la Norma. E ancora: Mieli coprofaga, alchimista della deiezione, artista della provocazione pedofila. Figura da smussare, da far decantare in separate materie.
Da un lato assistiamo insomma all’interesse teorico dato dalla precoce vicinanza di Mieli alle «teorie queer», in una veste accademica compatibile con le aspirazioni weird di una parte dei maschi cisgender eterosessuali; dall’altro ecco l’eccesso, la pratica, l’urlo e lo scandalo, il travestitismo non come performance ma come esplosione del corpo in lotta. È proprio lì la pietra dello scandalo: servono dottrina e teoria che giustifichino i diritti (e mai gli storti), senza considerare che, parlando di genere, queste teorie non possono che originare da prassi individuali e collettive che originano da un’elaborazione autocosciente.
È Mieli stessa a mettere al centro della sua elaborazione il rapporto coi femminismi a lei coevi. Lungi dall’essere la pacificata antecedente della figura gay/maschile oggi egemone – quella normata e incoronata d’alloro dalle unioni civili – Mieli è teorico della doppia condizione dell’uomosessuale: partecipe del dominio maschile per collocazione sociologica, da esso deve fuoriuscire attraverso la pratica di una «transessualità» non limitata a quella che sempre Mieli chiama «transessualità manifesta» (ovvero la transessualità per come la conosciamo), ma come concetto che racchiude quello che ipotizza essere un ermafroditismo originario dei corpi, a sua volta corrispondente a un polimorfismo sessuale altrettanto primigenio.
La pratica di questa transessualità sta dunque nella fuoriuscita dalla sua latenza nella persona adulta (socialmente sottoposta, nell’infanzia, a una edu-castrazione) e in un riscatto del polimorfismo originario della sessualità infantile. Né si può dire che la pratica della transessualità sia rivolta soltanto ai maschi gay: lettrice tempestiva dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, Mieli trasforma la sua transessualità in un generalizzato invito alla sperimentazione indistinta dei corpi e dei piaceri; il desiderio diventa una macchina produttiva, e una volta rimossa la sessualità pensata dal punto di vista della repressione, i piaceri diventano un terreno aperto da esplorare.
Fase 2. Alchimia delle controcondotte: l’uso dei piaceri
Certo, sembrerà ingenuo a noi lettori e lettrici di oggi leggere un volume tanto impregnato di freudomarxismo: Maria Mieli, sei impazzita per Marcuse? Dell’Edipo, però – e su questo punto è cruciale la lettura di Deleuze e Guattari – Mieli non vuol saperne. Scrive in Elementi di Critica Omosessuale: «dal punto di vista gay, così come da quello femminista, non si può parlare di complesso edipico senza provvedere a una rifondazione completa delle teorie che lo concernono […], poiché l’omosessualità, in certo qual modo, nega l’Edipo».
Non basta l’omosessualità a uscire dalle categorie psicoanalitiche classiche: cosa che Mieli ben volentieri concede, ricordando la storicità e la determinazione sociale dei rapporti di genere in una struttura etero-patriarcale; ma ribatte anche, testi di Guy Hocquenghem alla mano, che «la manifestazione immediata del desiderio omosessuale si oppone ai rapporti di identità, ai ruoli necessari che l’Edipo impone per assicurare la riproduzione della società. La sessualità riproduttrice è anche riproduzione dell’Edipo». In passaggi del genere, troviamo già tutti gli elementi necessari per reintrodurre nel dibattito una critica a quei problemi bio-, tecno- e farmaco-politici che animano attualmente il confronto interno dei movimenti LGBT e queer, compreso il desiderio di successione riproduttiva/biologica (al centro della questione della gestazione per altri e della gravidanza surrogata), e le aspirazioni «matrimonialiste» che finiscono per riprodurre la struttura riproduttiva della coppia monogamica eterosessuale.
Beninteso, non si tratta qui di prendere una posizione reazionaria rispetto a questi temi, e di dichiararsi contro qualunque ipotetica invasione «tecnica» sul corpo (che peraltro già avviene abbondantemente anche senza far ricorso a pratiche «intrusive» come la gestazione per altri); né si tratta di schierarsi contro il matrimonio egualitario, verso il quale in ogni caso un obiettivo di medio termine è già stato raggiunto con le unioni civili: ma vedremo poco più avanti come risponde, anche sul piano dell’immaginario, la frocianza reazionaria a questa lacuna enorme nell’elaborazione attualmente maggioritaria nei movimenti LGBT.
E quanto è cruciale ragionare ancora della repressione, in un dibattito pubblico in cui il mantra più quotato è fermate il godimento, il Sessantotto ha liberato il Capitale? Il doppio discorso che anima la «nuova ragione del mondo» si rivolge paternalisticamente (e forse non si tratta tanto di un gioco di parole, quanto più dell’emersione a coscienza del carattere etero/patriarcale del Capitale) ai lavoratori e alle lavoratrici, a trans*, bi, lelle e frocie, al corpo sociale in disoccupazione generalizzata e tuttavia continuamente messo al lavoro (nel volontariato, nel consumo, nel lavoro di cura), chiedendo loro di continuare a lavorare, che per quanto potrà darà loro qualche briciola (di welfare, di salario, forse di reddito di dignità), ma sarà necessario nel frattempo disciplinarsi in una nuova configurazione del post-patriarcato in cui il patriarcato non è morto, ma vive semmai una vita passivo-aggressiva.
L’industria del ghetto è assai fruttifera: bar, club, alberghi, sale da ballo, saune, cinema, stampa pornografica per soli omosessuali costituiscono fonti di cospicui introiti per gli sfruttatori del cosiddetto «terzo sesso».
È ora di essere civili, svegliati Italia! È dunque l’ora di sposarsi, di curare al millimetro le barbe, di andare in TV a fare le troniste. Sorniona, la grande reazionaria Malgioglio sorride, mette il suo più furente abito rosso, l’occhialone da sole da ordinanza, il ventaglio raccattato dalle chinoiseries da vecchia zia che tiene nel baule in soffitta, e sghignazza che si è innamorato di tuo marito, il quale manzo spacca angurie col coltello e se le fa colare sui muscolazzi cotti dal sole del Sud Italia. E vogliamo contrapporre Tiziano Ferro a Madame Malgioglio? Reazionarie cule di regime 1, normalizzazione 0. Palle al centro.
Su questo punto, ipotesi repressiva (di Mieli, certo, ma anche del vecchio movimento di liberazione sessuale) e teoria della «governamentalità» (quella che i movimenti queer ed etero hanno sposato da Foucault in poi, e che Mieli non fa in tempo a integrare negli Elementi di critica omosessuale) si danno la mano. Scrive Mieli: «Protezione degli omosessuali, morale permissiva, tolleranza, emancipazione politica conseguita entro certi limiti nei paesi a dominio reale del capitale, tutto ciò si rivela in sostanza funzionale al programma di mercificazione e sfruttamento dell’omosessualità da parte dell’impresa capitalistica. L’industria del ghetto è assai fruttifera: bar, club, alberghi, sale da ballo, saune, cinema, stampa pornografica per soli omosessuali costituiscono fonti di cospicui introiti per gli sfruttatori del cosiddetto “terzo sesso”. Il capitale opera una desublimazione repressiva dell’omosessualità. […] Ciò che bisogna tener presente è questo effettivo affiancarsi […] di aggressività e protezione nei confronti di noi gay».
Le maglie del potere insomma si allargano, ma solo per articolarsi più diffusamente e condurre la repressione negli anfratti più nascosti del sociale, per riportare invece a nuova e smagliante vita gli aspetti dell’abiezione sessuale che possono essere riscattati dal patto monogamico e matrimoniale – cioè da un patto di stampo eterosessuale e binario. Il posto per le pratiche difformi – per il kink, per il BDSM, per il dirty sex – è il porno, l’underground, i luoghi virtuali della produzione memetica nel tessuto dell’internet attraverso cui stigmatizzarle o rivendicarle (non si sa con quanti livelli di ironia). Al limite, possono essere accuratamente depurate e riproposte nella forma di Cinquanta sfumature di noia eteronormata.
Tanto più potente sarà allora leggere nelle pratiche che più fanno sobbalzare i clericofascisti. La pedofilia, per esempio, che Mieli tratta come uno dei numerosi tabù portati dall’edu-castrazione contemporanea, viene mostrata nel suo avere una definizione ambigua, nel suo presentarsi in luoghi ed epoche diverse con differenti soglie di età, al limite accettata e disciplinata come nel caso della Grecia antica; viene legata alla repressione della sessualità infantile (che non corrisponde esattamente al sesso penetrativo, contrariamente a quanto i neofondamentalismi vogliono far credere facendo cherry picking dal testo di Mieli); soprattutto, è analizzata nell’associazione tra pedofilia e omosessualità promossa dalla stigmatizzazione dominante, notando come sia condannata più quando si presenta come rapporto pederastico omosessuale che nel suo presentarsi nell’ambito dell’eterosessualità. Un altro esempio – forse anche più scandaloso – è l’invito a etero e omosessuali a trascendere il proprio orientamento prevalente nella palesamento della transessualità originaria, la celebrazione di matrimoni chimici attraverso panetti impastati di merda, cerume, fluidi corporei assortiti: lo strumento cioè per celebrare nuove alchimie dell’abiezione, delle quali tutta la popolazione mondiale omo, bi, trans, non-binaria continua a essere costantemente accusata salvo il riscatto di una normalità che è sempre subalterna e sempre a rischio di revoca.
E se di Kevin Spacey fa più notizia il coming out che l’accusa di stupro da parte di Anthony Rapp, è ancora il segno che quella mossa paradossale che ai suoi inizi doveva essere la rivendicazione matrimonialista – più o meno quando Prearo colloca la sepoltura del vecchio movimento di liberazione omosessuale italiano – ha reso persino più contorto il rapporto con la perversione: come faremo ancora a presentarci come rispettabili frocie, se alcune di noi continuano a fare… esattamente le stesse cose che fanno alcune persone eterosessuali?
Ed ecco come tutto si allinea: l’interiorizzazione della norma eterosessuale conduce Spacey a un maldestro coming out per difendersi dalle accuse di pedofilia; contemporaneamente, buona parte dei commentatori LGBT si affrettano a specificare che quello di Spacey è un caso e che non rappresenta la totalità della popolazione LGBT; i neofascisti sorridono, hanno buon gioco, e rilanciano l’equazione tradizionale tra omosessualità e pedofilia. Su questo preciso scoglio si infrange la costruzione della rispettabilità gay: quello che su uno dei piani del conflitto può funzionare come avanzamento, specialmente se si parla di educazione nelle scuole – cercare cioè di depurare le figure delle sessualità non etero e dei generi non-cisgender – altrove viene rigiocato contro la fragile costruzione di soggetti che per aspirare alla Norma devono fare un continuo autodafè collettivo e individuale, quasi mai richiesto ad alcun maschio eterosessuale cisgender.
Non è necessario infatti stuprare un quattordicenne non consenziente per farsi espellere dal consorzio civile. Come per farsi ricondurre nel circuito dello stigma non è necessario dedicarsi alla coprofagia: basta semplicemente portare un orecchino di troppo o un tacco un po’ troppo a spillo; una minigonna più corta o un taglio di capelli troppo lesbo; delle labbra un po’ più gonfie, degli zigomi un po’ più alti; una performance e dei gesti non abbastanza allineati al maschile o al femminile. Tutto ciò che sta in mezzo – la commistione interminabile di maschile e femminile, non come archetipi ma come cassetta degli attrezzi della costruzione del genere – è spinto ai margini, relegato alle cantine.
Zombie, mostro, caso psichiatrico e disforico. È su questo punto che nuovamente Foucault e Mieli si incontrano: il concetto di transessualità in Mieli e la proposta foucaultiana di far valere «i corpi e i piaceri» guardano nella stessa direzione dello sperimentare piaceri per ideare nuove forme-di-vita, per rimettere in discussione la gestione politica dell’integrazione sessuale. Oppure, più semplicemente, per far incazzare quella vecchia reazionaria di Giovanni Dall’Orto, che ormai preferisce l’elaborazione di Diego Fusaro alla vicinanza ai movimenti LGBT e queer.
Fase 3. Santa Maria Mieli. Verso un’agiografia cyborg/ay
Altro che passi indietro. Santa, era Maria Mieli quando al Festival del Proletariato Giovanile di Parco Lambro si fa fischiare da comunisti e autonomi mentre scandisce slogan come «Pederasti di tutto il mondo, inculiamoci!». Non era più il momento di battere, ma di combattere. Santa lo era di nuovo a ridicolizzare Dario Fo in pubblico al convegno di Bologna sulla repressione nel ‘77.
«Oggi, al di là del mito», scrive Luca Scarlini, «è il momento di ritornare all’opera. E adesso [il libro su Mario Mieli di Silvia de Laude, ndr] è un ottimo punto di partenza». Solo che di letture, di esercizi filologici, di attacchi strumentali, di esorcismi e smussamenti, ce ne sono già stati fin troppi. Arrivati a questo punto, per andare davvero al di là del mito è il momento di passare alla santificazione. E come scriveva David M. Halperin in Saint Foucault, «diciamolo una volta per tutte: ai tempi in cui scrissi One hundred years of homosexuality [il libro per cui Halperin fu accusato di “venerare San Foucault”, NdR], Foucault non lo veneravo. Ma lo venero adesso: per quanto mi riguarda, era un cazzo di santo».
Benissimo, è arrivato il momento di dirlo anche di Santa Maria Mieli. Per quanto mi riguarda, «la Regina» era una cazzo di santa. Vaffanculo… ebbene sì! E su questo punto andrà naturalmente ricordato che ogni chiesa fa dei propri santi un po’ quel che le pare, no?
Santificare Mario Mieli mi sembra la prima – e necessaria – operazione possibile nella condizione che ho descritto. È una prima risposta anche alla domanda: a cosa può servire una frocia freudomarxista nel 2017? Anzitutto, a sottrarsi dalla prestazionalità insita nell’idea che le frocie debbano sempre giustificare sulla difensiva qualunque comportamento criminale o fuori norma che operano alcune o molte di loro; che debbano assumersi continuamente l’onere di distinguere raffinatamente tra comportamenti criminali, comportamenti non etici, comportamenti eterodossi; che debbano assumersi insomma, nella dimensione pubblica quanto nella dimensione lavorativa, il lavoro di cura tradizionalmente assegnato ai soggetti femminilizzati (cioè posti nella condizione di subalternità in cui storicamente è stato collocato il femminile e attraverso la stessa dialettica asimmetrica dei due generi storicamente egemoni), oggi componente fondamentale delle trasformazioni del lavoro – di tutto il lavoro.
Questa proposta di transessualizzazione generalizzata è già, in sé, il postumano che viene: contiene il germe di una politica cyborg che guardi agli ex-umani come ibridi di natura e cultura, di artificio e vita.
Ho parlato di «prestazionalità» perché mi pare che la tenaglia tra neofondamentalisti e neoliberali (ebbene sì, è tutta colpa del neoliberismo) giochi esattamente a istigare la giustificazione continua e la messa al lavoro di una macchina di normalizzazione che procede dall’interno dei soggetti queer quando vengono interpellati. Bisogna continuamente esibirsi in una prestazione di rispettabilità, da un lato per mantenere il regime etero-patriarcale, dall’altro per incanalare la soggettivazione in forme catturabili attraverso precise strategie aziendali come il diversity management, o attraverso quei circuiti del consumo che cita il testo di Santa Maria Mieli. Così come i ruoli di cura e di relazione tradizionalmente assegnati ai soggetti femminilizzati vengono «estratti» dal corpo sociale e re-immessi nella forma attuale del lavoro, così attraverso la costruzione di un «candido soggetto gay» che si contrappone al «mostro apocalittico frocio» dei neofondamentalismi si ottengono due effetti: la spendibilità economica delle identità di genere e degli orientamenti sessuali; la normalizzazione sociale volontaria dei soggetti non-etero e non-cis, restituendo così al campo del sociale ciò che la società della prestazione da esso cattura.
Da questo punto si può muovere oltre, perché è quello che ci consente di capire qual è il livello dello scontro in cui tocca risignificare il meme che i neofondamentalismi hanno fatto di Mario Mieli. Poiché in Mieli tutto è naturale, etero e omosessualità comprese; come si è visto, nella dimensione del perverso-polimorfo infantile, la proposta di transessualizzazione della società che ne consegue è tutta (contemporaneamente!) materialista e culturalista, e si gioca sul terreno del disfacimento di ciò che si continua a considerare norma biologica. Questa proposta di transessualizzazione generalizzata è già, in sé, il postumano che viene: contiene il germe di una politica cyborg che guardi agli ex-umani come ibridi di natura e cultura, di artificio e vita. Per dirla con Donna Haraway, «in questo nostro tempo mitico, siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo: in breve, siamo tutti dei cyborg».
Ed è a questa altezza di ambizione che si deve collocare la rivendicazione di Santa Maria Mieli: nell’epoca in cui LGBT può essere anche un prodotto finanziario e di puro pinkwashing aziendale, in cui il gay index può far crescere o diminuire il valore di un’azienda, in cui le forme di prevenzione o di cura delle malattie a trasmissione sessuale passa attraverso un mercato del farmaco completamente deregolamentato che dall’oggi al domani può decidere della vita o della morte di persone che necessitano di cure, in quest’epoca siamo già cyborg, fuori norma e contronatura. Santa Maria Mieli, prega per noi in quest’alba elettrica!